Archivi tag: percorso consapevolezza

evoluzione

L’evoluzione del nostro Essere

L’evoluzione del nostro Essere non avviene spontaneamente ma esige uno sforzo volontario e cosciente. Soprattutto essa richiede la capacità di dare spazio nella nostra interiorità a quegli Io in grado per le loro caratteristiche di favorire il lavoro su noi stessi. Inoltre l’evoluzione del nostro Essere necessità lo sviluppo della nostra Essenza…

Uno degli aspetti basilari del lavoro su se stessi al fine di aumentare la consapevolezza e coscienza di sé, è quanto viene detto a proposito della molteplicità di Io che si susseguono nel determinare il nostro comportamento e il nostro pensiero. Infatti, uno degli obiettivi iniziali di tale lavoro, raggiungibile attraverso l’auto osservazione, è proprio quello di rendersi conto che noi non siamo “uno”, non possiamo contare sull’unicità del nostro essere. Se un individuo non arriva a “vedere” questo di sé, ad essere cosciente della molteplicità del proprio essere, non potrà allentare una delle principali trappole che ci danno l’illusione della conoscenza di noi: l’identificazione con noi stessi, ovvero quel credere di essere quell’Io che in un dato momento domina la nostra psiche. Dobbiamo, dunque, imparare a renderci conto che noi non siamo un unico “Io” ma molti “Io” differenti. Una persona che non si accorge di questo e che, quindi, vive identificata con se stessa, non può riuscire ad evolvere il proprio Essere. Identificarci con ciò che siamo vuol dire rimane attaccati a ciò che si è, ossia privi di quella spinta necessaria a separarci dall’attuale livello del nostro Essere. Una persona in simili condizioni è fermamente convinta di conoscersi e quindi se gli chiedessimo di osservare se stessa non comprenderebbe tale richiesta ritenendola inutile e, comunque, sarebbe incapace di svolgere tale attività con oggettività finché non rinunci alla pretesa di essere un unico Io.

Quella che nel linguaggio del lavoro su se stessi è chiamata la “dottrina degli Io” ci dice, inoltre, che l’evoluzione del nostro Essere non solo dipende dalla consapevolezza della molteplicità degli Io, ma anche che dal fatto che un certo numero di Io, con certe caratteristiche, riescano ad ottenere una posizione sempre più preminente, fino ad arrivare ad avere un controllo crescente sugli altri Io. Si tratta di quegli Io che percepiscono che l’esistenza non si esaurisce nell’ordinarietà della vita, che desiderano e sentono che è possibile una evoluzione del nostro Essere, che comprendono la necessità di uno sforzo a tal fine e che sono pronti a compierlo. La posizione che questi Io debbono assumere e dai quali dipende la possibilità di evoluzione di un individuo, deve essere sempre più centrale  ed essi devono acquisire sempre più valore rispetto agli altri Io presenti in noi. La persona impegnata in un lavoro su di sé deve, via via, rendersi conto che è necessario stabilire una gerarchia nei propri Io; deve imparare a fare una certa distinzione e valorizzazione tra di essi specie nelle fasi iniziali del lavoro. Altrimenti, dal momento che è facile che un individuo possa essere sopraffatto dagli assunti della vita e dalle impellenze della quotidianità, è molto probabile che questi Io più propensi al lavoro possano essere sopraffatti e così, in un breve tempo, tale individuo che pur era partito con il piede giusto, si ritrovoverà a perdere il senso del lavoro pur avendone avuto un barlume.

Tale rischio evidentemente dipende dalle caratteristiche della persona oltre che dal livello di sviluppo raggiunto nel corso del lavoro su di sé. Se un individuo ha ben strutturato in sé quello che viene chiamato Centro Magnetico, basato sull’intima percezione che l’esistenza va ben al di là di ciò che appare sulla superficie e sulla conoscenza che esistono degli insegnamenti che parlano di tutto, allora per questo individuo sarà più facile resistere ai richiami della vita ordinaria che tenderebbero a riportarlo fuori dai binari del lavoro su se stesso. Egli, inoltre, saprà meglio difendere certi “Io” rispetto alle vicissitudini della vita quotidiana, saprà tenerli fuori dalla sua portata; al contrario per un individuo puramente materiale, per il quale esiste solo ciò che si può vedere e toccare, questa capacità di difendere gli Io più inclini al lavoro sarebbe impossibile. Il fatto di avere una moltitudine di Io, per cui una persona non è sempre lo stesso Io, rende possibile il fatto che alcuni di questi Io possano sviluppare un interesse e un desiderio per il lavoro su di sé. In caso contrario, ossia se ci fosse l’unicità del nostro Io, per molte persone tale possibilità non sarebbe data. Tuttavia, se l’evoluzione del proprio Essere esiste come possibilità per tutti, essa non è data per ogni individuo. Infatti, come già detto, tale evoluzione non è un fatto automatico come quella biologica ma solo il frutto di un lungo sforzo cosciente e voluto.

Quando nel lavoro su di sé si parla dell’evoluzione della persona, il riferimento è sempre alla sua Essenza. Possiamo, infatti, riscontrare in tutti noi non solo la presenza di una Personalità, ossia l’aspetto più esteriore di ciò che siamo, ma anche di una Essenza, qualcosa di più interiore e di poco visibile all’esterno. Dunque, quando parliamo di evoluzione si fa riferimento alla crescita di qualcosa di interiore in noi stessi, ossia alla nostra Essenza. Cerchiamo di comprendere meglio questo punto. La Personalità è la parte della nostra identità maggiormente esposta alle condizioni esterne e rappresenta il lato di noi più soggetto alle influenze della vita ordinaria. La Personalità è la nostra risposta alle vicende della vita sia passate sia attuali e con essa facciamo fronte alle esperienze a cui siamo sottoposti. La Personalità sta intorno alla nostra Essenza come fosse una corazza ed è comunque una parte molto importante nell’economia della nostra vita psicologica. L’Essenza è, invece, meno esposta alla vita ordinaria e possiamo immaginarla come una facoltà di profonda intuizione e sentire al di là della semplice evidenza e che determina un “accumulo” di memorie più vere e autentiche su di noi e sulla realtà che ci circonda. Dunque, noi “siamo” sia la nostra Personalità costituita da abitudini e strutture mentali di tipo adattativo e con una origine reattiva rispetto alle esperienze della vita, sia la nostra Essenza che ci rappresenta più profondamente e intimamente e che ha depositate in sé le nostre più vere aspirazioni realizzative. Ripetiamo: un individuo equilibrato ha bisogno di entrambe queste parti. Tuttavia, a volte può accadere che la Personalità diventi una corazza troppo stretta intorno all’Essenza, finendo così per soffocarla. È il caso in cui, per esempio, una persona rinuncia totalmente a quello che sente essere se stessa (a volte può giungere anche a non avere mai questa percezione) in favore di processi di rigido adattamento alla vita ordinaria e di totale identificazione con essa.

In questi casi l’individuo può arrivare ad essere totalmente separato dalla propria Essenza, anche se esternamente egli possa apparire come altamente organizzato o dotato di una forte personalità. Ora quando una persona è totalmente in potere della propria Personalità, secondo la psicologia alla base del lavoro su se stessi, non è un individuo completo e avrà grandi difficoltà ad far evolvere il proprio Essere. Allo stesso modo una persona eccessivamente soggetta all’influenza della propria Essenza e, quindi, con una debole Personalità avrà grandi difficoltà a vivere nella vita ordinaria e questo ci può far capire come la nostra Personalità sia quella parte di noi in grado di metterci in contatto con la vita esterna . Un individuo equilibrato ha quindi bisogno anche di far sviluppare una “sana” Personalità oltre che la propria Essenza. Tuttavia, mentre lo sviluppo di una Personalità funzionale è in buona parte il frutto dell’interazione con l’ambiente esterno all’individuo che ne plasma la struttura psichica e ne indirizza le reazioni, fino al cristallizzarsi il tutto nella Personalità, invece lo sviluppo dell’Essenza e il suo emergere come guida dell’individuo è il frutto solo di un lavoro e di uno sforzo consapevole della persona.

Queste due nostre parti per quanto entrambe necessarie, entrano tuttavia in lotta tra loro in certi momenti del lavoro. Infatti, per imparare ad ascoltare la nostra Essenza, per farla emergere, dovremmo apprendere a volte a rendere più passiva la nostra Personalità, ossia a disinnescare il pilota automatico con cui funzioniamo per affidarci a quanto la nostra Essenza suggerisce. In questo senso in talune circostanze tra Essenza e Personalità si crea attrito ed è proprio in questi casi che dobbiamo permettere alla nostra Essenza di essere più attiva. Ciò si realizza se consentiamo alla nostra persona di essere più legata a qualcosa di interiore, sviluppando la capacità di mantenere una certa integrità e coerenza interna a prescindere dalle circostanza esterne alle quali per abitudine tenderemmo ad adattarci anche rinnegando noi stessi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 40: La considerazione esterna: mettersi “nei panni altrui”

Leggi altro articolo: Come migliorare se stessi

considerazione esterna

La considerazione esterna: vedere gli altri

La considerazione esterna si basa su una forma particolare di relazione verso le persone, grazie alla quale sviluppiamo la capacità di adattarci agli altri, di comprenderli e di porre attenzione alle loro esigenze. Lungi dall’essere una falsa compiacenza degli altri, la considerazione esterna è una importante tappa del lavoro su noi stessi…

Il lavoro su se stessi ha molte sfaccettature e la strada verso la consapevolezza e verso un’evoluzione del proprio Essere passa anche attraverso i rapporti che abbiamo con le altre persone. Nella condizione ordinaria tendiamo “naturalmente” verso un egotismo di base: per noi vale il nostro punto di vista, le nostre ragioni, i nostri sentimenti, etc. Insomma i nostri Io la fanno da padroni e diventano il metro con cui entriamo in contatto con gli altri. Ma questa condizione “spontanea”, ovvero meccanica, del modo con cui funziona la nostra “macchina” comporta non solo che gli altri in quanto diversi da noi scompaiono, ma anche la messa in moto di tutte quelle lamentele, recriminazioni, situazioni di “conti in sospeso” che inquinano la nostra vita emotiva e i rapporti interpersonali. A questa modalità di funzionamento della nostra psiche abbiamo dato, in precedenza, il nome di considerazione interiore. La considerazione esterna è, invece, una modalità diversa da tutto ciò di entrare in contatto e in relazione con gli altri, usando i principi del lavoro su noi stessi per comprendere le altre persone e, nello stesso tempo, per continuare a lavorare su noi stessi e sull’auto controllo. In questo senso la considerazione esterna è del tutto differente dalla considerazione interna: se quest’ultima ci tiene ancorati all’esclusiva centralità di ciò che pensiamo di noi stessi e, di conseguenza, di ciò che ci aspettiamo dagli altri, la considerazione esterna ci richiede di metterci nei panni degli altri, valutando il fatto che questi sono delle “macchine” come noi e che il loro agire, fare o sentire proviene da un punto di vista differente dal nostro. La considerazione esterna  vuol dire adattarci agli altri, alle loro esigenze, comprenderli.

