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la seduzione

La seduzione ovvero ciò che ci attrae

La seduzione è qualcosa che pervade non solo la nostra vita sentimentale: è un registro che regola il fenomeno dell’attrazione sia quando siamo noi ad esercitarla sia quando ne siamo oggetto. Continuamente l’uomo è sedotto da forze che vogliono condurci verso “un altrove”, e la seduzione assume i mille volti del desiderio. Così è possibile parlare di seduzione non solo amorosa, ma di una seduzione delle idee, di una seduzione dello spirito, della seduzione del male o delle immagini…

“Perché domandiamo l’amore che unendo pacifica e cerchiamo invece ciò che ci separa e ci travaglia? Perché, se ambiamo all’armonia, ci ritroviamo incamminati verso luoghi sconosciuti e minacciosi? (…) Ciò che si presenta al nostro sguardo nelle sembianze allettanti di una promessa di compimento – sia esso un essere umano, sia esso un sogno utopico, sia esso il richiamo a un percorso particolare di ricerca – genera in noi un turbamento che ci disorienta, che seducendoci ci conduce “altrove” rispetto ai nostri precedenti progetti, fuori dal perimetro dell’ordinata quotidianità. All’inizio tale richiamo ci trascina facilmente, perché ci lusinga, accende la nostra immaginazione, si prospetta come occasione di rinnovamento, di realizzazione; e sarà davvero così, ma mai nei modi che sognavamo, mai senza tremore, errori, sofferenza.(…) “Si ama solamente ciò in cui si persegue qualcosa di inaccessibile, quel che non si possiede”(Proust). Tradotto in termini psicologici (ahimè meno poetici) ciò significa che noi, attraverso l’incontro con l’altro, entriamo in contatto con zone ignote e oscure della nostra psiche, che possono essere contattate solo attraverso una loro proiezione sull’essere che ci sta davanti, foriero di cambiamenti. L’altro incarna allora l’occasione unica e irripetibile di un confronto con l’inconscio: del poter contemplare una dimensione ignota del nostro essere che chiede di venire integrata dalla coscienza, esplorata e riconosciuta. L’abbaglio in cui cadiamo consiste nel ritenere che ciò che attraverso il volto dell’altro si palesa è l’immagine migliore di noi, e non è mai così. L’obliquità della seduzione di cui scrive Baudrillard consiste proprio in questo abbaglio: siamo sedotti da un’immagine che riteniamo ideale, salvo poi accorgerci che ha il volto dei nostri più riposti fantasmi.”

COMMENTO: La seduzione non nella sua essenza non si configura come un’attrazione armoniosa verso qualcosa che esercita su di noi un determinato fascino; essa non è, un avvicinamento a qualcosa o qualcuno nell’ottica di una unione perfetta al raggiungimento della meta; non è un processo al termine del quale sperimenteremo la pace nel nostro animo. La seduzione fin dal suo apparire e nelle sue conseguenze è una esperienza “insidiosa, subdola, pericolosa, apre ferite, scardina gli equilibri, getta l’anima nelle tenebre”. Non a caso i tragici greci suggerivano di non farsi toccare da essa, dal momento che la seduzione una volta subita e dopo averci soggiogato non ci lascia indenni. La seduzione raccontata porta con sé “rovina, porta distruzione e perdita”. Gli esempi  narrati dal mito e nella letteratura sono molti e ricalcano vicende che spesso sono anche quotidiane: Saffo per amore si butta in mare da un rupe, Edipo ne viene accecato, Tristano e Isotta si lasciano consumare per la loro passione, Orlando perde la ragione. Eppure sembra che la seduzione non possa smettere di agire sull’animo dell’essere umano, che comunque rimane cieco rispetto all’oggetto di questa seduzione. Infatti come ricorda Aldo Carotenuto: “la qualità perturbante dell’oggetto desiderato è data proprio dal fatto che non ci è possibile vederlo nella sua realtà obiettiva, perché il suo volto, come accade per i personaggi del sogno, è formato dalla sovrapposizione di nostre immagini interne, dalla condensazione di più volti.” Siamo e restiamo ciechi, quindi, non solo rispetto alle conseguenze della seduzione ma anche rispetto a ciò da cui ci facciamo sedurre o che desideriamo sedurre.

