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Le condizioni per lavorare su di sé

Esistono delle condizioni relative al proprio Essere che funzionano come prerequisiti che un individuo deve possedere per lavorare su di sé. Le condizioni per lavorare su di sé rappresentano una sorta di terreno fertile dove poter far germogliare le indicazioni e le conoscenze necessarie al nostro sviluppo personale. Non solo, ma le condizioni per lavorare su di sé funzionano sia da motivazioni all’impegno sia da supporto allo sforzo che esso richiede….

Quando parliamo dell’Essere di un individuo, dobbiamo per prima cosa riferirci ai livelli del suo Essere. Cosa può aiutarci a capire quale sia tale livello? Per rispondere a tale quesito dobbiamo però comprendere, prima, l’evidenza per cui uomini  differenti possono avere un livello del proprio Essere superiore o  inferiore. Se prendiamo ad esempio la Conoscenza come ambito di valutazione è relativamente facile comprendere se una persona si colloca rispetto ad un’altra ad un livello superiore o inferiore rispetto un certo argomento. Questo esempio è utile a comprendere il concetto della relatività della Conoscenza, per cui è possibile valutare con una certa oggettività chi tra due persone ne sa più dell’altra su di un certo argomento. È tale possibilità che rende fattibile lo svolgimento degli esami, metodo grazie al quale si può valutare il livello di conoscenza su ogni materia di studio. Quando si lavora su se stessi, le valutazioni sulla persona sono duplici: da una parte, infatti, c’è la valutazione della sua Conoscenza, dall’altra occorre tener presente anche la valutazione del suo Essere. Ciò significa che è importante non solo  ciò che conosciamo ma anche ciò che noi siamo. Esistono, allora, delle condizioni per lavorare su di sé che si riferiscono proprio a certe situazioni in cui il nostro Essere deve trovarsi ancor prima di iniziare lo sforzo.

Come per la Conoscenza, anche lo stato del nostro Essere è relativo, dal momento che prendendo due individui l’Essere di uno di questi può trovarsi relativamente ad un livello più alto o più basso di quello dell’altro individuo. Nello specifico dell’Essere, il prerequisito che dovremmo trovare in una persona è quel livello che Gurdjieff definisce come stato del “Buon Padre di Famiglia”. Cosa si intende quando si parla di un livello dell’Essere denominato del “Buon Padre di Famiglia”? Significa essere un individuo responsabile e che basa i propri modi di fare sulla decenza. Non deve essere troppo instabile o inaffidabile e deve possedere una certa costanza. Una persona definibile come “Buon Padre di Famiglia” deve essere in grado di “stare nella vita”, di occuparsi delle relative faccende e aver raggiunto una posizione dignitosa nella vita, oltre che possedere conoscenze relative al vivere. Un Buon Padre di Famiglia, è colui che è capace di fronteggiare le difficoltà quotidiane senza cercare di fuggire dalle preoccupazioni normali dell’esistenza.

Tali caratteristiche sono prerequisiti molto importanti dal momento che proprio su di essi può fare affidamento colui che intende iniziare a lavorare su di sé. In sostanza, un Buon Padre di Famiglia è colui che nella sua vita svolge in un modo responsabile il proprio dovere, e che, al tempo stesso, ritiene che il semplice vivere di per sé non possa soddisfare tutto ciò che un individuo cerca dalla propria esistenza.

Poniamo ora l’attenzione sull’aggettivo “buono” che non è usato casualmente ma indica proprio la qualità che è necessario possieda l’Essere della persona: esso deve essere associato alla bontà. Tale aggettivo non si addice alla Conoscenza che, invece, può essere giusta o sbagliata, vera o falsa. La conoscenza, ad esempio, su come si costruisce un’automobile può essere vera, oppure sul medesimo argomento potremmo avere una conoscenza falsa ed errata. I concetti di verità e falsità sono pertinenti alla Conoscenza. Se prendiamo in considerazione l’Essere di una persona, per descriverlo dobbiamo utilizzare altri concetti. Così un individuo può essere un buon Padre di Famiglia o un cattivo Padre di Famiglia. Spesso Essere e Conoscenza in una persona possono presentare profonde discrepanze: un individuo può essere una buona persona e, al tempo stesso, possedere delle conoscenze errate su determinati argomenti; oppure un individuo cattivo (per es. criminale) può possedere ottime conoscenze in certi ambiti.

Tutto ciò serve a sottolineare il fatto che quanto definisce un uomo rispetto al lavoro su se stesso non è il solo possesso della Conoscenza rispetto alle idee di tale lavoro. Anzi, soprattutto nelle fasi iniziali del lavoro, è proprio la sua definizione in rapporto al suo Essere a valere. L’essere adatto al lavoro non si definisce in funzione del suo livello di Conoscenza ma per lo più in funzione del suo livello d’Essere. La Conoscenza nel lavoro è molto utile, ma l’elemento fondamentale che determina il grado di impegno nel lavoro su se stessi è il livello d’Essere della persona che deve corrispondere a quello del Buon Padre di Famiglia. La mancanza di questa condizione, al di là di quanto la persona può conoscere, farà sì che essa risulti inadatta a svolgere il lavoro su di sé.

Ma c’è anche un altro motivo per cui il livello d’Essere è di fondamentale importanza: quando si incontrano le idee su cui è basato il lavoro su se stessi, la loro comprensione non è solo un fatto intellettuale ma dipende molto dal livello d’Essere dell’individuo. Infatti, i concetti basilari per il lavoro su se stessi “si presentano” alla nostra mente come elementi di Conoscenza. Tuttavia tra Conoscenza e Comprensione esistono differenze fondamentali, per cui una persona può conoscere molto bene il sistema psicologico su cui poggia il lavoro su se stessi ma potrebbe non comprendere nulla di ciò che conosce. La conoscenza di tale sistema con cui veniamo a contatto può diventare spunto per costruire una nuova Conoscenza solo in base al livello del nostro Essere. Questa appropriazione e trasformazione della conoscenza, in particolare, dipenderà dal fatto che la persona possieda o meno un Centro Magnetico.

Nel particolare linguaggio della tradizione psicologica della Quarta Via, con tale termine si fa riferimento al fatto che è possibile lavorare su di sé con più profitto se è presente in noi un’attitudine a riflettere sulla vita e a ritenere che, al di là della “semplice” esistenza, sia possibile rintracciare un qualche altro senso nelle cose, al di là della superficie delle esperienze. A questo , in genere, si accompagna un sentimento di insoddisfazione nel condurre una “semplice” esistenza basata sulla propria posizione sociale, sul successo, sul possesso di beni materiali. Tale condizione di insoddisfazione (la percezione della limitatezza di una vita condotta così in superficie) può essere introdotta sia da quella che possiamo definire come crisi esistenziale sia dall’insorgere di un vero e proprio malessere psicologico più clinicamente rilevante. Si può, dunque, affermare che un individuo è dotato di un Centro Magnetico nel proprio Essere se in una siffatta situazione di crisi personale arriva a ritenere e ad accorgersi che la propria esistenza non possa essere semplicemente vissuta o compresa solo in se stessa.