Facciamo un esempio: siamo seduti su una panchina di un giardino pubblico mentre nostro figlio gioca liberamente insieme ad un altro bambino; ad un certo punto la mamma di questo bambino lo rimprovera perché non vuole che si sporchi i vestiti con l’erba del prato e noi ci accorgiamo che nostro figlio rimane anche lui colpito da quel rimprovero. Se durante tutta questa scena noi fossimo sufficientemente presenti a noi stessi, ci saremmo potuti accorgere che internamente, via via, abbiamo cominciato a provare un certo fastidio. Infatti la “nostra idea” è che i bambini al parco vanno lasciati giocare in libertà e che non è educativo “mortificarli” con dei rimproveri che inibiscono la loro spontaneità. Per cui, facendo attenzione alle nostre emozioni faremmo caso che si è affacciata in noi una certa antipatia per quella mamma. A tutto questo diamo il nome di considerazione interiore: siamo centrati sul nostro Io del momento, vediamo solo noi stessi e i nostri giudizi. Ora se per caso interagissimo con la mamma in questione sulla scorta della nostra considerazione interiore, ne potrebbe nascere un piccolo conflitto perché, per esempio, le potremmo esprimere tutta la nostra disapprovazione per il modo in cui tratta suo figlio e sicuramente le mostreremmo anche la nostra emozione negativa nei suoi confronti. Cosa dovremmo fare, invece, se applicassimo la considerazione esterna? Per prima cosa ricordare di non dare corso alle nostre emozioni negative; quindi riflettere sul fatto che il comportamento di quella mamma è il frutto dei suoi automatismi e non deriva da una scelta volontaria e consapevole sia nei suoi contenuti sia nelle emozioni che esprimeva; e ancora, che esiste un punto di vista differente dal nostro che, seppur noi non condividiamo, può essere considerato valido da altre persone. E quali sarebbero le conseguenze di tale considerazione esterna? Sul piano dei rapporti eviterebbe l’insorgenza di conflittualità emotive (generatrice, per esempio, di relazioni basate sull’antipatia) e ci metterebbe nella condizione di capire meglio il nostro interlocutore proprio osservandolo come facciamo con noi stessi. Ciò non vuol dire condividerne le idee o le modalità di comportamento ma ci permetterebbe di esprimere il nostro punto di vista con meno emotività e rendendo, di fatto, più leggera l’interazione in questione.

Inoltre, imparare a considerare esternamente ci consente di continuare a lavorare su di noi dal momento che essa esige da parte nostra un grande potere e dominio su se stessi, una capacità di osservazione di sé, consapevolezza della nostra vita interiore e coscienza di ciò che pensiamo e sentiamo, oltre che una capacità di gestire le emozioni negative. La considerazione esterna è qualcosa che spesso sperimentiamo “spontaneamente” nella nostra vita ordinaria, tant’è che talvolta ci capita di voler non esprimere o mostrare ad un nostro interlocutore ciò che realmente pensiamo di lui o proviamo nei suoi confronti. Tuttavia, tale proponimento non sempre è possibile mantenerlo sia perché si presenta in maniera casuale e, quindi, non è il frutto di uno sforzo cosciente, sia perché in genere siamo molto deboli da questo punto di vista. Così può accadere di cedere rispetto a tale proponimento, e in questo modo finiremo per “spiattellare” al nostro interlocutore ciò che pensiamo di lui. Giustificheremmo il tutto dicendo di aver “deciso” di fare così perché non volevamo mentire o fingere, bensì essere sinceri fino in fondo. In realtà siffatta sincerità (così come la tanto elogiata spontaneità) è solo una scusa per nascondere la nostra incapacità all’auto controllo. L’evitamento della conflittualità emotiva con gli altri, così come lo sforzo di mettersi nei loro panni, non significa fingere di voler fare del bene mentre in realtà vorremmo, in taluni casi, il male dell’altro. Ai fini del lavoro su noi stessi non serve sforzarsi ad essere gradevoli agli altri quando invece li detestiamo. La considerazione esterna se correttamente compresa e praticata si basa sulla nostra sincerità interiore. Ma questo è un punto di arrivo in cui riusciamo veramente a capire la “posizione esistenziale” dell’altro (ciò, ripetiamo, non comporta la condivisione del suo agire) per cui il nostro atteggiamento di disponibilità non è frutto dell’ipocrisia, e tanto meno “un’opera buona”, ma il risultato di una sincera disposizione interiore.

L’attenzione alla considerazione esterna, per come un individuo è in grado di praticarla, deve vederci impegnati fin dalle fasi iniziali del lavoro su noi stessi. Questo perché se noi siamo troppo centrati su di noi non potremmo mai fare quel salto nello sviluppo del nostro Essere, riuscendo a disidentificarci dal nostro Io e divenendo capaci di guardarci intorno cogliendo la realtà e gli altri per quello che sono e non come vorremmo che fossero. Se la tazza da cui bevo il mio tè non ha un manico per afferrarla (e quindi devo usare entrambe le mani per berne il contenuto) non posso arrabbiarmi con essa perché è scomoda per me da prendere; dovrò adattare il mio bere alle sue caratteristiche e questo mi permetterà di “interagire” con lei; dovrò evitare di continuare a ripetere tra me e me che quella è una “stupida tazza” o che “il destino mi è contrario perché mi è capitata una simile tazza”.

Sicuramente ognuno di noi ha una modalità più o meno standard di rapportarsi con gli altri, frutto di abitudini e dei nostri specifici limiti. Attraverso questi “occhiali” vediamo gli altri e spesso, per tali motivi, non ci piacciono. Il lavoro su noi stessi non ci chiede di fingere che gli altri ci siano simpatici ma di cercare di lavorare sull’antipatia perché non si può considerare esternamente qualcuno se proviamo nei suoi confronti tale sentimento. Nelle relazioni con gli altri dobbiamo evitare la crescita “spontanea” e meccanica dell’antipatia. Tra l’altro, spesso, l’antipatia per qualcuno non è un sentimento stabile. Osservandosi con sincerità potremmo, infatti, accorgerci che quando siamo in uno stato negativo ci ricordiamo di una certa persona solo delle cose sgradevoli; quando, invece, ci troviamo in uno stato d’animo positivo tendiamo a dimenticarle lasciando più spazio a ricordi piacevoli. Quando lasciamo che sia l’antipatia a governare la nostra vita emotiva consentiamo volontariamente a pensieri e sentimenti sgradevoli sugli altri di occupare la nostra coscienza. Osservandoci noteremo che siamo noi a richiamare alla mente tali pensieri negativi per cui è importante apprendere a neutralizzarli. La considerazione esterna serve appunto a questo, a purificare la nostra vita emotiva da simile emozioni negative. Purtroppo la vita ordinaria non ci richiede di considerare esternamente gli altri, ed è per tale motivo che la sua pratica richiede uno sforzo cosciente. Facciamo un esempio per comprendere questo punto.

Un buon esempio di una persona che utilizza nella sua vita la considerazione esterna è il maggiordomo. Per praticare il suo lavoro egli deve essere un individuo molto intelligente: è necessario che sappia osservare ciò le persone gradiscono, essere attento alle loro peculiarità, a ciò che si aspettano che lui faccia, finanche comprendere ciò cosa le contraria. Deve essere dotato di una intelligenza che gli consenta di adattarsi alle necessità degli altri e avere una propensione a  farsi in quattro sempre per gli altri. Deve avere tatto nei modi di fare e sapere annullare se stesso al servizio altrui. Tutto questo è un ottimo esempio della considerazione esterna, salvo per un particolare: il maggiordomo fa tutto questo perché sta ricoprendo un ruolo e quello che lui compie è uno sforzo richiesto, un dovere. Al contrario nel lavoro la considerazione esterna è diversa rispetto alla medesima agita nella vita ordinaria. Nel lavoro la considerazione esterna deve essere praticata tramite uno sforzo cosciente e volontario, non imposto o richiesto; inoltre, dovrebbe maturare da una reale considerazione rivolta agli altri e non da un agire a noi estraneo. Sicuramente una persona a cui nella vita ordinaria è richiesta la considerazione esterna e, dunque, ne conosce il senso e pertanto è abituata a usarla, potrà capirne meglio il significato quando sarà impegnata nel lavoro su se stessa.

Potremmo comprendere l’importanza della considerazione esterna nel lavoro anche da un altro punto di vista: come pensiamo di poter far evolvere il nostro Essere tramite la consapevolezza di sé se continuiamo nel rapporto con gli altri a fare sempre “i conti” con il dare e l’avere, oppure ad usare un sottile disprezzo o parole che intenzionalmente desiderano ferire l’altro. Si capisce come, allora, la nostra crescita personale non è fatta solo di attenzione a noi stessi ma anche verso gli altri. Nel processo di acquisizione della coscienza, una cosa dipende dall’altra. Proviamo a fare un esercizio utile a lavorare su questo aspetto: per una settimana proviamo a considerare esternamente una persona a noi vicina. Osserviamo quelle che sono le nostre reazioni negative meccaniche nei suoi confronti; proviamo ogni volta che sentiamo nascere in noi un qualche fastidio verso di lei a considerare che ciò che sta facendo o dicendo è il frutto di quegli automatismi che spesso guidano anche il nostro comportamento; cerchiamo di non identificarci e facciamo attenzione al nostro parlare interiore riferito a questa persona e su che cosa esso verte. Cerchiamo di accorgerci che spesso pensiamo che questa persona debba fare cose in base alle nostre aspettative che si basano sul fatto che assimiliamo gli altri a noi. Impariamo così a comprendere che l’altro è realmente diverso da noi e che, quindi, si comporta in modo differente e che affronta la vita non come facciamo noi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 39: LA considerazione interiore

Leggi su: Come mostrare attenzione verso gli altri

considerazione interiore

La considerazione interiore

La considerazione interiore è una forma di identificazione per cui non solo esageriamo l’importanza e il valore di ciò che pensiamo, fino a pensarci al centro di tutto, ma finiamo anche per esagerare l’impatto su di noi del modo in cui gli altri ci vedono, quando questo “sguardo” ci rimanda una immagine di noi non in linea con i nostri giudizi

Tra le nostre dinamiche psicologiche che occorre meglio osservare per imparare a riconoscerle e su cui è importante lavorare, troviamo lo stato mentale della considerazione interiore. Di cosa si tratta? La considerazione interiore è una forma particolare di identificazione, ossia quella particolare condizione psicologica per cui diventiamo mentalmente un tutt’uno con l’attività che stiamo svolgendo o con la situazione che stiamo vivendo, perdendo il senso di noi stessi e ogni possibilità di vivere consapevolmente il presente. Ad esempio: siamo arrabbiati con qualcuno e in questa condizione non vediamo altro che la nostra rabbia, siamo un tutt’uno con essa e perdendo la cognizione di noi stessi e di tutto il resto. Come ben si può capire lo studio in noi stessi dei nostri stati di identificazione è una parte fondamentale del lavoro pratico su di sé, dal momento che un individuo in uno stato di identificazione è praticamente impossibilito a ricordare se stesso. Lo stato della considerazione interiore si verifica, allora, ogni qual volta ci identifichiamo con ciò che di noi pensano gli altri e con il modo in cui ci trattano. Tutti questi  atteggiamenti degli altri nei nostri confronti ci preoccupano fino, talvolta, a renderci sospettosi nei loro confronti, diffidenti e ostili. Siamo così presi dal modo in cui gli altri ci guardano o parlano di noi, dando una enorme importanza a tutto ciò. “Consideriamo” tutto questo troppo identificandoci con la possibile valutazione di noi che esprimono gli altri, finendo per dipendere da essa. Ma tutto questo accade perché in genere nutriamo una grande opinione di noi e perché ci riteniamo il “metro” di tutto

Così nasce la nostra predisposizione ad offenderci quando negli altri non troviamo riscontro a tutto ciò, quando ci confrontiamo con una mancanza di comprensione o apprezzamento che ritenevamo ci fossero dovuti. Per le medesime ragioni finiamo per manifestare il nostro non apprezzamento per tutto ciò che, secondo il nostro “metro”, ci appare ingiusto e illogico. La considerazione interna è, quindi, una forma di identificazione in noi stessi e, in conseguenza dell’assolutezza del nostro pensiero su di noi e sul mondo, è anche una forma di identificazione nei rapporti interpersonali con ciò che gli altri pensano di noi. Per via della considerazione interiore le persone prendono tutto in modo troppo personale, pensando di essere il centro dell’universo. Come abbiamo poc’anzi  ricordato una delle più importanti forme che assume la considerazione interiore è quella di pensare troppo a ciò che gli altri pensano di noi, fino a sentirci prigionieri di tale eccesso di considerazione e generando in noi, troppo preoccupati dello “sguardo degli altri”, una enorme perdita di energia.