Aldo Carotenuto, Riti e miti della seduzione. Bompiani

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James Hillman

James Hillman: cosa è l’anima

James Hillman affronta uno dei temi più complessi e controversi della psicologia, il concetto di anima. Lo fa con la sua consueta chiarezza e concretezza per mostrarci come tale termine non sia per niente astratto o “fumoso”, anzi estremamente concreto e pratico proprio nella vita di tutti i giorni. Al tempo stesso James Hillman ne recupera il vero senso profondo che il concetto di anima ha nell’esistenza dell’essere umano.

“Per anima io intendo, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, più che una cosa in sé, una visuale sulle cose. Questa prospettiva è riflessiva; essa media gli eventi e determina le differenze tra noi stessi e tutto ciò che accade. Tra noi e gli eventi, tra l’agente e l’azione, c’è un momento riflessivo – e fare anima significa differenziare questa zona intermedia. E come se la coscienza poggiasse su un sostrato dotato di esistenza autonoma e di immaginazione – un luogo interno o una persona più profonda o una presenza costante – che continua a esserci anche quando tutta la nostra soggettività, il nostro io, la nostra coscienza si eclissano. L ’anima si  dimostra un fattore indipendente dagli eventi nei quali siamo immersi. Non posso identificarla con nessun’altra cosa, ma non posso neppure afferrarla da sola, isolata dalle altre cose, forse perché è simile a un riflesso in uno specchio fluido, o alla luna che trasmette soltanto luce non sua. Ma è proprio l’intervento di questa peculiare e paradossale variabile che da all’individuo il senso di avere o di essere un’anima. Malgrado tutta la sua intangibilità e indeterminatezza, l’anima possiede una elevatissima importanza nelle gerarchie dei valori umani, spesso anzi viene identificata con il principio vitale o con lo stesso principio divino.”

COMMENTO: James Hillman nel suo libro “Re- visione della psicologia” alza una voce contraria ai moderni approcci di questa disciplina che tendono a “materializzare” il discorso psicologico. E così in questo libro lo psicoanalista junghiano parla del “fare anima”, cercando di elaborare una concezione di una psicologia dell’anima, ovvero di cercare di vedere la psicologia dal punto di vista dell’anima. Come ci ricorda James Hillman, l’espressione fare anima è stata coniata da poeti romantici del calibro di William Blake e John Keats; quest’ultimo in una lettera al fratello così si esprimeva: “Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima Allora scoprirete a che serve il mondo…”. James Hillman fa tesoro di questa felice intuizione, sottolineando come vista sotto questa luce la vita di ogni persona “è un vagabondare per la valle del mondo col fine di fare anima”. Scopo di ogni esistenza è allora quello di trovare i nessi tra vita e anima. Per quanto questo discorso possa sembrare “fumoso” e lontano dalla vita quotidiana, esso in realtà presenta una straordinaria aderenza con quello che potrebbe accadere in ogni vita. Vediamo allora come James Hillman descrivere il concetto di anima.

Questo termine indica quella componente sconosciuta della nostra “mente” che rende possibile la costruzione del significato, che opera affinché gli eventi che ci accadono possano divenire esperienze; è qualcosa che “viene comunicata nell’amore e che ha un’ansia religiosa”. Vediamo più da vicino queste caratteristiche dell’anima che secondo James Hillman la rendono un aspetto estremamente concreto all’interno di un’esistenza. Prima di tutto, quando parliamo di anima ci si riferisce “all’approfondirsi degli eventi in esperienze”. Con essa, dunque, si parla di un andare al di là del semplice fatto accaduto, che deve trasformarsi in qualcosa di nostro, secondo un processo di reciproca compenetrazione tra noi e l’evento. In secondo luogo la densità e la pregnanza di significato che l’anima rende possibile, nell’amore o nell’anelito religioso, “deriva dal suo speciale rapporto con la morte”. Esiste, quindi, un “oltre” a cui l’anima si lega e che apre un universo di significati che vanno non solo al di là dei fatti che viviamo in sé, ma anche al di là della nostra singola esistenza. Infine, secondo James Hillman, l’anima si collega alla possibilità immaginativa insita nella nostra umana, per cui ci è dato di fare esperienza non solo attraverso i sensi ma anche tramite la speculazione riflessiva, il sogno, le immagini e la fantasia. Questa capacità immaginativa esiste perché essa è in grado di cogliere ogni realtà come simbolica o metaforica, per cui ogni cosa che accade è anche qualcos’altro.