Nel momento in cui un individuo è profondamente convinto nei propri pensieri che per vivere più pienamente la propria esistenza dovrebbe fare qualcosa che vada al di là del semplice vivere e che lo porti oltre l’essere solo un Buon Padre di Famiglia, allora tale individuo potrà dire di avere dentro di sé la motivazione a conoscere altro rispetto a ciò che ordinariamente conosce. Proprio questo significa avere nel proprio Essere un Centro Magnetico. Se, invece, una persona non ritiene ci sia altro al di là dei semplici traguardi che possono raggiungere nella vita e considera l’esistenza solo come mera soddisfazione di esigenze ordinarie e non le importa altro, allora questa persona non possiede un Centro Magnetico. Dunque le condizioni per lavorare su di sé in questo percorso sono: possedere una condizione di Buon Padre di Famiglia e possedere un Centro Magnetico. Il non possesso di queste condizioni per lavorare su di sé non deve comunque scoraggiare, ma muovere l’impegno verso la loro acquisizione perché anche così, seppur indirettamente, si inizia a fare qualcosa per il proprio sviluppo.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 32: L’auto osservazione cosa è e come funziona

Leggi sulla Consapevolezza

stati interiori

Stati interiori e fatti esterni

L’esistenza di ogni persona non è fatta solo di fatti esterni che accadono lì fuori, ma anche di stati interiori che si susseguono dentro di noi. Entrambe tali dimensioni sono importanti e dobbiamo apprendere ad osservarle, anche se il lavoro su noi stessi è prevalentemente rivolto alla nostra interiorità. Vediamo, comunque, come queste due dimensioni della vita interagiscono fra di loro.

Cosa  intendiamo quando ci riferiamo alla nostra vita? Che significato hanno espressioni del tipo  “ho una vita felice” o “vivo un’esistenza misera”? Forse il senso di queste espressioni sta nel fatto che gli eventi esterni a noi, che ci sono capitati sono stati favorevoli. O ancora che i nostri stati d’animo e i vissuti sperimentati sono stati positivi. Notiamo anche che, talvolta, persone che si trovano in situazioni vantaggiose, per esempio economicamente o per posizione sociale, e che in apparenza non vivono condizioni esterne che arrecano loro sofferenza, hanno vissuti di profondo disagio e di tormento; al contrario, un individuo che esternamente non gode della stessa “fortuna” potrebbe sperimentare vissuti che evidenziano una vita interiore serena ed equilibrata. Queste considerazioni ci portano ad analizzare con un po’ più di attenzione cosa indichiamo quando parliamo della “nostra vita”, scoprendo in questo ragionamento che spesso ne parliamo con estrema facilità e gratuità, facendo confusione su cosa noi intendiamo. Quando parliamo della vita degli altri spesso facciamo riferimento solo ai fatti esterni e anche quando raccontiamo la nostra vita non facciamo altro che snocciolare una serie di fatti che sono accaduti. Talvolta accompagniamo questi resoconti con quelli che possono essere stati i nostri o gli altrui vissuti, parlandone sempre come conseguenti ai fatti che sono capitati.

Non possiamo nasconderci, comunque, che la nostra vita si compone di due aspetti differenti e che, in un percorso di accrescimento della consapevolezza di sé, dobbiamo apprendere a riconoscerli e comprenderli. La vita consiste di eventi (fatti esterni che accadono, situazioni in cui veniamo a trovarci) e di stati. Questi ultimi sono condizioni interiori di noi stessi, come la serenità o l’ansia, il preoccuparsi o il sentirsi sicuri, la depressione e l’essere timorosi o la gioia e la curiosità. Da quanto detto, la vita è non solo una successione di fatti, ma anche una susseguirsi di stati interiori,per cui una “realistica” storia della nostra vita dovrebbe essere anche  essere un racconto di tali stati. Come sempre è una questione di equilibrio e di “oggettività” perché entrambi tali aspetti – interiorità ed esteriorità – sono al contempo presenti. Così nel lavoro su di sé porre attenzione solo al nostro grande mondo interiore, accessibile ad ognuno solo tramite l’osservazione di sé, è un grande errore che ci priverebbe dell’altra metà dei “fatti”.

Ora uno stato interiore può corrispondere o meno ad un evento esterno, da esso può essere sollecitato strappandoci da una precedente condizione interiore. È essenziale riconoscere, in ogni caso, che gli stati e gli eventi esterni sono due cose differenti, che non necessariamente devono rispecchiarsi e che, soprattutto, non esiste una necessità per cui si debbano influenzare l’uno con l’altro anche se tutto questo ordinariamente a volte accade. Fissare bene questi aspetti è molto importante per imparare a relazionarsi in modo libero e consapevole con eventi e stati interiori. Facciamo un esempio, per cui ci troviamo a vivere un evento piacevole (aumento di stipendio, partecipare ad una festa divertente, etc,). Poniamoci le seguenti domande: lo stato d’animo in cui veniamo a trovarci corrisponde all’evento, trovandoci quindi nella condizione di accoglierlo?; oppure ad esempio cominciamo a diventare pensierosi perché riteniamo che dopo qualcosa di positivo arriverà un evento negativo; o ancora stiamo male ritenendo di non meritarci di essere felici o sentendoci in colpa per qualche motivo? O ancora, pur riconoscendo la positività dell’evento, guastiamo il nostro stato d’animo osservando che manca sempre qualcosa? Spesso, in questi casi, ciò che sentiamo mancare è proprio il nostro stato interiore che fatica a sintonizzarsi con quanto ci accade. Ciò che si può trarre da questo esempio è che: se non ci troviamo in uno stato interiore appropriato non è così facile combinarlo sintonicamente con l’evento esterno positivo.

Fatti ed eventi, sono dunque realtà a se stanti e, nonostante l’evidenza dei fatti, molte persone continuano a pensare il contrario, esagerando il potere che gli eventi hanno sugli stati. Infatti si tende a ritenere che la propria vita sia per lo più fatta di eventi esterni per cui dalla loro qualità positiva o negativa dipenderebbe la fortuna o la sfortuna della propria esistenza. Per certi versi questo è incontestabile ma ritenendo vero questo in assoluto si trascura il fatto che l’attitudine di una persona alla vita dipende anche molto dal proprio sviluppo interiore, ossia dalla qualità dei propri stati interiori.

Così una persona che ha strutturato la propria vita interiore solo su emozioni negative, autocommiserazione, preoccupazioni difficilmente se si trovasse a vivere eventi esterni piacevoli, o positivi, combinerebbe in maniera piacevole se stessa con tali situazioni, anche se queste le potrebbero procurare benessere. In questi casi la responsabilità del non sapersi “godere” la situazione di penderebbe solo dal suo stato interiore. È per questo che quando pensiamo alla nostra vita non possiamo considerarla come composta solo di eventi ma dobbiamo porre attenzione anche alla presenza e alla qualità dei nostri stati. Dunque, nell’osservazione di se stessi, è importante saper far caso sia agli eventi esterni sia agli stati interiori; soprattutto a rendersi conto se in un determinato momento siamo più in relazione con il nostro stato interiore o inclini all’evento esterno. Naturalmente gli eventi esterni possono essere di ogni tipo, alcuni difficili e problematici, altri più piacevoli e facili da affrontare. Come una strada ci solo salite, discese e pianure. La vita nella sua dimensione esteriore è un succedersi di avvenimenti molto diversi tra loro. Allo stesso modo anche gli stati interiori presentano questa eterogeneità e diversità.