Connessa alla enorme considerazione che abbiamo di noi stessi, troviamo un’altra forma di identificazione definita dall’espressione “saldare i conti”. Essa consiste nel fatto che una persona matura la convinzione che gli altri le debbano qualcosa, per cui sente di meritare di essere trattata meglio, di ricevere più riconoscimenti e ricompense, finendo per “registrare” tutto questo “dare e avere” in un libro di conti psicologici. Così facendo questa persona finisce per ritrovarsi frequentemente a sfogliare mentalmente questo libro, considerando internamente i crediti che sente di avere con gli altri, identificandosi con la sofferenza e il disappunto che gli genera tale ingiustizia. In questi casi si può finire a non pensare o parlare d’altro se non dei contenuti di questo libro di conti psicologici. Proviamo però a fermarci un attimo a riflettere su cosa voglia dire pensare sempre che qualcuno ci debba qualcosa; proviamo a osservare in noi stessi la presenza di questi conti psicologici e, fatto questo, proviamo a separarci mentalmente da tutto ciò. Ecco che avremo chiaro cosa ci richiede il lavoro su di noi. Occupiamoci ora di una ulteriore forma di considerazione interiore, premettendo che, anche in questo caso, per comprenderla occorre partire dall’osservazione di sé, unico strumento per cercare di rinvenirne le tracce nella nostra psiche. Non è, infatti, possibile lavorare su qualcosa di noi stessi senza prima averla vista agire in noi; bisogna, dunque, essere capaci di percepire il proprio stato interiore in un certo momento, distinguendolo rispetto ad altri stati concomitanti (comportamentali o intellettuali) e riconoscendolo prima di poterci lavorare sopra.

Questa altra forma di considerazione interiore viene definita dall’espressione “cantare la propria canzone”.Chiaramente si fa riferimento ad un cantare psicologico in cui, come con il ritornello di una canzone, ripetiamo mentalmente tutte le negatività, i torti, le ingiustizie, gli affanni della vita di cui ci sentiamo vittime lungo tutto l’arco della vita. Tutti questi aspetti sono stati ben incisi nella memoria e tanto più ci identifichiamo con essi, tanto più siamo bravi a cantare la nostra canzone che ci ripetiamo alla maniera di un tormentone senza averne consapevolezza. Alcune persone cantano la propria canzone senza interruzione, altre solo quando si lasciano un po’ andare e diventano allora “più sincere”. E allora le canzoni hanno contenuti del tipo: “come sono stato trattato male”, “la vita non mi ha mai dato delle opportunità”, “come erano belli i tempi in cui…”, “nessuno mi capisce o comprende le mie difficoltà”, “che errore ho fatto a fare quella cosa…”, e così via.

Riflettiamo sui motivi per cui, nel lavoro su noi stessi, è fondamentale imparare a sbarazzarsi da queste “canzoni” e togliere loro la centralità che in taluni casi hanno assunto nella nostra vita. Perché è bene ridurre al minimo queste canzoni o espellerle del tutto dalla nostra interiorità? La risposta è semplice: esse sono un impedimento interiore oltre al fatto che ci sottraggono energia. Infatti, nel percorso del lavoro su noi stessi chi continua a “cantare la propria canzone” non riesce ad andare al di là di se stesso, rimanendo vittima delle sue considerazioni. Così nei momenti di difficoltà, anziché diventare consapevole di se stesso sfruttando la crisi in atto, comincia a cantare la solita canzone rimanendo bloccato. In questo modo non riesce a crescere e a cambiare il suo livello di essere, andando oltre ciò che è. Per cambiare il nostro Essere è necessario non essere ciò che si è, ossia bisogna apprendere ad andare contro la proprio natura. Molte persone, invece, quando sono in difficoltà vanno in crisi ma continuano a fare sempre la stessa cosa, cioè continuano ad essere se stesse. Questo accade perché andare contro la propria natura vuol dire compiere uno sforzo, sperimentare un attrito e misurare la propria volontà. Così, in situazioni di disagio, è più facile iniziare subito a “cantare la propria canzone”. E se, in tali circostanze, a questa persona venisse mossa una critica o le si facesse notare con durezza ciò che fa, essa inizierebbe a compatire se stessa oppure si lascerebbe andare alla rabbia perché non la si comprende. Non di rado accade, infatti, che simili persone intrattengano relazioni solo con chi gli presti attenzione o con chi è facile cantare la propria canzone; dunque, se l’interlocutore si stufa e le dice di fermare quel ritornello, la persona in questione si offende profondamente e probabilmente troncherà il rapporto, mettendosi subito alla ricerca di un nuovo amico/a (o partner) in grado di comprenderla veramente.

Dovendo osservare in noi questo comportamento, teniamo conto che si può “cantare la propria canzone” anche solo interiormente e non apertamente. Così ci sono persone che, nonostante compiano sforzi per sviluppare la consapevolezza di sé, possono sentire che la vita o gli altri le abbiano effettivamente private di qualcosa, per cui sentono che dovrebbero essere più felici ma non vi riescono; spesso queste persone “cantano la propria canzone” segretamente per loro stesse. Questa forma di considerazione interiore è chiaramente più subdola perché, pur comportando per chi la attua una tristezza interiore e una specie di monotonia e di stanchezza mentale, fa fatica ad essere individuata proprio perché si sviluppa nelle persone fra sé e sé. Diventa allora una specie di tormento interiore non osservato e, sebbene ci ostacoli lo sviluppo e inquini il nostro Essere, può essere afferrata solo tramite una profonda e sincera osservazione di sé.

Infine una considerazione in merito al fatto che nel lavoro su noi stessi ci venga richiesto un sacrificio. Ma cosa occorre sacrificare? Si può ora comprendere il fatto che ciò che bisogna sacrificare è la nostra sofferenza molte volte espressa attraverso “canzoni” cantate esternamente o segretamente espresse. Vere o fantasiose che siano queste sofferenze che abbiamo così bene impresse nella nostra mente, debbono essere lasciate andare perché spesso nel modo in cui vengono usate favoriscono relazioni con noi stessi tristi che ci rubano la forza e che tendiamo a tirare fuori abitualmente come una maschera che indossiamo per non cambiare il nostro Essere.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 38: Pensare utilizzando nuove idee

Leggi sul meccanismo dell’identificazione

pensare

Pensare utilizzando nuove idee

Le idee su cui si basa il lavoro su se stessi offrono a chi desidera accoglierlo l’occasione di apprendere un nuovo modo di pensare. È proprio questo nuovo pensiero che deve andare a sostituire il pensiero che ci deriva dalla vita, per la quale non è essenziale che l’individuo sia consapevole e cosciente di se stesso…

Prendiamo in considerazione quegli individui che possiamo definire come possessivi non solo in senso tradizionale ma tutti coloro che hanno la tendenza ha identificarsi con ciò che ritengono un loro possesso. Essi sono un tutt’uno con gli oggetti o le persone che ritengono proprie e tenderanno ad esprimersi e a pensare in questo modo: “ti presto il mio libro, la mia automobile, etc.”, oppure parlano del “mio partner” o della “mia casa”. Sottolineare tale, in apparenza, semplice questione del possedere le cose non significa mettere in discussione il diritto del possesso, ma il tipo di sentimento che il più delle volte ad esso si accompagna. Il nostro “Io” che, in tali casi, insiste nel sottolineare questi possessi come una sorta di propria appendice, o che dice “mio” a tutto quanto gli appartiene, rivela una propensione ad una inflessibilità (“è mio e non si discute altro”) e ad una rigidità (“se è mio le cose stanno solo come stabilisco io”) che sono attributi privi d’intelligenza. Infatti l’intelligenza è una facoltà che, per prima cosa, si caratterizza per il potere di adattamento che essa riesce a sprigionare, ed è per questo che tutta la vera forza del lavoro su se stessi si basa sullo sviluppo della flessibilità (grazie al distacco, all’osservazione di noi stessi e alla non identificazione) e non della rigidità. Quando si parla del modo in cui è importante procedere nel lavoro su di sé, si afferma che uno dei compiti di chi vi si dedica sia quello di cambiare il proprio modo di pensare. Proprio questo discorso sul possesso ben si presta a dare una dimostrazione di cosa significhi tale mutamento nel pensiero. Nella vita ordinaria le persone sono portate ad avere una grande considerazione del cosiddetto “uomo forte”, ossia di un individuo fortemente legato alle proprie idee, mete e pronto a difenderle ad oltranza imponendole anche ad altri. Tuttavia, dal punto di vista del lavoro su di sé, esso è soltanto un individuo cristallizzato in ciò che egli considera essere il “mio pensiero”, sclerotizzato nella propria personalità (“questo sono io”), ossia nella sua “maschera”, ed incapace di prendere le distanze da questo suo Io.

Lavorare su se stessi vuol dire, allora, anche cambiare il proprio pensiero per assumere nuove idee capaci di promuovere un nuovo rapporto con noi stessi e con la realtà che ci circonda. Ma quali sono i due modi di pensare che si contrappongono tra loro? Questi spunti ci aiutano a sottolineare quelle che sono le differenza tra il pensare dal punto di vista della vita ordinaria e il pensare a partire dalle idee su cui si basa il lavoro su noi stessi. Normalmente le persone a causa del proprio agire meccanico e privo di consapevolezza, adottano per i processi legati all’apprendimento un modo di pensare che proviene dalla vita stessa, ossia un pensiero che non è in grado di “risvegliare” la nostra coscienza e mostraci come realmente stanno le cose. Ai processi della vita non occorre che un individuo abbia la consapevolezza della mutevolezza dei propri Io e della propria volontà, oppure del fatto che nel corso del tempo si passi da uno stato di identificazione all’altro; alla vita non serve che noi ci rendiamo conto dell’automaticità dei nostri comportamenti e del fatto che essi siano per lo più di tipo reattivo e sottoposti a semplici leggi associative. Il pensiero che proviene dalla vita non è di per se sbagliato o cattivo, ma solo funzionale alla vita stessa, ad un livello ordinario dell’esistenza. A questo livello della nostra esistenza tutti pensano secondo le proprie idee ed opinioni e ritengono anche che questo pensare sia libero, autonomo e frutto di una propria volontà. Alla vita ordinaria non serve che queste concezioni, in realtà frutto solo dell’immaginazione, siano contraddette.

Ma nel momento in cui desideriamo evolvere il livello del nostro Essere, trasformarlo, il pensiero proveniente dalla vita non ci è più di aiuto, anzi ce ne dobbiamo sbarazzare costringendoci ad una dura lotta con noi stessi. Dobbiamo, allora iniziare a pensare secondo le idee su cui si basa tale lavoro di liberazione e di risveglio; dunque, non è possibile dedicarsi a tale lavoro senza averne capito e compreso le idee, e senza sforzarsi di pensare secondo esse. Bisogna immergersi negli insegnamenti che ne sono alla base, così come deve immergersi nell’acqua colui che intende imparare a nuotare perché non è possibile farlo rimanendo fuori da essa o limitandosi ad osservarla. Se non si capisce questo tutti gli sforzi che si possono compiere poggeranno su di una base completamente sbagliata. Se impariamo a pensare partendo dalle idee del lavoro ci accorgeremo via via di vedere la vita secondo una prospettiva differente. Per cambiare il nostro Essere, per svilupparlo oltre il suo livello ordinario, è fondamentale pensare in un modo nuovo.