James Hillman, Re-visione della psicologia. Adelphi

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il narcisista 2

Il narcisista seduttore

Il narcisista in amore non rinuncia a manifestare la propria autoreferenzialità finalizzata a difendere la propria fragilità affettiva. Il narcisista lo fa improntando il rapporto con l’altro sesso sulla mera conquista e sulla superficialità per non intrecciare rapporti profondi che smaschererebbero il suo gioco. Inoltre, paradossalmente il narcisista non cerca il possesso dell’altro ma solo la conferma di se stesso attraverso la conquista.  Aldo Carotenuto, “Riti e miti della seduzione”, Bompiani

Don Giovanni è un particolare tipo di conquistatore: non è mai sazio, potremmo dire che soffre di bulimia erotica, più che goloso è vorace, quello che conta per lui è la quantità. Ma non solo: egli ha bisogno di enumerare le sue prede, farne cataloghi e lunghi elenchi. (…) Cosa significa questo bisogno di continue conquiste e la necessità di enumerarle? Essi rivelano aspetti diversi della psicologia del dongiovanni, un individuo che conosce l’arte della seduzione ma che è impossibilitato ad abbandonarsi all’amore. Sembra che enumerare sia innanzitutto compensatorio al non poter effettivamente possedere. Un surrogato, un premio di consolazione, per potersi illudere di avere in qualche modo realizzato certe fantasie di onnipotenza: averne conquistate ben mille e tre! Questa, afferma Kierkegaard, è una ricchezza apparente, che in realtà rivela una estrema povertà, dato che l’enumerazione mette in luce che si tratta di una folla anonima di passanti, numeri senza volto né storia. È un enumerare che “mette tutto nello stesso sacco”, e che rivela la sostanziale impossibilità di Don Giovanni di amare la singolarità, la particolarità, l’individualità dell’altro, proprio perché ogni nuova preda viene adocchiata soprattutto per incrementare il bottino. L’incapacità di approfondire il legame amoroso è frequente nelle personalità con disturbi narcisistici. I sentimenti che sembrano dominare questi individui sono l’impazienza e la frustrazione, qualora i loro oggetti di desiderio non siano subito disponibili. Essi diventano inquieti e scontenti, scontrosi e irritabili: come se stesse sfuggendo loro un’opportunità di vitale importanza. E in effetti per costoro riuscire a sedurre l’altro, cioè a conquistarlo e a sottometterlo, rappresenta una verifica positiva del loro stesso valore, una riprova della loro esistenza. Seduco, dunque sono.

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La fine della vita come parte dell’esistenza

La fine della vita è parte stessa del fluire della vita, ne è un elemento costituzionale. Eppure quanta fatica facciamo a considerare questa parte della vita, valutandola priva di senso e significato. Al suo solito Carl Gustav Jung ribalta completamente l’approccio a questa fase dell’esistenza… Carl Gustav Jung, “Anima e morte”, In Opere vol. 8, Boringhieri

Più di una volta mi è stato chiesto che cosa io pensi della morte, di questa non dubbia fine della singola esistenza umana. La morte ci è nota senz’altro come una fine. È un punto fermo che viene posto talora prima che la frase sia compiuta: e oltre di essa non resta che il ricordo о una postuma influenza sugli altri, ma per l’individuo la clessidra si è vuotata e il sasso che rotola è giunto alla posizione di riposo. Rispetto alla morte la vita ci appare come un fluire, come il cammino di un orologio caricato, il cui arresto finale è evidente. Non siamo mai tanto convinti del “fluire” della vita come quando una vita umana giunge al suo termine dinanzi ai nostri occhi; e mai s’impone in modo più stringente e penoso il problema del significato e del valore della vita come quando assistiamo all’ultimo respiro che abbandona un corpo, vivo fino a un attimo prima. Quanto ci appare diverso il senso della vita, quando vediamo un uomo giovane affannarsi per mete lontane e crearsi il proprio avvenire, e quando guardiamo invece un ammalato già condannato о un vegliardo che senza più forze s’avvia fatalmente verso la tomba! La gioventù – così ci sembra – ha scopo, avvenire, senso e valore; mentre l’arrivare alla fine ci appare solo come una cessazione senza significato. (…)

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Unità: il mito della simbiosi di coppia

L’ unità fusionale all’interno della coppia è al tempo stesso una dimensione anelata e inconsciamente temuta. L’ unità simbiotica muove da desideri irreali e che, quando incontra il dato reale, naufraga miseramente rischiando di far colare a picco il rapporto se i partner non sono abituati a venire a patti con la vita reale per quello che è. L’ unità della coppia come nostalgia della primitiva e infantile unione con la madre, dimensione sempre presente nel nostro panorama psicologico… Aldo Carotenuto, “Amare, tradire”, Bompiani