Ora quando abbiamo parlato della possibilità e capacità di sintonizzare il nostro stato interiore con il positivo di certi fatti esterni, questo non deve portare a concludere che questa corrispondenza sia un valore assoluto. Ricordiamo che il lavoro su se stessi ha a che fare con gli stati interni e che uno dei cardini del percorso della consapevolezza di sé sta nel modificare e nel non identificarsi con gli stati emotivi negativi. Chi apprende a lavorare su di sé in questo modo, ossia a separarsi dagli stati emotivi negativi prendendone le distanze, sperimenterà la possibilità di non farsi “toccare” dagli avvenimenti sgradevoli della vita, o almeno a far sì che questo non accada così facilmente.

Il rapporto con gli eventi esterni, che possiamo definire come influenze, va decisamente ribaltato nella considerazione che possiamo farcene: esso dipende largamente dai nostri stati interni e proprio questi devono essere in ultima analisi il focus del nostro lavoro, specie per ciò che attiene agli stati negativi. Essi non solo possono impedirci, se siamo troppo coinvolti in essi, di viverci gli eventi esterni positivi, ma possono anche essere sollecitati dagli accadimenti della vita e inquinare profondamente la nostra vita se non siamo in grado di arginare la meccanicità di questo processo. Del resto non è possibile sottrarsi alle influenze degli eventi esterni e, quindi, al variare delle circostanze della vita. Possiamo però “alterare” a vantaggio del nostro benessere e sviluppo la relazione con tali eventi, non trovandoci più nel caso degli eventi negativi a subirne la meccanicità dell’impatto sui nostri stati interiori.

Non possiamo cambiare direttamente molti eventi esterni, ma possiamo trasformarli solo modificando gli stati interni, e ciò significa mettere ordine nel caos della “casa” (la nostra mente) in cui abitiamo. Similmente a quanto sosteneva il filosofo greco Epitteto (“Non sono le cose a preoccuparci, ma l’opinione che ci costruiamo di esse”), non sono gli eventi negativi quotidiani a trasmetterci stati interni negativi, bensì la nostra reazione ad essi. Così se i nostri stati interiori sono adeguati nulla degli eventi esterni può inquinare la nostra vita mentale a tal punto da portarci fuori dalla nostra consapevolezza. In questo senso un utile esercizio per vivere più coscientemente è proprio quello di imparare a distinguere gli stati interiori e gli eventi esterni, per poi tentare di affrontare un qualsivoglia evento esterno osservandone la natura e usando lo stato d’animo interiore più appropriato.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 28: Lo scopo personale e il suo ruolo nel lavoro su di sé

Leggi consigli su: Come ritrovare se stessi

scopo personale

Lo scopo personale e il suo ruolo nel lavoro su di sé

Lo scopo personale è un aspetto importante nel percorso per aumentare la consapevolezza di sé. Esso è non solo una modalità di impegno per migliorare il livello del nostro Essere, ma anche un modo di comprendere con l’esperienza le idee alla base di questo sistema psicologico, rendendole vive per noi e non solo concetti estranei alla nostra persona.

Nella precedente lezione abbiamo rilevato l’importanza del fatto di porsi degli scopi nella propria vita non solo per avere un indirizzo nelle nostre azioni quotidiane, sottraendole così alla casualità delle circostanze. Il fatto di avere degli scopi  – chiaramente scopi che possono contribuire a migliorarci – ci aiuta anche a selezionare gli stimoli che ci raggiungono dall’esterno, evitando quegli input non funzionali ai nostri obiettivi e che possono da essi distrarci. In definitiva, avere degli scopi – ragionevoli, adatti a noi e realistici – serve a mettere ordine nelle nostre esistenze. Affrontiamo ora un aspetto più “raffinato” del porsi uno scopo, in relazione al lavoro su se stessi e, quindi, in rapporto alla possibilità di sviluppo del nostro Essere. La scelta di uno scopo personale nel nostro vivere consente di modellare in maniera più raffinata la forma del nostro Essere; tuttavia, ciò può accadere solo quando lo scopo personale (nel senso di scelto dall’individuo stesso e non imposto dall’esterno) è collegato alla comprensione delle idee del sistema psicologico basato sulla Quarta Via. Infatti, nei termini del lavoro su se stessi, la formulazione dello scopo personale e la sua capacità di modellare il nostro Essere sono collegati direttamente al tentativo di metter in pratica ciò che viene insegnato in tale sistema.

Un aspetto importante dello scopo personale nel lavoro su di sé è la sua dinamicità all’interno del legame che esso deve avere con altri scopi a differenti livelli. Prendiamo, ad esempio, lo scopo di non esprimere un particolare tipo di emozione negativa: se limitassimo tale scopo personale soltanto alla non espressione, ci comporteremmo come dei bravi scolaretti, il cui unico obiettivo è fare o non fare una certa cosa, perdendo in questa maniera il senso più profondo del darsi uno scopo, ossia arrivare ad una comprensione più ampia. Occorre, dunque, inserire lo scopo personale che ci siamo dati in un percorso che preveda diversi livelli di comprensione per non diventare una sterile ed inutile esibizione di atteggiamenti “corretti” privi di sostanza. Tornando allo scopo di non esprimere un particolare tipo di emozione negativa, dovremmo mettere in relazione tale scopo personale con la comprensione dei motivi per cui non serve ed è dannoso manifestare emozioni negative. Quest’ultimo aspetto lo possiamo comprendere utilizzando lo strumento fondamentale nel lavorare su di sé che è la presenza a noi stessi (coscienza di sé nel presente), attraverso cui potremmo avere l’esperienza di come psicologicamente ci lascia l’espressione dell’emozione negativa e di cosa potremmo fare se non la esprimessimo. In questo modo il nostro scopo non si riduce solo al “compito” della non espressione, ma si sviluppa nella direzione del comprendere che cosa significa e cosa comporta compiere questo sforzo; potremmo così anche provare ad utilizzare l’energia che avremmo impiegato nel manifestare l’emozione per sviluppare in noi qualcosa di nuovo. Così facendo lo scopo si amplia verso lo sperimentare altri atteggiamenti  in grado di condurci a scoprire cose nuove di noi stessi. Se affrontiamo il lavoro in questo modo, lo scopo di non esprimere un’emozione negativa non consiste in “qualcosa che dobbiamo fare” ma si trasforma in “comprendere perché non fare qualcosa”.

Appare chiaro che la possibilità nel lavoro su se stessi di porsi uno scopo personale può avvenire solo ad un certo punto del proprio percorso. Infatti, bisogna aver sviluppato una certa capacità di auto osservazione, di presenza a se stessi e di consapevolezza, oltre che avere maturato una certa conoscenza di base delle idee di questo sistema psicologico. Se così non fosse sarebbe molto difficile trarre un reale beneficio da tale sforzo, così come la stessa riuscita dello scopo verrebbe messa a rischio. Il tipo di scopo che una persona si ripropone può essere un indicatore del livello del proprio Essere in relazione alle idee del sistema psicologico della Quarta Via. Come già precedentemente detto il modo in cui uno scopo personale viene formulato è in stretto collegamento con le idee del sistema sul lavoro su noi stessi. Se, iniziando a lavorare su di noi, osserviamo la nostra meccanicità – il fatto di non avere padronanza di noi stessi e di reagire in realtà in maniera automatica –  potremmo allora essere portati a proporci lo scopo di compiere intenzionalmente una determinata azione come ad esempio non usare alcune espressioni quando parliamo. Applicandoci a questo scopo avremo la possibilità di verificare quanta difficoltà facciamo nell’essere intenzionali, e potremo renderci conto di come certi comportamenti derivino dall’abitudine generata dall’accumulo di atteggiamenti automatici negli anni.