Dunque bisogna aver sempre presente che le idee alla base del lavoro su di sé ci danno gli strumenti e i contenuti per abbracciare un nuovo modo di pensare; di conseguenza ritenere di continuare a pensare con le concezioni che provengono dalla vita, e ad essa funzionali, e al tempo stesso cercare di seguire il percorso del lavoro su se stessi, significa mischiare le cose. Lavorare su di se mantenendo le idee della vita comune è del tutto impossibile. Chi sceglie la strada del lavoro su di sé dovrà apprendere a guardare la vita e ciò che in essa accade attraverso le lenti delle idee del lavoro e con essa imparare a interpretare la vita ordinaria. Ad esempio, uno dei primi passi da fare, in questo senso, è quello di non limitarsi a vivere reagendo ai fatti della vita e coinvolgendoci con essi, ma di assumere un atteggiamento di osservazione di noi stessi in momenti della nostra giornata e, ricordando quanto le idee del lavoro dicono sulla nostra consapevolezza, fare esperienza della totale mancanza di coscienza che regola il nostro agire. Se ci osserviamo sarà impossibile non accorgerci di questo.

Tale modo di procedere fa sì che le idee del lavoro vengano meditate ed assimilate, dandoci modo di dotarci di quella forza intellettuale ed emotiva in grado di permetterci di resistere all’attrazione che il modo di pensare derivante dalla vita esercita su di noi. Se questo processo non ha luogo il lavoro personale, incontrando difficoltà ed inevitabili fallimenti, fatiche e frustrazioni, perderà di forza. Più si procederà nel lavoro più questa forza acquisita per via dell’esperienza diretta delle idee del lavoro (cosa questa che ci farà sviluppare sempre più una nuova e oggettiva visione dell’esistenza )sarà in grado di farci resistere ai “richiami” delle vecchie modalità di pensiero, e più sarà possibile riprendersi dalle eventuali ricadute. Non dimentichiamoci, infatti, che il vecchio modo di pensare è più facile perché solleva ben pochi attriti nella nostra interiorità, non ci richiede di essere sempre all’erta, per cui come il canto delle sirene per Ulisse, esso eserciterà su di noi una notevole attrazione specie all’inizio del lavoro. Prendiamo l’idea da cui parte tutto il lavoro su di sé che dice che ogni individuo nel suo stato ordinario è addormentato e che, constato questo, esso può evolvere da tale stato nella sua vita. Ora, chi si sta approcciando alla questione del lavoro su di sé ed è venuto a contatto con le idee di questo sistema, si dovrebbe chiedere: sono riuscito ad avvertire in me questa idea dell’evoluzione del proprio Essere così come la intende il lavoro?, questa idea è entrata a far parte del mio pensiero? Nella nostra vita può esserci evoluzione coì come non può aver luogo; sicuramente questo processo non avviene in maniera meccanica o spontanea, ma deve svolgersi secondo un processo individuale e con uno sforzo cosciente

Non esiste, quindi, né un’evoluzione collettiva né casuale, ma tutto dipende da noi stessi in quanto individui. Anche queste sono idee alla base del lavoro su di sé e se si comincia a pensare a tale concezione dell’evolversi del nostro Essere e a come ciò può avvenire, ne riceveremo forza per lavorare su noi stessi. Durante lo sforzo del lavoro su di sé si apprende gradualmente a pensare in un nuovo modo, di pari passo con il cambiamento del nostro Essere. I vecchi assunti personali su cui basavamo il vecchio modo di pensare perdono di importanza in confronto alle idee del nuovo insegnamento. In questa maniera riusciremo a scappare dalla prigionia del livello di un pensare apparentemente libero e fatto solo di egoismo, di offese e di vantaggi personali, per acquisire un pensare che va al di là di noi stessi e delle nostre necessità. In un’epoca in cui ha valore solo ciò che è facile appare quasi un controsenso parlare di sforzo; in una cultura che ci vuole tutti appiattiti in una falsa uguaglianza sembra una provocazione parlare di evoluzione personale riservata solo a chi lavora su di sé. È, dunque, difficile indirizzare questi discorsi a persone che danno a se stesse molta importanza, che possiedono una esagerata idea di sé e di auto ammirazione. È difficile quando a queste persone il messaggio che viene indirizzato è quello che tutto ciò che le sostiene deve essere abbandonato perché frutto solo di una illusione. Sicuramente individui che hanno un’alta opinione di sé faranno grande fatica a prestare attenzione alle idee del lavoro. Sono queste le persone che, come detto all’inizio, pensano al “mio libro”, alla “mia automobile”, alla “mia carriera”. Solo quando in queste certezze si viene a creare una incrinatura o quando a causa di un malessere si comincia a pensare che c’è qualcosa oltre la “vita ordinaria”, per queste persone si apre la possibilità di avvicinarsi alle idee del lavoro su se stessi. Infatti, solo allora esse saranno in grado di “desiderare” una rivoluzione mentale e le idee del lavoro sono fatte apposta per questo, ossia per produrre una trasformazione. Solo allora esse possono agire su di noi come dovrebbero. Fintanto che questo non accade queste persone continueranno a pensare come hanno sempre fatto sicure del proprio valore e di sapere realmente ciò che è giusto o sbagliato, anche se – lo ripetiamo – tutto ciò è illusorio.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 37: Il lavoro psicologico

Leggi sul: Pensiero in psicologia

lavoro psicologico

Il lavoro psicologico

Lo sforzo che dobbiamo compiere per imparare ad osservarci è un lavoro psicologico. Questo perché attraverso tale sforzo riusciamo a entrare in contatto con il nostro mondo interiore e con gli stati mentali in cui di volta in volta finiamo per trovarci. Solo tramite questo lavoro psicologico potremo prendere la giusta distanza da tali stati per provare a cambiare la nostra posizione…

Il lavoro di osservazione di se stessi comporta uno sforzo dal momento che “naturalmente” le persone non contemplano questo tipo di attenzione , o almeno raramente e solo in particolari circostanze come risposta meccanica a certe situazioni e non come libera scelta. Lo sforzo che questa azione richiede è di tipo psicologico e proprio attraverso di esso è possibile per un individuo arrivare a comprendere di avere una psicologia. L’osservazione di se stessi richiede, quindi, un lavoro psicologico e intuitivamente ben sappiamo che si tratta di uno sforzo non facile da compiersi. Sicuramente ci troviamo a che fare con un’impresa ben più difficile di uno sforzo fisico: andare in palestra e far esercizi oppure svolgere le pulizie di casa o ancora costruire un muro con mattoni e cemento, sono tutte azioni che richiedono fatica per essere svolte, ossia necessitano di un nostro sforzo per essere eseguite. Le azioni appena elencate sono tutte degli esempi di un “fare” collegato al mondo esterno visibile e materiale e, dunque, sono azioni che si compiono nello spazio esterno a noi.  Tuttavia, è bene ricordare che ogni persona vive anche in uno spazio interiore, mentale o psicologico, rispetto al quale dovremmo compiere sforzi e “fare” un lavoro psicologico così come accade nello spazio esterno. L’osservazione di sé è allora un esempio di questo “fare” interiore, o meglio è lo strumento con cui possiamo muoverci e orientarci nel nostro spazio mentale.

La pratica del lavoro su se stessi parte proprio da questa considerazione: così come è possibile mutare la nostra posizione nello spazio esterno compiendo uno sforzo fisico, allo stesso modo possiamo cambiare la nostra “posizione” mentale  nel mondo interiore attraverso uno sforzo effettuato durante il lavoro psicologico. Questa considerazione ci permette di pensare che se un individuo può stazionare nel mondo esterno in un luogo migliore o peggiore, così nel suo mondo interiore può stare in un “posto” migliore o peggiore. Tuttavia, dal momento che le persone dubitano di avere uno spazio psicologico o quantomeno fanno fatica a pensarlo o ne sottovalutano l’esistenza, allora trovano difficile considerare il fatto che in un certo istante così come occupano uno spazio nello mondo esterno, abitano anche un luogo interiore. Così le persone finiscono per stare in un qualsiasi luogo interiore o psicologico, spesso subendo lo stato mentale in cui si trovano; eppure  se le facessimo ragionare rispetto al mondo esterno le stesse persone risponderebbero che mai desidererebbero stare in un luogo che le fa stare male e che farebbero di tutto per cambiare. Tenendo a mente questo esempio possiamo comprendere cosa vuol dire che ognuno di noi ha una propria psicologia e perché sia così importante imparare a considerarla tramite l’auto osservazione. Infatti, la psicologia di ognuno di noi possiamo immaginarla come la “geografia”, i luoghi interiori che ogni individuo frequenta. Così come nel mondo esterno viviamo in certi posti e siamo portati per abitudine a frequentarne certuni, così facciamo nel nostro mondo interiore. L’unica differenza tra il mondo esterno e quello interiore sta nel fatto che nel primo occupiamo posti situati nello spazio, nel secondo degli stati psicologici.

Proviamo a pensare a noi stessi quando ci troviamo in uno stato psicologico cattivo, per esempio quando stazioniamo in emozioni negative o pensieri che ci inquinano; in queste condizioni pensiamo a noi stessi come se ci fossimo posizionati nell’angolo più buio e scuro della nostra casa, seduti in terra e poco propensi a lasciare quel luogo. Potremmo, invece, facilmente alzarci e cercare nella casa un luogo più luminoso e comodo. Sappiamo come farlo perché siamo avvezzi a muoverci e a cambiare posizione nello spazio fisico. Teniamo presente che anche il cambiamento di luogo nello spazio fisico richiede uno sforzo e una fatica, oltre che presupporre la percezione della scomodità a cui siamo sottoposti e delle condizioni fisiche negative che stiamo subendo. Se non ci rendessimo conto di stare scomodi o di avere poca luce a disposizione non saremmo portati al cambiamento di luogo.

Più difficili sono, invece, le cose nello spazio interiore non solo perché siamo poco avvezzi allo sforzo psicologico, non sapendo cosa fare per cambiare il nostro stato mentale (a volte intuitivamente e casualmente lo facciamo, ma proprio perché tale sforzo non è intenzionale di esso se ne perde traccia). Ma la difficoltà maggiore sta nel fatto che non riusciamo a percepire in un dato momento la posizione psicologica interiore in cui stazioniamo: siamo così identificati con essa che tendiamo a subirla, incapaci di accorgerci dello stato in cui ci troviamo. Ecco allora l’importanza dell’osservazione di sé, perché è grazie ad essa che è possibile per noi percepire in ogni momento dove psicologicamente siamo, dandoci in questo modo la possibilità di cambiare posizione. L’auto osservazione ci dà modo di sviluppare la percezione di noi stessi rispetto al nostro spazio interiore e sapere dove siamo psicologicamente in un dato momento ci permetterà di conoscere ciò che noi siamo in quel preciso istante.  Il passo successivo all’avere coscienza di qual sia la nostra posizione psicologica nel mondo interiore, è quello di separarci mentalmente da questa condizione. Cosa significa ciò? Riprendiamo il paragone con quanto succede nel mondo esterno: quando siamo scomodi nell’angolo buio della casa noi non pensiamo di essere quella nostra “scomodità”, dal momento che questa è transitoria e non ci appartiene; allo stesso modo dovremmo fare con i nostri stati interiori, ossia non identificandoci con essi ma considerarli come situazioni transitorie del nostro Essere. Noi non siamo la nostra tristezza o la nostra noia, ma queste condizioni sono solo il posto dove siamo momentaneamente in quel tempo.