Vediamo ora più da vicino quali siano le dinamiche su cui generalmente si costruisce e si mantiene un rapporto di coppia, privilegiando ovviamente l’angolazione che abbiamo scelto e nella luce cruda ma realistica che ci ha già consentito di mettere in evidenza l’esperienza del tradimento anche in fasi della nostra vita che a uno sguardo sommario ne sembrerebbero immuni. Il rapporto adulto di coppia è, invece, per lunga tradizione, il luogo “deputato” in cui il tradimento si arroga il ruolo di protagonista; quanto teatro, quanta narrativa, quante pagine di cronaca e persino di storia ruotano intorno a questo tema? Si tratterà di vedere se la nostra “chiave di lettura” sia in grado di consentirci una diversa messa a fuoco del problema e orientarci in direzione di qualche aspetto inedito o insospettato. In termini psicologici la premessa essenziale su cui si basa il rapporto di coppia è l’esistenza, al fondo, di un’attesa. Un’attesa di completezza, di riunificazione, di totalità. Ci riconduce a tale premessa essenziale, tra le altre, la versione platonica dell’antichissimo mito dell’androgino. Come si legge nel Simposio: “Esisteva allora l’unico androgino, partecipe di entrambi, maschio e femmina, sia nella forma sia nel nome, mentre oggi non esiste che il nome, attribuito per oltraggiare. […] Erano terribili per forza e per vigore, nutrivano pensieri superbi e perciò attaccarono gli dei. […] Zeus e gli altri dei, allora, dibattevano su cosa si dovesse fare ed erano in difficoltà, perché né potevano ucciderli e annientarne la specie fulminandoli come giganti – in tal caso sarebbero scomparsi gli onori e i sacrifici resi loro dagli uomini – né potevano lasciarli insolentire. Dopo faticosa riflessione Zeus allora disse: “Mi pare di avere un espediente per fare sì che continuino ad esistere uomini e, al tempo stesso, indeboliti cessino dalla loro tracotanza. Ora, continuò, li taglierà ciascuno in due e cosi saranno al tempo stesso, più deboli e più utili a noi, essendosi accresciuti di numero.”

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intuizione 1

L’intuizione secondo James Hillman

Cosa è l’ intuizione? Qualcosa di cui fidarsi ciecamente oppure una facoltà psicologica da usare con cautela e da sottoporre a verifica e controllo… James Hillman, “Il codice dell’anima”, Adelphi

La modalità tradizionale per percepire l’invisibile (…) è l’intuizione. L’intuizione comprende anche quella che ho chiamato sensibilità mitica, perché quando un mito ci colpisce, esso sembra la verità e di colpo ci fa vedere le cose da dentro. In psicologia, intuizione significa «conoscenza diretta e non mediata», «percezione immediata o innata di un insieme complesso di dati». L’intuizione prescinde dal pensiero ma non è uno stato emotivo; è una percezione chiara, fulminea e completa, «il suo tratto distintivo essendo l’immediatezza del processo». Le intuizioni «arrivano senza che vi siano passaggi logici coscienti o processi di pensiero riflessivo». È essenzialmente intuitiva, per esempio, la nostra percezione delle persone. Noi assorbiamo l’altro tutto insieme – accento, vestiti, corporatura, espressione, carnagione, voce, postura, gesti, i vari caratteri etnici, sociologici, di classe: tutti questi dati si offrono istantaneamente, come una Gestalt globale, all’intuizione. Gli internisti di una volta usavano l’intuizione nel fare le diagnosi; e usano l’intuizione i fotografi, gli astrologi, i direttori del personale, gli scopritori di campioni sportivi, chi decide l’ammissione a una Facoltà e, presumibilmente, anche gli analisti della cia, tutti coloro che rintracciano le informazioni pertinenti e che in una massa di dati tediosi riescono a vedere un significato invisibile. L’intuizione percepisce l’immagine, il paradigma, una Gestalt. Le intuizioni arrivano, non le facciamo noi. Ci arrivano come idea improvvisa, giudizio certo, significato colto al volo. Arrivano insieme a un evento, come se fossero portate da quell’evento o insite in esso. Un amico mi dice una cosa e io, zac!, ho capito tutto.