Così facendo lo scopo diventa il modo per verificare quanto viene suggerito dal sistema psicologico basato sulla Quart Via, attraverso l’esperienza personale. Chiunque compia uno sforzo genuino di mettere in pratica quanto viene consigliato da questo sistema psicologico potrà osservare, in rapporto al proprio livello d’Essere, le sue manifestazioni peculiari, i propri limiti, ossia potrà sperimentare lo stato di sviluppo del proprio Essere. É opportuno specificare che l’azione di “porre in evidenza” non va intesa nella direzione di sottolineare i limiti personali, ma si riferisce all’idea di una comprensione emozionale, di scoperta e di verifica, del nostro stato attuale. In questo modo la natura di indicatore dello scopo può portare con sé nuova energia, cosa che verrebbe a mancare se il “porre in evidenza” avesse il carattere di un giudizio negativo riguardo le nostre limitazioni o caratteristiche.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione precedente: Lo scopo personale e la sua importanza nella vita

Leggi: Come individuare scopi nella propria vita

scopo

Lo scopo personale e la sua importanza nella vita

Lo scopo è ciò che orienta il nostro agire. Ma nella vita non è solo importante averne uno, ma è fondamentale anche la qualità che tali scopi hanno nel senso di favorire la nostra crescita personale…

Nella vita di tutti i giorni, per non perdere la direzione della propria esistenza, è importante la presenza di uno scopo. Il senso di disorientamento che può coglierci, il fatto di non sapere quale sia il passo successivo che dobbiamo compiere, sono situazioni che ci troviamo a sperimentare perché non siamo riusciti a darci uno scopo, oppure perché facciamo fatica a mettere a fuoco lo scopo che ci eravamo dati, o ancora perché ci eravamo cullati in uno scopo immaginario che si dissolve a contatto della realtà. È facile, dunque, comprendere che avere uno scopo è una componente basilare della nostra esistenza, in grado di fornire una direzione e di darci una spinta verso qualcosa; al tempo stesso può anche essere fonte di illusione, se lo scopo è mal posto o irreale, capace di condurci a perderci e a prendere decisioni errate.

Una delle funzioni intrinseche all’avere uno scopo consiste nel fornire i criteri in base ai quali attuare un processo di discriminazione rispetto a quello che ci circonda e con cui veniamo a contatto. Infatti, nel momento in cui focalizziamo uno scopo da perseguire possiamo, rispetto ad esso, valutare ciò che è in grado di aiutarci a raggiungerlo e ciò che, invece, è di ostacolo. In questo modo non solo avere uno scopo  indirizza i nostri sforzi ma ha in sé le potenzialità di guidare la nostra scelta rispetto a quali influenze sotto cui porsi, evitando così la casualità di queste ultime con il rischio di soggiacere a influssi in grado solo di “intossicarci”. Inoltre, è fondamentale renderci conto che avendo uno scopo saremo anche in grado di affrontare dei sacrifici, nel momento in cui abbiamo la convinzione che quel fine verso cui ci stiamo dirigendo è qualcosa di buono e in grado di renderci migliori.

Tutti intuiscono il significato del fatto di avere uno scopo nella vita: serve a dotarci di una direzione grazie alla quale indirizzare il nostro agire. L’individuo senza uno scopo è come una barca che va alla deriva; non solo non c’è un orizzonte verso cui dirigersi, ma quel che è peggio la nostra direzione è data da venti e correnti occasionali senza che una volontà intervenga ad imporre una direzione. Per restare sulla metafora della barca, questa pur non avendo deciso una propria direzione ossia una meta dove andare, comunque non resta ferma ma verrà mossa da agenti (vento, correnti, onde) occasionali. Allo stesso modo, anche quando un individuo, in apparenza, non sembra avere alcuno scopo nella propria vita, è facile notare che implicitamente e meccanicamente egli, comunque, desidera genericamente vivere a lungo, avere a disposizione del denaro e, anzi, aumentarne la quantità, godere di agi. Questi scopi impliciti sono come gli agenti atmosferici che muovono la barca priva di meta: ci dirigono a casaccio nella nostra esistenza, rendendoci “schiavi” delle circostanze. Infatti, si tratta di scopi che non portano da nessuna parte e che fanno sì che semplicemente la vita accada. Caso diverso è la situazione in cui una persona desideri avere un certo tipo di lavoro o conseguire una laurea all’università: si tratta di esempi in cui esiste uno scopo ben chiaro, in grado di dare una direzione ben definita all’agire dell’individuo. Ma avere uno scopo non basta: infatti, per perseguirlo bisogna compiere dei sacrifici, e tra questi un tipo particolare di sforzo. Si tratta dell’impegno a scartare tutto ciò che non è utile al raggiungimento dello scopo, scegliendo di concentrarsi solo su ciò che funzionale a realizzare quanto ci si è prefissati. Questo discorso è valido per gli scopi in generale e ancor più per il lavoro su di se stessi: quando si è assunto questo scopo ci si deve comportare con esso come faremmo con gli altri scopi nella vita. È uno scopo che non ci tiene aggrappati a ciò che siamo in un certo momento e occorre del sacrificio per raggiungerlo; eppure per altri versi esso è diverso da quanto accade ordinariamente nella vita, perché lo scopo nel lavoro su noi stessi in un certo modo va contro la vita.

Provate a fare un esperimento prendendovi un po’ di tempo per riflettere su quale scopo nella vita stiamo perseguendo, se ce ne è più d’uno, e cosa stiamo facendo per raggiungerlo. Osservate come spesso tali scopi sono esteriori, legati a cose materiali e difficilmente accompagnati da scopi definibili come di “crescita personali”. Lo scopo del lavoro su se stessi basato sulle conoscenze psicologiche del sistema della Quarta Via è qualcosa di diverso rispetto ad uno scopo nella vita ordinaria, anche se i due tipi di sforzo possono interagire fra loro dal momento che il lavoro su di sé è di aiuto al perseguimento degli scopi della vita ordinaria (oltre che, talvolta, svelarne il carattere illusorio), così come alcuni scopi nella vita ordinaria possono essere di sostegno agli scopi del lavoro su se stessi.

Il principale scopo del lavoro su se stessi riguarda il ricordo di sé. Nel momento in cui ci troviamo a vivere l’esperienza del ricordo di sé, abbiamo al contempo a una visione molto più chiara e ampia di noi stessi e di ciò che ci circonda; tale visione è fortemente legata alla comprensione delle idee che guidano il lavoro su noi stessi basato sulla Quarta Via. Quando siamo nello stato di ricordo di sé, il fatto di ricordare il proprio scopo rispetto al lavoro ci consente di maturare una comprensione più completa di quello che è il percorso e gli elementi (i passaggi) che lo costituiscono. In questo modo è possibile attuare un processo che è fondamentale in relazione allo scopo nel lavoro su noi stessi:  la ridefinizione del medesimo rispetto a quella che è la nostra comprensione reale al momento del lavoro. Affronteremo questo aspetto dello scopo nella successiva lezione su “lo scopo e il livello del nostro Essere” in cui si specificherà meglio lo stretto rapporto che esso ha con il livello del nostro Essere e la comprensione del significato del lavoro su di sé.