Da quanto detto se ne deduce che l’osservazione di sé, vero cardine del lavoro psicologico su noi stessi, non è un esercizio monotono e che, come per qualunque altra raccomandazione, va assunto da noi volontariamente e coscientemente, e non eseguito perché ci è stato ordinato. Dunque proviamo a sperimentarlo perché solo in questo modo se ne comprenderà il significato e gli si potrà dare il giusto valore. Così facendo ci accorgeremo che l’auto osservazione è un “atto di intelligenza pratica” perché grazie ad esso possiamo renderci conto di dove stiamo conducendo la nostra “macchina”. Se non osserva nulla in noi stessi, non riusciremo ad evitare nessuno degli stati del nostro mondo interiore; inoltre, finiremo per replicare giorno dopo giorno sempre la stessa vita, rimanendo negli stessi stati mentali. Proprio così facendo si arriva a pensare che essi, specie quelli negativi, siano normali e naturali, scontati e gli unici possibili. Noi diventeremo i nostri stati, finendo per cadere nella terribile trappola della speranza che sia la vita a cambiare (per generare in noi un mutamento) e non noi stessi.

Proviamo allora a eseguire più volte al giorno l’esercizio dello stop in cui, repentinamente, nel corso delle nostre attività ci intimiamo un “alt” per osservare dove in quel momento si sta interiormente e dove si sta andando. Imponiamoci volontariamente questo lavoro psicologico, facendolo più volte nel corso della giornata: potremo cominciare a vedere quale è la nostra psicologia e quali peculiari tendenze ci appartengono. Nel momento in cui si riesce a vedere tutto ciò non come “Io” ma semplicemente come la nostra psicologia, allora riusciremo a prenderne le distanze, cominciando a separarci da questi aspetti e mettendo le basi del cambiamento.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 36: La preoccupazione

Leggi altro articolo: Come prendersi cura del proprio benessere mentale

preoccupazione

La preoccupazione: cosa fare?

La preoccupazione è un’afflizione che inquina la nostra mente, rendendola prigioniera di pensieri ed emozioni negative. Come affrontare le preoccupazioni inutili, da distinguere da quelle oggettive? la risposta è sempre la stessa, ricorrendo all’uso di quel potente strumento nel lavoro su se stessi rappresentato dall’auto osservazione. Scopriamo come…

Quando iniziamo a lavorare su noi stessi, l’auto osservazione è la pratica di base da cui partire in quanto capacità fondamentale per l’acquisizione della consapevolezza di sé. Una questione importante che deve essere sottolineata è su cosa debba essere focalizzata tale auto osservazione. La risposta a tale domanda è semplice: l’osservazione di sé deve avere come riferimento le tre parti che compongono la “macchina” umana, ossia i nostri tre centri di funzionamento, quello motorio, quello emozionale e quello intellettivo. Ognuna di queste tre parti è come se rappresentasse un nostro differente Io. Così l’osservazione va portata sul nostro Io motorio (cosa fa il nostro corpo), sull’Io emozionale (cosa sentiamo, in quale stato emotivo ci troviamo) e sull’Io intellettivo (cosa pensiamo e cosa immaginiamo).

L’osservazione di noi stessi ci permetterà di “prendere contatto” con quella parte di noi, invisibile agli altri e percepibile solo individualmente, chiamata “se stesso”; questo aspetto del nostro essere in genere tendiamo a darlo per scontato, incappando così nel comune errore di pensare di conoscerci, quando invece ciò che sappiamo di noi è spesso solo in frutto di idealizzazioni o immaginazione. Focalizzare l’osservazione di sé sul funzionamento di questi tre centri ci permette di comprendere prima di tutto che noi, in un dato momento, non siamo un solo Io, così come non siamo una sola persona nel corso del tempo dato che manifestiamo spesso, nostro malgrado, in situazioni diverse volontà addirittura in contrasto fra loro o che si contraddicono. Questi tre centri su cui portare la nostra attenzione nel corso dell’osservazione di noi stessi lavorano simultaneamente: infatti, abbiamo in ogni momento delle nostra esistenza pensieri, emozioni e movimenti, che altro non sono che la risultante del funzionamento del Centro Intellettuale, del Centro Emozionale e del Centro Motorio. Questi tre aspetti noi – questi tre Io – pur lavorando simultaneamente sono del tutto diversi tra loro. Dunque, nell’auto osservazione finalizzata nelle fasi avanzate del lavoro su se stessi all’auto controllo, dobbiamo ricordare sempre che in noi c’è sempre “qualcosa” che pensa, sente e si muove.

Facciamo un esempio prendendo un “banale” comportamento motorio come aggrottare le ciglia. In base alla tripartizione della “macchina” umana esso è il risultante del funzionamento del Centro Motorio. L’accigliarsi è, tuttavia, concomitante alla manifestazione da parte del Centro Emozionale di un sentimento quale l’inquietudine oppure di uno stato di pensosità. Al tempo stesso queste manifestazioni dei due Centri si accompagnano al funzionamento del Centro Intellettuale nella forma di una serie di pensieri o immagini che si affacciano alla nostra mente. Così, come si evince da questo esempio una piena osservazione di noi stessi deve abbracciare tutte e tre le manifestazioni dei nostri Centri, cogliendo non solo la meccanicità di certi schemi per via associativa ma anche la simultaneità del loro funzionamento. Ad esempio, se avvertiamo in noi uno stato di tristezza, passiamo ad osservare quali pensieri stiamo facendo e che la alimentano; così come spostiamo l’attenzione sul nostro corpo e facciamo caso a “come siamo” quando siamo tristi.

Avventuriamoci ora, avendo chiarito questo aspetto nell’osservazione di noi stessi, nel prendere in considerazione una delle maggiori afflizioni con cui un individuo “tortura” se stesso: la preoccupazione. Per prima cosa è doveroso riconoscere che essa, al pari di molti altri stati d’animo negativi, prende forma quando siamo identificati con tutta una serie di pensieri e immagini prodotte dalla nostra mente. Ricordiamo che il meccanismo dell’identificazione comporta che la persona che ne è “vittima” diventi un tutt’uno con la situazione interiore (ma può accadere anche con eventi esterni che ci “catturano”) che sta vivendo, incapace di prendere le distanze da se stessa e poter dire “io non sono questa cosa che sto provando”. Quando siamo in preda alla preoccupazione ci sentiamo lacerati, oppressi e psicologicamente ritorti su noi stessi. Spesso mentalmente rimuginiamo e “rimestiamo” continui pensieri negativi su possibili conseguenze sfavorevoli e avverse, tant’è che uno dei segnali esteriori della nostra preoccupazione è il “torcersi le mani” o comunque il loro sfregamento. Ricordiamo, infatti, che ogni stato psicologico ha la sua manifestazione anche attraverso il funzionamento del Centro Motorio che, nel caso degli stati d’animo, si concretizza in certi specifici movimenti o tipiche posture. Così è facile osservare che quando siamo preoccupati tormentiamo le mostre mani, oppure ci mordicchiamo le labbra, o ancora il nostro sguardo vaga senza guardare. In generale gli stati d’animo negativi come i timori, l’ansia o la depressione tendono a manifestarsi nel nostro comportamento con tensioni e contrazioni muscolari, flessione e ripiegamento del capo o delle spalle, talvolta anche con una debolezza dei muscoli. Al contrario gli stati d’animo positivi non si manifestano in questo modo: in genere il funzionamento del Centro Motorio si caratterizza per  espansione ed estensione delle membra, comportamenti erettivi, rilassamento muscolare e da una sensazione di forza.

Apprendere a osservarsi ci metterà nella condizione di fare caso a queste manifestazioni comportamentali che segnalano uno stato di preoccupazione. In questo modo potremmo, prima di tutto, accorgerci di essere preoccupati quando magari non ci siamo ancora resi conto dei pensieri negativi che stiamo “ruminando”. Ma soprattutto essere coscienti di questi comportamenti del nostro Centro Motorio può far sì che noi iniziamo ad agire su di essi per contrastarli: smettere di aggrottare le sopracciglia e la fronte, decontrarre la bocca serrata, rilasciare i pugni chiusi e in generale smettere di trattenere il respiro e provare a rilasciare i muscoli. queste semplici operazioni opereranno uno spostamento della nostra attenzione e quindi un allentamento della nostra identificazione con le emozioni e i pensieri negativi.

Abbiamo detto poco più sopra che in ogni momento la nostra “macchina” contempla il funzionamento di tutti e tre i Centri che compongono la nostra persona. Di questi tre Centri il più difficile da controllare e gestire è quello emozionale specie per la sua rapidità di funzionamento. Nel lavoro su noi stessi esso viene paragonato ad un elefante “birbante” perché non addomesticato, ma affiancato ai lati da altri due elefanti addomesticati (il Centro Intellettuale e quello Motorio). Il primo passo, come sempre, è quello di avere coscienza, tramite l’osservazione di sé, della presenza in noi di uno degli stati emotivi negativi, ossia di quelle condizioni abituali ma non meno dannose come la preoccupazione, la noia, l’ansia, etc. Avere maturato l’abitudine ad osservarsi è fondamentale perché proprio questa dimestichezza con noi stessi ci dà quella sensibilità tale da farci rendere conto di tali stati di cui facciamo fatica a percepirne la presenza proprio perché sono per noi abituali. A questo punto possiamo utilizzare uno dei due elefanti addomesticati per “educare” quello birbante (Centro emozionale) data la difficoltà che le persone hanno ad affrontare direttamente le emozioni. Provare a usare il Centro Intellettuale, in questo caso, significa osservare il flusso dei pensieri e delle immagini che si susseguono nella nostra mente mentre siamo preoccupati. L’atto stesso di osservare questa produzione mentale ci fa prendere le distanze dalle preoccupazioni che stavamo ruminando e ci fa rendere conto come “giochiamo” con questi pensieri, usandoli come piccoli mattoncini con cui costruiamo il muro della preoccupazione. Osservare questa azione di volontaria manipolazione di tali pensieri ci aiuta a disidentificarci con la preoccupazione, riuscendo a cogliere l’oggettività della situazione (molte preoccupazioni sono il frutto di una immaginaria anticipazione di situazioni negative) e a valutarla con razionalità. Lentamente usando la nostra volontà possiamo arrivare a fermare la parte di noi che pensa la preoccupazione, compiendo un’operazione simile a quando abbiamo a che fare con un fuoco (la preoccupazione): questo si spegnerà se noi smettiamo di gettarci dentro della legna (i pensieri preoccupanti).

L’altro elefante addomesticato che possiamo utilizzare esercitando su di esso la nostra volontà è il Centro Motorio. Come detto in precedenza potremmo mettere in atto una serie di esercizi per rilassare e decontrarre i muscoli iniziando da quelli del viso, dell’espressione, degli occhi, della bocca, etc. Riprendiamo però per un attimo il tema della preoccupazione. È bene precisare che per quanto essa sia sempre uno stato emotivo negativo, bisogna fare una distinzione tra preoccupazioni oggettive e immaginarie. Oggettive sono quelle preoccupazioni  che possiamo provare quando siamo inquieti per la salute di una persona cara malata oppure perché dobbiamo affrontare una prova difficile e per noi significativa. Immaginarie sono quelle preoccupazioni costruite sull’immaginazione negativa e sui pensieri  avversi; un miscuglio di menzogne a cui dedichiamo tempo, basate su pochi fatti che ci raccontiamo.

Dunque, non dobbiamo ritenere che la situazione opposta alla preoccupazione sia l’indifferenza. Come detto, è lecito sentirsi in ansia per una persona in stato di pericolo, sperimentando un insieme di speranza e timore. Ma la preoccupazione di cui stiamo parlando e che ci affligge per molto tempo della nostra giornata, è ben diversa perché con l’entrata in gioco dell’immaginazione, essa si trasforma in abitudine fino a far sì che le persone ritengano meritevoli preoccuparsi di tutto.