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ripetizione 2

Ripetizione e vecchiaia

La ripetizione è spesso noiosa, un intralcio rispetto alla velocità e all’istantaneità del vivere odierno. Eppure è la ripetizione che fa memoria, che consolida e dà la certezza di qualcosa; è dalla ripetizione che nasce la grande arte… James Hillman, “La forza del carattere”, Adelphi

La ripetizione è una delle grandi specialità della vecchiaia. La geriatria convenzionale la collega al deteriorarsi della memoria a breve termine: Non ti accorgi che stai raccontando di nuovo il medesimo aneddoto perché non ricordi di averlo già raccontato, e più di una volta. La ripetizione, dicono, è la prova lampante di un cervello in declino. Le persone anziane si ripetono, quasi alla lettera. Se questo è un sintomo, è anche il loro stile. Una volta interruppi un mio loquace zio di oltre ottant’anni nel bel mezzo di uno dei suoi strasentiti aneddoti di viaggio. «Me lo hai già raccontato» dissi. Immediatamente, non meno irritato di me, lo zio ribatté: «A me piace raccontarlo». (E tra sé probabilmente stava dicendo: «Che male c’è nel ripeterlo? Si vede proprio che tu non conosci il piacere di raccontare le stesse storie!»). Non permetteva che l’occhio e l’orecchio della giovinezza si arrogassero il diritto di giudicare una caratteristica della vecchiaia. Mio zio conosceva le gioie sempre nuove della ripetizione. La ripetizione fa andare d’accordo l’individuo molto vecchio e l’individuo molto giovane. È un piacere che entrambi condividono. Perché concepire la ripetizione alla stregua di un difetto anziché come una componente necessaria dell’immaginazione? Perché, semmai, non considerare il bisogno di novità come una forma di tossicodipendenza? In fin dei conti, la ripetizione è un elemento essenziale della tradizione orale, del tramandare storie da una generazione all’altra. Si direbbe lo strumento attraverso il quale il patrimonio culturale degli antenati è tenuto in vita e mantenuto nella forma giusta. Come mai i bambini vogliono a tutti i costi che la storia sia raccontata ogni volta con le stesse identiche parole, e perché chiedono sera dopo sera sempre la medesima storia? Chissà, forse la scrittura ha dovuto fare la sua comparsa nel mondo per garantire che le storie fossero ripetute nella forma stabilita, senza abbellimenti orali, senza innovazioni e alterazioni. La ripetizione appaga il desiderio di identicità.

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la vita 5

La vita dopo gli “anta”

La seconda parte del la vita lungi dall’essere una fase di declino. Essa è parte integrante dell’esistenza di ogni individuo, riservandoci compiti evolutivi fondamentali per il compimento della nostra realizzazione come esseri umani… Aldo Carotenuto, “Oltre la terapia psicologica”, Bompiani

L’errore in cui cadiamo è innanzitutto il pensare alla vecchiaia come a una fase di stagnazione, di malattia, di stasi psichica e di impoverimento delle potenzialità creative, e ciò deriva dal nostro errato concetto di “sviluppo”. Siamo cioè pervasi ormai da un’immagine di progresso che fa coincidere il massimo dello sviluppo con una nozione di “efficienza” equivalente all’efficienza della macchina. Progresso sembra significare capacità di prestazioni e produzioni di beni. In questa società del consumo, vince chi dimostra di poter produrre, di poter entrare nel mercato del consumo e di poter essere un anello della catena di produzione (da fruitore o da produttore). È chiaro che in questa logica l’anziano ha un ruolo irrilevante. È chiaro che il “pensionato” nulla sembra più avere da dare né da chiedere al mercato. Deve soltanto morire perché nel tempo si è trasformato in un essere patologico. Si pensi che la stessa psicoanalisi considerava coloro che avevano superato i quarant’anni quasi irrecuperabili, data la vischiosità della libido… Ma se il corpo invecchia non è così per lo sviluppo psichico, per la maturazione della personalità. Non esiste una fase del la vita in cui si arresti l’evoluzione psichica, perché non esiste età nella ricerca di senso. Heidegger, parlando dell’uomo “tragico”, lo definisce come “colui che usa violenza”. Usare violenza in questa accezione significa essere necessariamente proiettati sempre verso una dimensione di ricerca, tale per cui persino il contadino primitivo che apre dinanzi ai suoi passi la terra solcandola col vomere, in realtà sta “violando” l’esistente perché attraverso la sua azione esso esprima altri frutti. Questa ricerca di senso va avanti per tutta la nostra vita, non conosce età, perché la relazione della psiche con il mondo non conosce interruzioni e ciascuna età offre all’individuo la possibilità di accrescere la consapevolezza di sé come essere continuamente in divenire.