Lo stretto rapporto tra lo scopo e il ricordo di sé può avere anche risvolti più pratici e più “vicini” alla nostra vita quotidiana. Facciamo un esempio: una persona si propone lo scopo di guadagnare molti soldi. Tuttavia osservandosi mentre ci si trova in una condizione di ricordo di sé, ci si rende conto di avere poche competenze professionali specifiche.  Così se per guadagnare più soldi occorrerebbe fare un lavoro più remunerato in quanto più prestigioso, questa persona giungerebbe alla conclusione di non avere le basi per poter ambire ad uno stipendio più alto. Ciò comporta la necessità di riformulare un nuovo scopo più aderente alla realtà. Così questa persona potrebbe stabilire che il nuovo scopo consiste nel dedicare tempo ed impegno nell’acquisire competenze e professionalità confacenti alle proprie caratteristiche e, raggiunto questo traguardo, fissare un altro scopo più a lungo termine rivolto all’aumentare i propri guadagni e avere così una vita più agiata e semplice. In relazione a questo esempio, dobbiamo sempre porre particolare attenzione nel considerare lo scopo che ci riproponiamo. Infatti, se tale scopo è troppo lontano dalle nostre possibilità o eccessivamente arduo è facile smarrirsi nel perseguirlo;  dobbiamo allora riportare l’attenzione su ciò che è fattibile per noi in quel momento, riformulando lo scopo in maniera attiva. Riproporsi un scopo sostenibile è dunque fondamentale perché in esso potrebbero esserci delle contraddizioni che non riusciamo a scorgere: dobbiamo, quindi, considerare ciò che ci verrà richiesto per portare a termine il nostro scopo, quali cambiamenti tale processo introdurrà nella nostra vita e dove troveremo le capacità di portarli avanti. La riformulazione di uno scopo ci porta ad incontrare i nostri limiti e con essi ciò che realmente siamo e su cosa vogliamo impegnarci a lavorare.

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Leggi la lezione n. 26: Le impressioni dalla vita: come gestirle

Leggi su come individuare uno scopo nella vita

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Esercizi per sviluppare l’attenzione divisa

Riprendiamo il tema dell’attenzione divisa e proponiamo una serie di esercizi che servono a comprendere in maniera esperienziale in cosa essa consista e che possono essere un piccolo allenamento a sviluppare questo tipo di uso dell’attenzione.

Nella precedente lezione abbiamo iniziato ad affrontare il tema dell’attenzione, un argomento essenziale in ogni percorso di conoscenza di sé e consapevolezza. Abbiamo visto come talvolta può capitare di agire senza attenzione, meccanicamente, e in queste condizioni potrebbe accadere di compiere delle azioni, anche normali e logiche. Altre volte l’attenzione non è il frutto di un nostro sforzo, ma essa viene attivata da una forza di attrazione esercitata dalla situazione in cui siamo. Infine, c’è il caso dell’attenzione volontaria e quindi controllata. Chiaramente questo terzo tipo di attenzione richiede uno sforzo e una fatica, proprio perché siamo poco abituati a auto sollecitare la nostra attenzione. Tuttavia i vantaggi di un tale uso dell’attenzione sono molti, a cominciare dal riuscire ad avere molte più informazioni sulle situazioni che stiamo vivendo. Inoltre, l’attenzione nel suo uso volontario e controllato può essere considerata come il principio elementare della consapevolezza: il primo grado. Inoltre, nella precedente lezione, abbiamo anche iniziato ad affrontare il tema dell’attenzione divisa, ossia di un particolare uso dell’attenzione volontaria. Essa consiste nella possibilità nel corso di una esperienza di dirigere una parte della nostra attenzione su noi stessi che stiamo vivendo quella situazione. Ciò significa che, in questo caso, l’attenzione viene divisa: una parte continua ad essere indirizzata su ciò che sta accadendo, mentre una parte ad osservare noi stessi.

L’uso dell’attenzione divisa richiede un processo graduale di acquisizione di tale sforzo, a partire dal suo uso mentre svolgiamo le abituali faccende delle nostre giornate. Con gradualità attuiamo dapprima la partecipazione e il coinvolgimento in ciò che osserviamo e viviamo; successivamente introduciamo l’osservazione di noi stessi, delle nostre reazioni a quello che sta accadendo, sperimentando la capacità di comprendere molto di più della situazione che stiamo vivendo. Ad un livello più avanzato nell’uso dell’attenzione divisa, potremo non solo avere maggior consapevolezza di noi ma utilizzare anche tale stato per guidare coscientemente, operando scelte, il nostro comportamento agli stimoli esterni. A margine di questa trattazione è bene ricordare che l’uso dell’attenzione divisa non comporta la creazione di una distanza emozionale tra l’individuo e l’esperienza che sta vivendo (ciò che viene osservato).  In realtà quanto minore è il nostro funzionamento meccanico, grazie ad una parte dell’attenzione rivolta anche su noi stessi e non totalmente assorbita dall’esterno, tanto maggiore sarà il contatto reale con ciò che sta avvenendo intorno a noi. Più consapevoli siamo di noi nel mentre siamo impegnati in qualcosa, più riusciremo ad essere “realmente” partecipi di quello che accade. Così, il lavoro sull’attenzione va inteso e deve essere compreso nella direzione dell’ unificazione tramite l’espansione delle percezioni che abbiamo in un dato momento, e non come un’azione di divisione.

Come ci ricorda P.D. Ouspensky che alla domanda sul perché è tanto difficile controllare l’attenzione, così rispondeva: “ Mancanza di abitudine. Siamo abituati a lasciare che le cose accadano. Allorché vogliamo controllare l’attenzione o qualcos’altro, lo troviamo difficile, proprio come il lavoro fisico è difficile se non ci siamo abituati.” Lo sviluppo dell’attenzione divisa avviene secondo un processo graduale che deve essere praticato per riuscire a portare i suoi frutti. Proviamo allora a esaminare alcuni semplici esercizi in grado di favorire tale processo nei tre centri che compongono un individuo.

Esercizi per il Centro Motorio e il Centro Istintivo

  • Spostiamo degli oggetti della casa intenzionalmente facendo attenzione ai movimenti che compiamo per operare tale spostamento.
  • Nel fare i lavori manuali proviamo a programmare le diverse fasi che si susseguiranno nello svolgerli e seguiamole consapevolmente nella loro successione.
  • Notiamo e concentriamoci sulle sensazioni di caldo/freddo provenienti dal nostro corpo.
  • Soffermiamoci nell’avvertire il gusto del cibo che mangiamo e gli odori intorno a noi.

Esercizi per il Centro Emozionale

  • Mentre ascoltiamo musica o guardiamo un film, non limitiamoci ad assorbire questi stimoli esterni ma spostiamo la nostra attenzione sull’emozione che essi suscitano in noi.

Esercizi per il Centro Intellettuale

  • Nel corso di una lettura, ogni tanto fermiamoci e spostiamo la nostra attenzione sul richiamare alla mente quanto fin lì abbiamo letto per renderci conto di ciò che abbiamo assimilato.
  • Mentre siamo impegnati in una attività proviamo a fare attenzione su quali sono i nostri pensieri concomitanti, cercando di comprendere da che cosa sono stati innescati.
  • Scegliere un tema, un argomento e cominciamo a pensarci su con attenzione, ossia senza lasciarsi trascinare da un pensare meccanico e abituale. Infatti il pensiero meccanico si trasforma in immaginazione.