Nella preoccupazione frutto dell’immaginazione non esiste per i nostri pensieri che si affastellano nella nostra mente un centro di gravità: non c’è per essi né una direzione né un obiettivo chiaro. Pensieri ed emozioni si susseguono senza un ordine, fluttuando nella nostra mente. Non sempre è facile smettere di preoccuparsi, data l’esistenza di situazioni in cui non è quasi possibile farlo. Eppure esiste una condizione, una tendenza abituale che porta le persone ad essere preoccupate per ogni cosa, cogliendo ogni avvenimento come motivo di preoccupazione e occupando con questi timori molto tempo della propria giornata. Contrariamente a quello che si possa pensare, preoccuparsi non vuol dire pensare ma significa spingere la nostra mente in uno stato emozionale confuso e oscurare ulteriormente il nostro pensiero. La preoccupazione non ci porta a prestare attenzione a qualcosa, operazione questa che ci aiuterebbe in ogni caso, ma ci spinge sempre più ad identificarci con i pensieri e le emozioni che la sostengono.

Infine una ultima osservazione che possiamo far partire dalla seguente domanda: la preoccupazione serve a qualcosa? La risposta è no e sì. No, perché la preoccupazione in quanto esperienza in sé porta in basso il nostro Essere e fuori dal nostro controllo. Si, perché nell’imparare a vivere dal punto di vista del lavoro su di sé,  la preoccupazione è un’esperienza che se vissuta consapevolmente ci offre l’opportunità di comprendere il modo in cui funziona la nostra “macchina” e l’occasione di agire su di noi andando contro la natura degli automatismi di tale macchina, per sviluppare il nostro Essere. La vita, in generale, è una immensa opportunità di crescita a patto che tra noi e la vita ci sia lo sforzo del lavorare su di sé. Solo in questo modo la preoccupazione come esperienza vissuta ci può far vedere qualcosa di noi stessi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 35: Le due linee dell’esistenza

Leggi articolo su: Come smettere di preoccuparsi

due linee

Le due linee dell’esistenza

Le due linee dell’esistenza di ogni essere umano sono i piani sui quali può svilupparsi la vita. Da una parte abbiamo il piano della vita ordinaria che scorre da quando nasciamo a quando moriamo. Dall’altra c’è il piano del nostro Essere, delle forme e dei livelli che questo può raggiungere. In una esistenza che mira alla pienezza dell’esperienza di noi stessi, le due linee dell’esistenza dovrebbero entrambe vederci impegnati in un lavoro fatto di consapevolezza. Tuttavia di questo secondo piano (quello dello sviluppo del proprio Essere), in genere, pochi ne sono consapevoli, eccetto rari sprazzi di consapevolezza subito spenti dal ritorno alla vita ordinaria… Vediamo insieme cosa accade in ognuna di queste due linee di sviluppo…

Quando pensiamo all’esistenza di un individuo potremmo raffigurarla graficamente utilizzando una croce e con essa visualizzare quelli che sono le due linee dell’esistenza umana. La linea orizzontale AB rappresenta quella che nell’accezione comune viene indicata come la vita di una persona; ne coglie la dimensione temporale dello svolgimento orizzontale, il fatto che ci sia un prima e un dopo. Esiste in questa vita una progressione, ma è di tipo orizzontale, ossia per quanti cambiamenti in essa possono verificarsi, comunque, l’individuo permarrà sullo stesso piano della propria condizione. Il fatto di essere più giovane o più vecchio, più ricco o più povero non cambia lo stato dell’Essere della persona che in questa condizione ordinaria continuerà a non essere consapevole di sé, ad non percepire la moltitudine dei propri Io rimanendo dell’idea di essere unico, a credere di avere una propria volontà e a non accorgersi della sua mutevolezza. Lungo questo asse orizzontale la vita avviene, si svolge in maniera meccanica e, in genere, le persone per tutta la durata della loro vita sono prigioniere di schemi ripetuti senza la coscienza di tale ripetitività. In questo piano, lungo questa linea orizzontale vivono la maggior parte delle persone, ignare della presenza nella vita anche di una linea di sviluppo verticale. Se gran parte dell’evoluzione lungo la dimensione orizzontale avviene anche senza che l’individuo faccia nulla, lo sviluppo lungo la linea verticale è possibile solo lavorando su se stessi.

Il punto C in cui la linea verticale interseca quella orizzontale rappresenta  il livello dell’Essere di una persona in un determinato momento della propria esistenza; dunque, la linea verticale sta a significare i differenti livelli dell’Essere in cui può posizionarsi una persona e, al tempo stesso, rappresenta la direzione dello sforzo cosciente che si compie quando si lavora su se stessi. Anche lo spostamento lungo l’asse orizzontale, quello della vita ordinaria, comporta uno sforzo, ma si tratta di uno sforzo meccanico: alzarsi la mattina dal letto, andare al lavoro, studiare, allevare i figli, etc. sono tutti sforzi dovuti per vivere e che è importante compiere per mandare avanti le cose. Ma per l’appunto si tratta degli sforzi richiesti dalla vita, necessari e non volontari e coscienti come quelli, invece, a cui ci si sottopone quando ci impegniamo nel lavoro su noi stessi. Gli sforzi della vita ci fanno muovere lungo l’asse orizzontale, quelli coscienti e volontari (non richiesti dalla vita) ci portano a posizionare il nostro Essere lungo la linea verticale. Lo sforzo del lavoro eleva l’Essere della persona. Ma cosa è il nostro Essere? Potremmo dire che l’Essere è dato dalla consapevolezza di sé e della realtà intorno che ha un individuo, e quindi dal livello del suo comprendere quanto accade a se stesso e agli altri; inoltre l’Essere di una persona si struttura intorno alla padronanza di sé ed equilibrio che è in grado di raggiungere. Come si può ben capire esistono diversi livelli che il nostro Essere può raggiungere e questa “salita” non è data automaticamente o spontaneamente, così come non avviene inconsapevolmente, ma solo tramite un lavoro su se stessi.

Tornando alla croce, possiamo dire che ogni istante dell’esistenza di un individuo può essere rappresentato in questo modo e il punto di incrocio della linea verticale con quella della vita indica l’ora, l’adesso. Questa è una visione oggettiva dell’esistenza di una persona, ma bisogna considerare che per la maggior parte degli individui che vivono solo lungo la linea orizzontale della vita, ignorando l’esistenza della dimensione verticale del vivere, può non esistere l’ora e l’adesso. Se viviamo totalmente identificati con la vita, se la nostra consapevolezza è addormentata, se siamo affannati solo dal passato e dal futuro, non c’è un’ora e un adesso nella nostra vita. In una siffatta esistenza si è oggettivamente trasportati dalla corrente della vita, illusi di essere noi stessi a nuotare e a scegliere la direzione, e quando si giunge a qualcosa che si desiderava questa è già diventata “acqua passata”. Così facendo, allora, non è possibile cogliere nessun punto di intersezione tra le due dimensioni dell’esistenza e il punto dell’ora e dell’adesso rimane privo di significato.

In realtà bisogna osservare che intuitivamente tutti noi sappiamo dell’esistenza di questa linea verticale, ossia dell’esistenza di stati del nostro Essere più alti o più bassi, perché tutti prima o poi abbiamo sperimentato momenti in cui rispetto a noi stessi ci siamo sentiti migliori o peggiori. Ed è per questo che, in potenza, la possibilità di accedere a questo piano verticale dell’esistenza è dato a tutti noi. Ma a parte questi sprazzi in cui abbiamo intravisto qualcosa, poi ritorniamo a dimenticarci di essi, rituffandoci nel flusso della vita e scordandoci di noi. Quando, invece, si inizia a lavorare su se stessi immediatamente si ha di nuovo la chiara percezione sia del proprio Essere sia del fatto che lo si può far sviluppare portandolo a livelli più elevati rispetto a quello ordinario. Se sulla linea orizzontale la posizione occupata da un individuo è una funzione del Tempo, sulla linea verticale la temporalità scompare, così il posto in cui si situa una persona è dato dal livello o qualità del suo Essere.

Considerando le due linee dell’esistenza, è possibile individuare due differenti tipologie di influenze che possono giungerci e che condizionano la nostra esistenza. Quelle che ci arrivano sulla linea orizzontale provengono dal passato (il fardello delle questioni irrisolte, che non sono state “chiuse” o metabolizzate), dal futuro (le mete e gli obiettivi che ci riproponiamo, le attese, le ansie e le preoccupazioni per ciò che potrebbe accadere) e dal presente (il contesto intorno a noi, i rapporti che viviamo). Quelle che ci giungono sul piano verticale sono meno meccaniche di quelle che ci arrivano dalla vita. Sono influenze che vanno cercate a partire dall’intuizione che esiste un altro piano dell’esistenza oltre quello della vita e che c’è in noi un Essere che può è possibile sviluppare ed elevare. Sono le influenze che sotto forma di conoscenze e insegnamenti ci arrivano da persone che hanno già raggiunto un proprio sviluppo interiore e da insegnamenti trasmessi. Sono influenze che, a lavoro iniziato, ci arrivano dal ricordo di sé non solo nella forma della “presenza a noi stessi” ma anche come memoria di questi stati più elevati del nostro Essere che abbiamo sperimentato strada facendo.

Tutta la conoscenza che appartiene alla psicologia presente nell’insegnamento della Quarta Via si riferisce alla possibilità che l’individuo ha di sperimentare e portare avanti una trasformazione interiore in grado di elevarlo nella scala dell’Essere. Dunque lo scopo del lavoro su di sé, così come viene impostato in questo sistema psicologico, riguarda la linea verticale dell’esistenza; lo scopo della vita con tutti i suoi sforzi, invece, ha a che fare con il piano orizzontale. Così la linea verticale rappresenta la strada della trasformazione, quella orizzontale è invece la linea del cambiamento, in cui il Tempo non trasforma le persone perché ciò richiederebbe consapevolezza di sé, ma si limita a cambiarle. In ogni caso, nessuna di queste due linee è più importante dell’altra e l’individuo deve perseguire il proprio sviluppo in entrambi i piani dell’esistenza. Ogni esistenza condotta solo su una delle due linee sarebbe, comunque, una vita incompleta.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 34: Le condizioni per lavorare su di sé

Leggi: Come essere consapevole

condizioni per lavorare

Le condizioni per lavorare su di sé

Esistono delle condizioni relative al proprio Essere che funzionano come prerequisiti che un individuo deve possedere per lavorare su di sé. Le condizioni per lavorare su di sé rappresentano una sorta di terreno fertile dove poter far germogliare le indicazioni e le conoscenze necessarie al nostro sviluppo personale. Non solo, ma le condizioni per lavorare su di sé funzionano sia da motivazioni all’impegno sia da supporto allo sforzo che esso richiede….

Quando parliamo dell’Essere di un individuo, dobbiamo per prima cosa riferirci ai livelli del suo Essere. Cosa può aiutarci a capire quale sia tale livello? Per rispondere a tale quesito dobbiamo però comprendere, prima, l’evidenza per cui uomini  differenti possono avere un livello del proprio Essere superiore o  inferiore. Se prendiamo ad esempio la Conoscenza come ambito di valutazione è relativamente facile comprendere se una persona si colloca rispetto ad un’altra ad un livello superiore o inferiore rispetto un certo argomento. Questo esempio è utile a comprendere il concetto della relatività della Conoscenza, per cui è possibile valutare con una certa oggettività chi tra due persone ne sa più dell’altra su di un certo argomento. È tale possibilità che rende fattibile lo svolgimento degli esami, metodo grazie al quale si può valutare il livello di conoscenza su ogni materia di studio. Quando si lavora su se stessi, le valutazioni sulla persona sono duplici: da una parte, infatti, c’è la valutazione della sua Conoscenza, dall’altra occorre tener presente anche la valutazione del suo Essere. Ciò significa che è importante non solo  ciò che conosciamo ma anche ciò che noi siamo. Esistono, allora, delle condizioni per lavorare su di sé che si riferiscono proprio a certe situazioni in cui il nostro Essere deve trovarsi ancor prima di iniziare lo sforzo.