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dee 3

Dee, donne e psicologia femminile

Le dee di cui parla la mitologia greca rappresentano ognuna l’archetipo di un modo in cui la femminilità può manifestarsi e uno spunto interessante per tracciare il modello di una psicologia del femminile. Jean Bolen, “Le dee dentro le donne”, Astrolabio

La maggior parte di noi ha studiato le divinità dell’Olimpo a scuola e ne ha veduto statue e dipinti. I romani adoravano le stesse divinità dei greci, chiamandole con nomi latini. Gli abitanti dell’Olimpo possedevano qualità molto umane: modi di agire, reazioni emotive, sembianti e mitologia che li riguardano ci forniscono modelli che corrispondono a comportamenti e atteggiamenti umani. Essi ci sono familiari anche perché sono archetipi, ossia rappresentano modelli di esistenza e di comportamento che riconosciamo dall’inconscio collettivo di cui siamo tutti partecipi.  Le divinità più famose erano dodici: sei maschili: Zeus, Poseidone, Ade, Apollo, Ares, Efesto, e sei femminili: Estia, Demetra, Era, Artemide, Atena e Afrodite. Estia (dea del focolare) fu sostituita da Dioniso (dio del vino), modificando così l’equilibrio maschile/femminile e portando gli dei a sette e le dee a cinque. Gli archetipi delle divinità femminili che descriverò in questo libro sono le sei dee dell’Olimpo [Estia, Demetra, Era, Artemide, Arena e Afrodite) con l’aggiunta di Persefone, la cui mitologia è inseparabile da quella di Demetra. Ho poi suddiviso queste sette dee in tre categorie: le dee vergini, le dee vulnerabili e le dee alchemiche (o portatrici di trasformazione). Le dee vergini erano già classificate insieme nella Grecia antica. Le altre due categorie sono una mia scelta. Modalità di coscienza, ruoli privilegiati e fattori motivanti sono ciò che contraddistingue ogni gruppo. Anche l’atteggiamento verso gli altri, il bisogno di attaccamento e l’importanza attribuita ai rapporti sono palesemente diversi da gruppo a gruppo. Affinché la donna possa amare profondamente, lavorare in maniera significativa ed essere sensuale e creativa, occorre che nella sua vita trovino in qualche modo espressione le dee di tutte e tre le categorie.

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processo di individuazione 1

Processo di individuazione e sviluppo umano

Nel processo di individuazione il conscio e inconscio si integrano imparando a completarsi a vicenda. Così l’essere umano affronta la strada per la realizzazione personale. È grazie al processo di individuazione che l’uomo, diviene realmente individuo, con una propria peculiare personalità. Il processo di individuazione si caratterizza come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi. Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

La totalità della personalità è raggiunta quando tutte le principali coppie di contrasti sono relativamente differenziate, quando dunque le due parti della psiche totale, la coscienza e l’inconscio, sono collegate insieme in una vitale relazione. La conservazione di una certa differenza di potenziale energetico e l’indisturbato corso della vita psichica sono garantiti dal fatto che l’inconscio non può mai esser reso del tutto conscio e conserva sempre la maggior quantità di energia. La totalità resta dunque sempre relativa, e a noi resta per tutta la vita il compito di continuare a lavorarvi. “La personalità, intesa come piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Lo sviluppo della personalità è insieme una grazia e una maledizione. Bisogna acquistarla a caro prezzo, perché significa isolamento. “La sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Ma, oltre che solitudine, essa significa pure fedeltà alla propria legge. “Solo chi sa consciamente accettare la potenza della propria destinazione interiore diventa una personalità” e solo questa può trovare il giusto posto anche nella collettività, solo questa possiede vera forza sociale, ossia la capacità di esser parte integrante di un gruppo umano e non un numero nella massa, che è sempre una semplice addizione di individui e non può divenir mai, come la comunità, un organismo vitale, che dà vita e vita riceve. Cosi la realizzazione di sé diventa, tanto sotto l’aspetto personale che sotto quello collettivo, una decisione morale, ed è questa che conferisce le sue forze a quel processo del diventare sé stessi, che Jung chiama via del processo di individuazione.

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