Gli esempi appena riportati sono solo alcune modalità per provare ad esercitare la nostra attenzione al fine di essere sempre più presenti nel momento. A questo proposito bisogna osservare bene che “essere presenti nel momento” non significa solo dare la massima attenzione a ciò che accade dimenticandoci di noi (identificandoci totalmente con la situazione), ma includere noi stessi come oggetto dell’attenzione. Essere nel qui ed ora richiede necessariamente la consapevolezza di noi e della situazione. Questi esercizi sono una semplice “palestra” al fine di consentirci di sviluppare la nostra attenzione. Essa infatti deve essere esercitata e nelle fasi iniziali come per ogni attività “nuova” è richiesto un certo sforzo perché l’esercizio non abituale comporta difficoltà. Tuttavia, con il tempo e la pratica ogni persona apprende le modalità più consone a sé per utilizzare al meglio la propria attenzione e soprattutto la pratica consentirà di acquisire nuovi strumenti. Non bisogna scoraggiarsi se l’impegno richiesto nei primi tentativi sarà molto faticoso dal momento che la quantità di energia richiesta per praticare qualcosa a cui non siamo abituati è più elevata; con l’esercizio, comunque, tale condizione di “fatica” sarà minore (anche se uni sforzo sarà sempre richiesto ed è bene che sia così) e saremo in grado di sviluppare una maggiore capacità di attenzione divisa su noi e su quello che ci circonda impiegando una quantità di energia minore. Questa capacità acquisita ci darà modo di osservare nel momento molte più cose di prima, espandendo la nostra attenzione per includere non solo l’oggetto esterno a noi ma anche noi stessi ed il nostro mondo interiore.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Lezione n. 24: L’attenzione divisa e la consapevolezza di sé

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attenzione divisa

L’ attenzione divisa e la consapevolezza

Esistono varie tipologie di attenzione: quella passiva in cui gli stimoli semplicemente ci “arrivano” senza che ci sia una nostra concentrazione su di essi; quella attiva, in cui ci dirigiamo volontariamente verso un oggetto o un certo stimolo; infine quella che viene definita attenzione divisa in cui attivamente osserviamo sia l’oggetto del nostro interesse sia il modo in cui noi stessi siamo impegnati in quella circostanza. Solo questa forma di attenzione divisa, se sviluppata e coltivata, può aiutarci a promuovere la nostra consapevolezza.

In genere la nostra attenzione viene catturata da quanto accade intorno a noi e da ciò in cui siamo occupati. Quando ciò accade le attività in cui siamo presi e in cui operiamo con le nostre parti motorie, emotive e intellettive sono svolte per la maggior parte del tempo in modo automatico. Ciò accade anche per quelle attività che richiederebbero una attenzione maggiore, in quanto il funzionamento meccanico della nostra “macchina” comporta un minor sforzo e una minore quantità di energia. Spesso ciò accade in quelle attività che sono per noi abitudinarie mentre è più facile sfuggire a questa assuefazione quando ci dedichiamo a lavori nuovi.

Naturalmente il livello di attenzione con cui ci dedichiamo a tali attività determina anche la profondità del nostro impegno, la riuscita e l’efficacia del nostro fare: se ad esempio stiamo cucinando e svolgiamo questa attività meccanicamente non metteremo molta attenzione in ciò che stiamo facendo; così, ci potrebbe capitare di scoprire di aver condito il piatto in preparazione con lo zucchero anziché con il sale solo perché quest’ultimo era stato spostato dal suo posto abituale. Potrebbe anche accadere di non riuscire a ricordare quando ciò sia successo proprio per l’automaticità dei nostri gesti. Dunque, come descritto in questo esempio, ci può capitare anche in altre circostanze di avere difficoltà a ricordare il modo in cui abbiamo compiuto determinate azioni e ciò accade perché in quelle occasioni eravamo guidati dalle parti meccaniche della nostra psiche. Conseguentemente il nostro livello di attenzione era basso o nullo.

Al contrario quando proviamo a essere presenti a noi stessi, attiviamo la nostra attenzione attraverso un uso intenzionale della nostra mente. Di conseguenza se ci concentriamo sul modo in cui compiamo una certa azione o su determinati pensieri, oppure sulla tipologia di stimoli a cui consentiamo di raggiungerci e che stimolano in noi certe emozioni, saremo in grado non solo di non subire automatismi ed eventi, ma impareremmo a conoscere e gestire ancora meglio il nostro Essere. Lo stesso accadrebbe se mettessimo maggiore attenzione sui nostri interlocutori – sui loro movimenti, sulle loro parole – permettendoci di ricavare molte informazioni su di loro e sulla relazione in atto.

Tuttavia il lavoro su noi stessi ci richiede uno sforzo in più oltre il porre attenzione in ciò che facciamo o accade intorno a noi. Infatti, facendo attenzione in questo modo saremmo concentrati ancora solo su una cosa sola esterna o interna a noi stessi. Il successivo livello di attenzione è quello dell’attenzione divisa. Essa si basa sullo sforzo di aggiungere all’ osservazione dell’oggetto anche l’osservazione di noi che agiamo in quel momento. Questo vuol dire sforzarsi di “vedere” non solo cosa stiamo osservando (attenzione ordinaria) ma anche come “funzioniamo” nel corso dell’osservazione (del nostro fare). Se ad esempio stiamo guardando con partecipazione un film in televisione, e questo ci porta a funzionare tra l’altro con le nostri parti emozionali, potremmo cominciare ad osservare anche il nostro modo di essere in questa circostanza. Così, mentre continuiamo a vedere il film, potremmo osservare le nostre reazioni alle scene in televisione: le tensioni muscolare che sviluppiamo; il desiderio che avvengano o meno certe cose; i pensieri che si susseguono riferiti al film o ad altri aspetti della nostra vita. La differenza sostanziale tra i livelli di attenzione è questa: al livello meccanico siamo solo catturati dal film, in modalità passiva; al secondo livello diamo attenzione a ciò che guardiamo, seguiamo con interesse e partecipazione la trama del film; al terso livello riusciamo a osservare noi stessi mentre siamo impegnati in questa attività, aumentando la nostra consapevolezza.

In questo tipo di osservazione di noi, frutto di un’attenzione divisa è fondamentale nelle prime “esercitazioni” non cercare di cambiare nulla di quanto accade, iniziando a considerare come giusto o sbagliato il nostro atteggiamento. Prima di provare a cambiare qualcosa è importante imparare ad osservarci come siamo, con le nostre meccanicità, debolezze e forze.
La parte di noi che osserva e che tramite la pratica si viene a formare, tenderà nel tempo attraverso l’esercizio a fortificarsi. Quando siamo identificati (assorbiti, catturati) in qualcosa, tale stato impegna tutta la nostra attenzione; tuttavia, se riusciamo ad osservare ciò che stiamo facendo, per cui di conseguenza saremo meno identificati, accade che una certa parte dell’attenzione viene sottratta per essere investita nella promozione della consapevolezza di noi.