Come per la Conoscenza, anche lo stato del nostro Essere è relativo, dal momento che prendendo due individui l’Essere di uno di questi può trovarsi relativamente ad un livello più alto o più basso di quello dell’altro individuo. Nello specifico dell’Essere, il prerequisito che dovremmo trovare in una persona è quel livello che Gurdjieff definisce come stato del “Buon Padre di Famiglia”. Cosa si intende quando si parla di un livello dell’Essere denominato del “Buon Padre di Famiglia”? Significa essere un individuo responsabile e che basa i propri modi di fare sulla decenza. Non deve essere troppo instabile o inaffidabile e deve possedere una certa costanza. Una persona definibile come “Buon Padre di Famiglia” deve essere in grado di “stare nella vita”, di occuparsi delle relative faccende e aver raggiunto una posizione dignitosa nella vita, oltre che possedere conoscenze relative al vivere. Un Buon Padre di Famiglia, è colui che è capace di fronteggiare le difficoltà quotidiane senza cercare di fuggire dalle preoccupazioni normali dell’esistenza.

Tali caratteristiche sono prerequisiti molto importanti dal momento che proprio su di essi può fare affidamento colui che intende iniziare a lavorare su di sé. In sostanza, un Buon Padre di Famiglia è colui che nella sua vita svolge in un modo responsabile il proprio dovere, e che, al tempo stesso, ritiene che il semplice vivere di per sé non possa soddisfare tutto ciò che un individuo cerca dalla propria esistenza.

Poniamo ora l’attenzione sull’aggettivo “buono” che non è usato casualmente ma indica proprio la qualità che è necessario possieda l’Essere della persona: esso deve essere associato alla bontà. Tale aggettivo non si addice alla Conoscenza che, invece, può essere giusta o sbagliata, vera o falsa. La conoscenza, ad esempio, su come si costruisce un’automobile può essere vera, oppure sul medesimo argomento potremmo avere una conoscenza falsa ed errata. I concetti di verità e falsità sono pertinenti alla Conoscenza. Se prendiamo in considerazione l’Essere di una persona, per descriverlo dobbiamo utilizzare altri concetti. Così un individuo può essere un buon Padre di Famiglia o un cattivo Padre di Famiglia. Spesso Essere e Conoscenza in una persona possono presentare profonde discrepanze: un individuo può essere una buona persona e, al tempo stesso, possedere delle conoscenze errate su determinati argomenti; oppure un individuo cattivo (per es. criminale) può possedere ottime conoscenze in certi ambiti.

Tutto ciò serve a sottolineare il fatto che quanto definisce un uomo rispetto al lavoro su se stesso non è il solo possesso della Conoscenza rispetto alle idee di tale lavoro. Anzi, soprattutto nelle fasi iniziali del lavoro, è proprio la sua definizione in rapporto al suo Essere a valere. L’essere adatto al lavoro non si definisce in funzione del suo livello di Conoscenza ma per lo più in funzione del suo livello d’Essere. La Conoscenza nel lavoro è molto utile, ma l’elemento fondamentale che determina il grado di impegno nel lavoro su se stessi è il livello d’Essere della persona che deve corrispondere a quello del Buon Padre di Famiglia. La mancanza di questa condizione, al di là di quanto la persona può conoscere, farà sì che essa risulti inadatta a svolgere il lavoro su di sé.

Ma c’è anche un altro motivo per cui il livello d’Essere è di fondamentale importanza: quando si incontrano le idee su cui è basato il lavoro su se stessi, la loro comprensione non è solo un fatto intellettuale ma dipende molto dal livello d’Essere dell’individuo. Infatti, i concetti basilari per il lavoro su se stessi “si presentano” alla nostra mente come elementi di Conoscenza. Tuttavia tra Conoscenza e Comprensione esistono differenze fondamentali, per cui una persona può conoscere molto bene il sistema psicologico su cui poggia il lavoro su se stessi ma potrebbe non comprendere nulla di ciò che conosce. La conoscenza di tale sistema con cui veniamo a contatto può diventare spunto per costruire una nuova Conoscenza solo in base al livello del nostro Essere. Questa appropriazione e trasformazione della conoscenza, in particolare, dipenderà dal fatto che la persona possieda o meno un Centro Magnetico.

Nel particolare linguaggio della tradizione psicologica della Quarta Via, con tale termine si fa riferimento al fatto che è possibile lavorare su di sé con più profitto se è presente in noi un’attitudine a riflettere sulla vita e a ritenere che, al di là della “semplice” esistenza, sia possibile rintracciare un qualche altro senso nelle cose, al di là della superficie delle esperienze. A questo , in genere, si accompagna un sentimento di insoddisfazione nel condurre una “semplice” esistenza basata sulla propria posizione sociale, sul successo, sul possesso di beni materiali. Tale condizione di insoddisfazione (la percezione della limitatezza di una vita condotta così in superficie) può essere introdotta sia da quella che possiamo definire come crisi esistenziale sia dall’insorgere di un vero e proprio malessere psicologico più clinicamente rilevante. Si può, dunque, affermare che un individuo è dotato di un Centro Magnetico nel proprio Essere se in una siffatta situazione di crisi personale arriva a ritenere e ad accorgersi che la propria esistenza non possa essere semplicemente vissuta o compresa solo in se stessa.

Nel momento in cui un individuo è profondamente convinto nei propri pensieri che per vivere più pienamente la propria esistenza dovrebbe fare qualcosa che vada al di là del semplice vivere e che lo porti oltre l’essere solo un Buon Padre di Famiglia, allora tale individuo potrà dire di avere dentro di sé la motivazione a conoscere altro rispetto a ciò che ordinariamente conosce. Proprio questo significa avere nel proprio Essere un Centro Magnetico. Se, invece, una persona non ritiene ci sia altro al di là dei semplici traguardi che possono raggiungere nella vita e considera l’esistenza solo come mera soddisfazione di esigenze ordinarie e non le importa altro, allora questa persona non possiede un Centro Magnetico. Dunque le condizioni per lavorare su di sé in questo percorso sono: possedere una condizione di Buon Padre di Famiglia e possedere un Centro Magnetico. Il non possesso di queste condizioni per lavorare su di sé non deve comunque scoraggiare, ma muovere l’impegno verso la loro acquisizione perché anche così, seppur indirettamente, si inizia a fare qualcosa per il proprio sviluppo.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 32: L’auto osservazione cosa è e come funziona

Leggi sulla Consapevolezza

essere

Essere e conoscere: i livelli del lavoro su di sé

Il livello del proprio Essere e quello della Conoscenza sono i due  piani su cui bisogna lavorare per attuare uno sviluppo di sé equilibrato e “reale”. Questi due piani di miglioramento personale non possono essere disgiunti ma durante il lavoro su se stessi è necessario procedere in parallelo al loro sviluppo. Questo lo si può produrre solo a patto di metterci nell’ottica di compiere sforzi coscienti…

Nel lavoro su se stessi finalizzato al raggiungimento della consapevolezza e allo sviluppo del nostro essere, si può compiere lo sforzo necessario applicandoci su due aspetti di noi. Essi sono le uniche parti di un individuo nelle quali è possibile che avvenga la sua evoluzione. Il primo aspetto è quello della conoscenza e nel caso del lavoro su di sé  lo sforzo va radicato nell’apprendere e nel pensare secondo le idee che sono alla base di questo sistema psicologico; nel  costruire una struttura mentale fatta di connessioni psichiche interiori basate sui significati presenti in questo insegnamento. Il secondo aspetto è quello del nostro Essere e lo sforzo consiste nel trasportare nell’esistenza quotidiana di ognuno di noi gli insegnamenti alla base del lavoro su se stessi, facendoli diventare prassi attiva nella propria vita. Anche intuitivamente è possibile rendersi conto che l’impegno che richiedono gli sforzi orientati alla conoscenza è ben diversi dagli sforzi sul lato dell’Essere.

Ogni individuo può svilupparsi in queste due direzioni e può “realmente” migliorare se stesso soltanto agendo su questi due piani, procedendo nei suoi sforzi parallelamente. Il risultato di questa evoluzione nella conoscenza e nell’Essere conduce alla comprensione, una sorta di conoscenza compenetrata nell’esperienza. Tutto il lavoro su noi stessi per sviluppare e migliorare la consapevolezza di sé si basa sulla comprensione: chi desidera prendere questa strada non può limitarsi ad “adattarsi” al lavoro su di sé (auto osservarsi, gestire le emozioni negative, riconoscere in se stessi gli ostacoli alla coscienza di sé, etc.) come spesso facciamo con la vita al di fuori di noi, della quale finiamo per accettare le regole senza comprenderne fino in fondo gli effetti su di noi. La comprensione è un’esperienza molto forte e profonda che possiamo produrre in noi stessi, rispetto alla nostra esistenza, solo se la nostra conoscenza e il nostro Essere si sviluppano in modo coordinato. Nell’ottica del lavoro su se stessi, ogni individuo è ciò che comprende. Un esempio valga per tutto: quando si dice che le emozioni negative inquinano la nostra mente, infettando i nostri pensieri e comportamenti, si fornisce una conoscenza che qualunque individuo che lo desideri può fare propria. Tuttavia, la comprensione di questo enunziato è riservata solo a coloro che riescono a sperimentare sul piano del proprio Essere la sua verità;. Le conseguenze di tale comprensione portano l’individuo al di là del “sapere” che le cose stanno così, conducendolo a una visione di sé, dei rapporti umani nuova e diversa e, soprattutto, facendogli desiderare di continuare il proprio cammino per lo sviluppo di sé.

Come ricordato più sopra gli sforzi che una persona deve compiere indirizzati verso l’Essere sono differenti da quelli in cui ci si impegna rispetto alla conoscenza ossia al pensiero. Sicuramente  le basi psicologiche su cui si fonda questo lavoro su se stessi forniscono alla persona che vi si applica molta più conoscenza di quella che in un dato momento del proprio sviluppo dell’Essere tale persona può assimilare. Spesso è il livello evolutivo del nostro Essere che ci permette di capire le conoscenze psicologiche di tale sistema. È per questo che il lavoro di partenza per chiunque voglia seguire le sue indicazioni sulla crescita personale è l’osservazione di sé: solo avendo esperienza diretta delle idee sulla psicologia di questo sistema sarà possibile comprenderle e “assaporarne” il significato. Ma questa è la parte più difficile del lavoro, ossia unire questa conoscenza con l’Essere di chi vi si accosta. Lo scopo di tale processo è però di cercare di fare proprio questo: valorizzare la conoscenza, imparando a gustarla e quindi a desiderarla, ma ciò può avvenire solo se ci sforziamo di declinare questi saperi nel nostro vivere. Procede in questa maniera ci consente di fare esperienze che sempre si accompagnano ad un sentimento, ad una emozione. Ed è qui che si può produrre il cambiamento perché la conoscenza può combinarsi con l’Essere solo tramite una certa emozione, in grado di produrre in noi il desiderio e quindi la volontà di acquisire quella conoscenza in grado di farci progredire nel nostro sviluppo. Bisogna desiderare ciò che intendiamo conoscere perché senza questo “amore” la conoscenza non riesce a congiungersi al nostro Essere.

Dunque, non possiamo lavorare sul nostro Essere senza la conoscenza delle idee di questo sistema psicologico (ci comporteremmo altrimenti come un viaggiatore che vaga in un nuovo territorio senza una mappa) e, d’altro canto, non se ne può avere esperienza se non le si applicano al nostro Essere (così facendo saremmo come quell’avido lettore di resoconti di viaggi che pretende di conoscere il mondo senza mai allontanarsi dal proprio salotto di casa). Così, il lavoro su di sé deve iniziare con lo stabilirsi di una valorizzazionedi essoe ciò può accadere se con le prime auto osservazioni riusciamo a renderci conto della mancanza di unità nel nostro essere, dell’assenza di una volontà ben definita e del fatto che il nostro agire è meccanico e privo di consapevolezza. Smascherare con l’esperienza di sé queste illusioni in noi ci porterà ad accrescere il valore delle idee alla base di questo lavoro su di sé e ciò ci condurrà al desiderio di proseguire nella loro conoscenza e quindi a rafforzare la volontà di lavorare su di noi alla loro luce.