In generale, gli individui vivono scollegati rispetto ai processi che avvengono in loro e ai comportamenti che agiscono. Di questo fatto essi non ne sono consapevoli. Così, se una persona sta cucinando può accadere che una parte di lei è dedita a compiere questa azione mentre un’altra parte pensa a un problema di lavoro irrisolto. Inconsapevolmente quello che accade è che l’ attenzione divisa di questa persona viene attivata inconsapevolmente su due “oggetti” diversi: la cucina e gli altri pensieri. Quando, invece, dividiamo consapevolmente la nostra attenzione si verificano alcuni cambiamenti nella nostra vita mentale dal momento che ciò che prima si verificava accidentalmente e senza coscienza, ora viene ricercato appositamente. Questa nuova situazione dell’ attenzione divisa attuata volontariamente è sia la conseguenza sia uno stimolo ad essere più presenti nel “qui ed ora”. Ciò comporta la possibilità di vivere le esperienze in modo più completo e ricco, oltre che di trarre dalle stesse esperienze maggiori informazioni su noi stessi e sul contesto intorno a noi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 23: L’attrito psicologico e la consapevolezza di sé

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attrito

L’ attrito psicologico e la consapevolezza di sé

L’ attrito psicologico, per quanto sia una situazione spiacevole come esperienza, è una condizione inevitabile non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche specificamente nel condurre il lavoro su se stessi. Esso è utile nella misura in cui, generando energia, la mette a disposizione di un impegno da parte nostra nel favorire i processi di consapevolezza.

Molto spesso nella vita di tutti i giorni sperimentiamo conflitti psicologici sotto forma di attrito o frizione mentale: ciò accade quando due diversi aspetti (attese, intenzioni, giudizi, desiderio…) entrano in collisione fra loro dal momento che essi non collimano. La frizione e l’attrito sono in rado di mettere in moto l’individuo che li sperimenta, in genere, per porre fine alla spiacevole situazione che si è venuta a creare. La potenzialità della conoscenza e della pratica del metodo di lavoro su di se stessi, sta nella possibilità di convogliare tale energia nel promuovere un atto di consapevolezza. Riprendendo l’esempio usato in precedenza: se ci troviamo in relazione con una persona che ci giudica, possiamo cercare di non identificarci con ciò che sta accadendo (non ci facciamo assorbire totalmente dall’interazione), mettendo una distanza tra noi e gli input (il giudizio) che riceviamo; così facendo riusciremo a osservare noi stessi e il rapporto in corso, convogliando l’energia anziché nel reagire verso nell’attenzione. Diventeremo allora consapevoli che l’altra persona è diversa da me (sentire questo vuol dire considerare che ha schemi e strutture mentali diverse dalle nostra, che ha differenti automatismo comportamentali); tale diversità tra la nostra natura e quella dell’interlocutore che crea un attrito può metterci nella condizione di mostrare nuovi aspetti nel rapporto tra noi e l’altro. Inoltre se non respingiamo subito l’impressione sgradevole che proviamo la possiamo osservare in maniera neutrale (grazie al distacco non identificatorio) e, così facendo, potremo apprendere qualcosa in più su noi stessi che non ancora non conosciamo o che, seppure già a noi nota, si sta ripresentando nuovamente segnalando una nostra momentanea difficoltà. Allo stesso modo possiamo imparare qualcosa di più sul nostro interlocutore se non lo respingiamo a causa del fastidio che ci ha provocato.

Quello che è accaduto, in questo esempio, è che ci siamo posti in modo differente nell’affrontare la frizione sperimentata a seguito dell’atteggiamento giudicante del nostro interlocutore, e questo ha fatto si che potessimo aggiungere alla nostra visione diverse altre possibilità. La realtà si è, allora, allargata: ci siamo posti altre domande a cui non abbiamo risposto automaticamente. Abbiamo usato la difficoltà del momento come veicolo per esplorare e scoprire qualcosa di nuovo su di noi, sull’altro e sulla situazione. Alla fine, anziché agire il fastidio che provavamo, siamo riusciti a sollecitare la nostra attenzione e la nostra consapevolezza, utilizzando quelle energie sollecitate dalla frizione in maniera intenzionale per costruire qualcosa di nuovo, anziché continuare a esprimere le stesse risposte di sempre. Come si vede in ogni momento che viviamo possiamo emettere molte risposte diverse. Il fastidio provato nel corso dell’interazione, la frizione da esso generata può dare origine (per chi sta lavorando consapevolmente su se stesso) ad uno sforzo intenzionale basato sull’evocazione del il Ricordo di Sé e orientato ad allargare la nostra attenzione. Questa è tra le tante risposte possibili quella in grado di contribuire al miglioramento di noi stessi e allo sviluppo del nostro Essere. Ogni momento difficile che genera frizione è potenzialmente in grado di essere un’opportunità per lavorare su noi stessi. Così un piccolo stratagemma che possiamo utilizzare è quello di porci, in quella situazione, domande in grado di rallentare possibili risposte automatiche: “da quale aspetto della mia personalità nasce questa reazione?” o “qual è la mia fragilità che l’attrito sperimentato sta mettendo in evidenza”, etc. Bisogna imparare a ricordarci che è possibile utilizzare i momenti di difficoltà per riuscire ad ottenere qualcosa dal Lavoro su se stessi.

Le frizioni e gli attriti non si generano solo occasionalmente, ma nel corso del Lavoro su se stessi possono essere introdotti anche intenzionalmente. Ciò accade durante la pratica dell’auto osservazione. Infatti, l’osservazione di sé è in grado di creare attrito dal momento che mette a confronto ciò che noi pensiamo di noi con ciò che scopriamo, con ciò che realmente siamo. Questo può mettere paura, è faticoso e può indurre stanchezza e desiderio di abbandonare il lavoro. Tuttavia, questo tipo di frizione genera “luce”, ossia ci fa vedere chiaramente la natura delle cose e di noi stessi. Più saremo in grado di perseguire nel lavoro più tale” luce” diventerà sempre più intensa consentendoci di vedere noi stessi al di là di ogni dubbio.

C’è da dire che l’attrito viene generato nel lavoro su se stessi anche a prescindere da situazioni esterne che possano innescarlo- Infatti, nel momento in cui un individuo comincia a impegnarsi nel ricordare se stesso, nel non identificarsi, nell’osservare il proprio agire, accade che inizi presto a sperimentare l’attrito. Che attrito? Quello generato dal volere e non potere, dal desiderio di essere e sentirsi una persona libera e constatare di essere solo un automa. In questi casi è bene ricordarsi che l’attrito genera energia: dunque, ben vengano gli attriti a patto di impiegare bene tale energia cercando con più forza la propria consapevolezza.  Se il lavoro su di sé fosse facile non ci sarebbe attrito, ma questo vuol dire che non ci sarebbe cambiamento in noi. Solo mettendo il bastone tra le ruote della meccanicità, ossia la nostra condizione ordinaria, si può creare attrito che a sua volta dà la spinta giusta nell’impegno nel lavoro su se stessi. Come ci ricorda P.D. Ouspensky, : “Lavoro significa attrito, conflitto tra si e no, tra la parte che desidera lavorare e quella che non vuole. Esistono parecchie parti di noi che non desiderano lavorare, sicché nel momento in cui cominciate il lavoro ha inizio l’attrito. Se decido di fare qualcosa e una parte di me non desidera farla, debbo insistere finché sono capace di portare a termine la mia decisione. Non appena però il lavoro si ferma, l’attrito cessa”.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 22: La frizione ovvero gestire il conflitto