Spesso ci capita, pur provando fastidio per questo, sapere che stiamo agendo male: o meglio, privi di consapevolezza nel presente e di una volontà coerente, ce ne rendiamo conto solo in un secondo momento; ci riproponiamo che ciò non accada in futuro, ma poi per gli stessi motivi non riusciamo a mantener fede al nostro proposito. Così continuiamo, in certe circostanze, ad agire male. Tale stato non è solo la conseguenza di una scarsa coscienza di sé o di una volontà ondivaga, ma anche di una mancanza di unità tra la conoscenza (sappiamo che ci comportiamo male) e il nostro Essere (continuiamo a comportarci male). È come se ci fossero in noi due lati separati e questa condizione non produce a riguardo la comprensione di noi stessi. Per riallineare fra loro conoscenza e Essere (so come non devo comportarmi e quindi scelgo di comportarmi bene) bisogna imparare a sapere agire sul nostro Essere, e per riuscire a fare questo è necessario il desiderio o il piacere di apprendere e applicare qualcosa che faciliti il passaggio da ciò che conosciamo a ciò che siamo. Sappiamo bene che la vita ordinaria non necessariamente ci obbliga o ci richiede questo passaggio dal conoscere all’Essere, e del resto le persone sono molto brave attraverso una serie di “ammortizzatori psicologici” a giustificare a se stesse tale mancanza di unità. Come accade per ogni cambiamento anche in questo caso se vogliamo lavorare su di noi per riconquistare tale unità dobbiamo compiere uno sforzo, nello specifico uno sforzo cosciente sull’Essere.

Nella prospettiva del lavoro su se stessi, lo sforzo cosciente è uno sforzo che non sarebbe necessario nella vita ordinaria e che, quindi, non nasce dalla vita stessa, non è da essa causato. L’origine di tale sforzo non è nella vita stessa ma la sua fonte sta nelle indicazioni-guida per il lavoro su se stessi. Cerchiamo di capire meglio: ogni giorno nella nostra quotidianità compiamo degli sforzi; è sufficiente pensare a quello messo in atto ogni giorno per andare al lavoro, per guidare l’automobile in mezzo al traffico, etc. Tuttavia, questi sforzi sono meccanici, ossia fanno parte degli automatismi che guidano il nostro agire. Quindi, rispetto al nostro Essere essi non apportano alcun miglioramento e sicuramente non sono l’attuazione di nessuna conoscenza del sistema psicologico in questione. Uno sforzo cosciente potrebbe essere quello per cui volontariamente e consapevolmente ci dedichiamo a non agire per una giornata le nostre emozioni negative che possiamo provare in varie circostanze. Il nostro Essere apprenderebbe così ad osservarsi in corso d’opera, a riconoscere le negatività che lo attraversano, a provare a non manifestarle (sperimentando all’inizio quanto “non siamo in grado di fare”).

Allora sì che la vita che viviamo potrebbe diventare “nostra maestra”, cioè occasione di crescita e sviluppo per il nostro Essere, a patto però di non viverla identificati con essa sia per ciò che di gradevole questa ci offre sia per ciò che di sgradevole ci infligge. Non identificati significa riuscire ad avere mentre si “vive” anche una posizione da osservatori, in modo tale da ricordarci che siamo proprio noi quelli in azione in ogni dato momento. La vita ordinaria, quella che comunemente si vive, ci richiede solo sforzi meccanici, ma se proviamo e riusciamo a praticare la non identificazione, la vita stessa diventa occasione per compiere sforzi coscienti. Fare uno sforzo cosciente anche solo per un periodo breve, cercando di mantenersi consapevoli ed osservarsi con cura, ci permette non solo di conoscerci meglio (avere informazioni sul proprio essere, sul tipo di persona che si è, sul modo in cui si reagisce alle circostanze), ma di “calare” nella pratica la conoscenza delle idee.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 31: Le illusioni contrarie allo sviluppo di sé

Leggi: Come aumentare la propria consapevolezza con la meditazione

illusioni

Illusioni contrarie allo sviluppo di sé

L’uomo vive di illusioni che lo tengono lontano dal desiderare per se stesso un modo di essere diverso e più sviluppato. Del resto il desiderio di lavorare su noi stessi può nascere solo dallo svelamento di tali illusioni, reso possibile solo praticando l’osservazione di noi stessi.

Una delle illusioni più radicate nelle persone è quella di essere “uno”: ognuno si attribuisce il possesso dell’individualità che, in questo caso, non significa “essere diverso dagli altri” ma di “funzionare in maniera unitaria”. In realtà, se ci osservassimo con costanza e continuità nell’arco di una giornata scopriremmo in noi un alternarsi di stati, spesso contrapposti fra loro, che altro non sono se non l’espressione di una molteplicità di Io presenti in noi stessi. Altre due illusioni connesse con questa relativa all’unità del nostro essere, sono quelle per cui le persone ritengono di avere una sola volontà e di vivere in una piena coscienza di sé. Eppure basterebbe una sincera auto osservazione per rendersi conto che la nostra vita mentale è governata da volontà che spesso sono antagoniste e in conflitto fra loro e che di volta in volta prendono il sopravvento. Analogamente, sarebbe facile rendersi conto che salvo rari casi compiamo azioni e abbiamo pensieri che non sono altro che automatismi in reazione a stimolazioni che riceviamo o semplici comportamenti meccanici privi di consapevolezza.

Coltivare, inconsapevolmente, tali illusioni fondate sull’immaginare di avere una individualità, una volontà ed essere coscienti, fa rimanere la nostra esistenza in uno stato di penombra (“uno stato di sonno” secondo la tradizione esoterica), il cui risultato è non farci desiderare o aspirare ad una vera consapevolezza di noi stessi con il conseguente sviluppo di sé. L’individuo, così, si limita a immaginare di possedere una unità in se stesso e di condurre una vita cosciente, senza vedersi realmente per quello che è, non riuscendo a ricordarsi di sé, ossia ad essere presente a sé ogniqualvolta agisce e si rapporta agli altri. Non ricordarsi di sé, vivere nell’illusione sostenuta dall’immaginazione ci porta a sperperare la nostra vita, a distruggerla rimanendo prigionieri di tutte le circostanze che di volta in volta finiscono per governarci. Prime fra tutte le emozioni negative che inquinano il nostro vivere e i rapporti interpersonali. L’illusione che le persone hanno di essere “uno”, avere una volontà e di essere consapevoli di sé si riferisce tuttavia ad una possibilità: è possibile avvicinarsi a queste condizioni, raggiungerle a patto però di impegnarsi in un lavoro su se stessi che prima di tutto ci permetta avere esperienza di tale illusione attraverso l’osservazione di sé e ci motivi ad acquisire uno stato di consapevolezza.

Tutto deve partire dall’avere esperienza di questa illusione, ossia dall’accorgerci direttamente del fatto che siamo mancanti di una individualità stabile, di una volontà dominante e di coscienza di noi. Questo dal momento che è proprio tale illusione ad essere il principale ostacolo alla possibilità di lavorare su noi stessi in un determinato modo: infatti, se immaginiamo di possedere qualcosa, non ci impegneremo  a conquistarla. Infatti se ci pensiamo bene, perché mai un individuo dovrebbe impegnarsi a raggiungere qualcosa se è già convinto di possederla. Questa è una delle conseguenze illusorie dell’immaginazione con cui compensiamo ciò che non abbiamo e che ci porta a pensare di essere ciò che non siamo. Su questo aspetto le persone sono, in genere, molto brave a notare quando negli altri non c’è corrispondenza tra ciò che sono e ciò che credono di essere, peccando di mancanza di autocritica quando tale considerazione dovrebbe riguardarle. In questo siamo molto indulgenti, finendo per non accorgerci di quanto noi stessi usiamo l’immaginazione per dipingerci come vorremmo essere. Dunque, nel lavoro su se stessi si insiste molto sul fatto che bisogna lottare contro l’immaginazione (quando questa serve a illuderci), soprattutto quando essa si riferisce  all’immagine che ci formiamo di noi stessi.

L’auto osservazione serve allora a smantellare tali illusioni, non solo perché alimentano false percezioni di noi stessi, talvolta mettendoci anche in situazioni imbarazzanti con gli altri, ma soprattutto perché ci tolgono la possibilità di maturare una crescita interiore. È bene ripetere: se immaginiamo soltanto già di essere dotati di certe qualità senza verificarne l’effettiva loro presenza in noi, non avremo alcuna speranza di arrivare a possederle. Infatti, spesso con l’immaginazione tendiamo a supplire tale carenza. Così facendo, illudendoci che il nostro essere sia unitario, credendo di avere una sola e costante volontà e di essere pienamente consapevoli, non riusciremo ad accorgerci che invece dentro di noi tali qualità non ci sono. Ignari di ciò – ossia del fatto di non possedere tali qualità che giocherebbero a favore del nostro equilibrio e serenità – riteniamo che i nostri disagi e scontentezze siano causati dal fatto che gli altri non ci stimano abbastanza, che abbiamo meno denaro di quanto vorremmo, etc. Insomma, trascurando le nostre mancanze interiori addebitiamo sempre alle circostanze esterne le nostre insoddisfazioni e malesseri esistenziali. Così l’individuo che immagina di sé cose non vere non crea solo illusioni, ma finisce per danneggiare se stesso dal momento che non potrà muovere un solo passo che lo porti fuori dalla condizione in cui si trova. Resta fermo in un certo punto del proprio sviluppo interiore senza poter proseguire oltre tale stadio e ciò perdurerà finché egli non “vedrà” con chiarezza la persona che realmente è, ossia molto diversa da quell’immagine illusoria di sé con cui si continua a pensare.

Questa nuova comprensione di noi stessi, questa diversa percezione interiore di sé, muta totalmente il senso di sé che un individuo ha avuto fino a quel punto. Cambia perché egli inizierà a vedere se stesso e i fatti della realtà sotto una nuova luce, fuori dalla percezione illusoria che lo aveva dominato fino ad allora. Maturerà una percezione delle cose meno confusa, sarà in grado di attribuire a se stesso tutto ciò che  di buono e di cattivo c’è nella sua vita interiore. Riconoscerà come propri tutti i vissuti che sperimenta, si sentirà responsabile di ogni pensiero e stato d’animo. Questo gli consentirà di lavorare con tutte queste parti, specie con quelle negative per vitare di esserne schiavo, arrivando ad una forma di autocontrollo. Infatti, se l’individuo rimane cieco, senza conoscenza riguardo l’origine dei suoi comportamenti, dei pensieri e di ciò che prova, non potrà mai cercare di avere un controllo su di essi. L’osservazione di sé, in questo senso, è il solo strumento per riuscire ad accorgersi di quanto poco gestiamo questi aspetti di noi stessi. Rendersi conto di questo, uscendo quindi dall’illusione del dominio che abbiamo su noi stessi, ammetteremo la nostra impotenza nel governare la nostra esistenza, portando alla luce ciò che è nascosto e ricoperto dall’illusione. Il fatto stesso di arrivare a questa consapevolezza, ossia di non “essere padroni in casa nostra”, fa sì che il cambiamento diventi possibile perché accanto a questa coscienza di sé nascerà il desiderio di essere diverso.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione precedente: La trasformazione di se stessi

Leggi articolo: Come trovare se stessi