Leggi sul conflitto psicologico

attenzione

L’attenzione strumento di consapevolezza

L’attenzione è un potente strumento per sviluppare una maggiore consapevolezza di sé. Ma solo l’attenzione volontaria e frutto di uno sforzo riesce a produrre i risultati utili al lavoro su di sé. Inoltre la pratica dell’attenzione nell’osservazione di sé richiede la capacità di dividere l’attenzione per poter mettere fine ai comportamenti automatici

Ci sono tre tipi di attenzione: l’attenzione zero, che caratterizza tutti i nostri comportamenti automatici; l’attenzione che non richiede sforzo, perché funziona per attrazione in quanto ci sono cose che la suscitano e la attirano; l’attenzione che è diretta da uno sforzo e dalla volontà. È quest’ultima attenzione ad essere fondamentale per il lavoro su se stessi. L’attenzione è uno strumento fondamentale che rende possibile la pratica dell’osservazione, vero cardine del lavoro su di sé in quanto mezzo per promuovere consapevolezza. Ci sono due tipi di osservazione che possono essere praticati: osservare ed essere presenti a se stessi sono due cose differenti. In entrambi i casi è necessaria l’attenzione. Tuttavia nell’osservare, l’attenzione è orientata all’esterno di noi attraverso i sensi. Nell’osservazione di sé, ossia nell’essere presenti a se stessi, l’attenzione è volta interiormente, e per fare questo non ci sono organi dei sensi. Dall’osservazione di sé nasce un’altra conoscenza. Come ricordato per questo tipo di conoscenza non possiamo servirci dei sensi perché non abbiamo nessun organo sensoriale che si rivolga interiormente e attraverso il quale arrivare a osservarsi con la facilità con cui osserveremmo un panorama o un oggetto. Questo è il motivo per cui l’osservazione di sé è più difficile dell’osservazione. Mentre il primo tipo di conoscenza può mutare le condizioni esterne della vita di una persona, il secondo tipo cambia l’uomo stesso. L’osservazione esterna è un mezzo per cambiare il mondo, mentre l’osservazione di sé è lo strumento per cambiare noi stessi.

Poniamoci però una domanda: quando facciamo attenzione a qualcosa, si è identificati con quel qualcosa? Teniamo conto che essere identificati con qualcosa non è mai uno stato del nostro essere che favorisce la consapevolezza, anzi è una condizione che fa sparire dalla nostra percezione il nostro Io. In quel momento noi siamo solo ciò con cui ci identifichiamo. Tornando alla domanda di prima e cominciamo ad analizzare l’identificazione interiore: una persona che è completamente identificata con un proprio stato interiore (può sentirsi depressa o aver paura o sentirsi offesa o furiosa) è semplicemente il proprio stato. In questo caso la percezione del proprio “Io” e il suo stato sono la stessa cosa. Questa è l’identificazione interiore. La percezione del proprio “Io” è collocata nel proprio stato d’animo. Supponiamo, tuttavia, ora che questa persona osservi il proprio stato: ossia pur continuando a sperimentare quel determinato stato d’animo, inizia anche ad osservarsi. Tale operazione chiaramente richiede attenzione e questa ci pone nella parte più consapevole del nostro funzionamento mentale. Torniamo ora alla domanda precedente: quando si presta attenzione, si è identificati? Chiaramente la risposta è no, se l’attenzione di cui parliamo è un’attenzione consapevole e voluta. Affinché un individuo possa evolversi dalla sua posizione di coscienza ordinaria verso uno stato più alto, è necessario prima di tutto che apprenda a dividere se stesso in due. Cioè, è necessario che oltre a vivere un certo stato, sia anche capace di osservarlo. Se questo individuo è solo il proprio stato, allora egli può fare nulla. Se, invece, riesce a dividere se stesso in un lato osservante e in un lato osservato (la parte di se stesso che sperimenta lo stato), allora inizia ad essere capace di cambiare internamente. Questo concetto è un aspetto miliare del lavoro su se stessi, perché tale metodo rappresenta il modo di liberarci dalla prigione di noi stessi.

L’attenzione può essere divisa anche in un altro modo. In genere le persone quando usano l’attenzione, anche quella condotta coscientemente, tendono o ad indirizzarla verso l’esterno o a focalizzarla verso il proprio mondo interiore. Nel momento in cui siamo in grado di essere consapevoli contemporaneamente  di quanto accade sia dentro di noi sia fuori di noi, stiamo iniziando a praticare l’attenzione divisa. Ad esempio – e questo potrebbe essere un ottimo esercizio per iniziare – possiamo osservare la relazione che intercorre tra noi ed una persona: noteremmo se noi in quella situazione ci sentiamo a nostro agio o meno; al tempo stesso vedremmo come questa persona si comporta (per esempio come muta il suo tono di voce) e potremmo mettere in collegamento il nostro stato e questo aspetto. Dal momento che sia noi sia il nostro interlocutore siamo della macchine, potremmo accorgerci che alcuni nostri comportamenti sono risposte automatiche e, quindi, frutto di schemi, abitudini e pregiudizi. Così come accade per la persona davanti a noi e questa consapevolezza ci porterebbe a valutare differentemente alcuni suoi atteggiamenti. Nella sostanza questo lavoro dell’attenzione divisa ci conduce a una nuova esperienza del mondo.

Inoltre, dopo un certo tempo di lavoro su noi stessi, possiamo diventare osservatori attivi (solo a questo punto possiamo realmente “fare) di ciò che avviene fuori e dentro di noi, evitando per esempio di identificarci o alcune nostre risposte meccaniche. Questo potrà accadere perché allora saremo in grado di avere una visione più neutrale, tenendo conto di un maggior numero di variabili presenti al momento. Saremo più svegli e quindi avremo una visione più oggettiva della realtà e di noi stessi.
La divisione dell’attenzione può essere esercitata con diversi gradi di intensità e, come accade per l’auto osservazione ed il Ricordo di sé, è importante cominciare da situazioni più semplici e limitate per poi crescere nella difficoltà con il tempo attraverso sforzi intenzionali.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 20: Il ricordo di se stessi

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Essenza

L’Essenza e la Personalità

Nel lavoro su di sé vi è un momento molto importante: quello in cui l’uomo incomincia a distinguere tra la sua personalità e la sua essenza. Il vero ‘Io’ di un uomo, la sua individualità, può crescere solo a partire dalla sua essenza. Si può dire che l’individualità di un uomo, è la sua essenza divenuta adulta, matura.

Nel sistema psicologico derivato dagli insegnamenti della Quarta Via accanto alle “mappe” che descrivono l’essere umano in base alle funzioni o centri che lo compongono e in base agli stati di coscienza, esiste un’altra suddivisione quella tra personalità e essenza. L’essenza è quanto propriamente appartiene ad ogni individuo, mentre la personalità è quanto egli ha acquisito nel corso della propria esistenza. Partiamo dalla personalità che può essere definita come l’insieme (struttura) di tutti gli apprendimenti acquisiti progressivamente nel corso della vita e che rappresenta una sorta di “pelle” psicologica dell’individuo. Nella situazione ordinaria la personalità è lo strumento con cui l’individuo si rapporta agli altri e ala realtà, e con cui filtra e decodifica ciò che gli arriva dall’esterno. Sicuramente la personalità è qualcosa di esterno in ciò che è un individuo. Se paragoniamo l’individuo ad una sfera, usando una metafore di Rodney Collin, la personalità (anche rispetto al ruolo delle influenze esterne) è come la luce del mondo che si riflette sulla superficie della sfera: ne caratterizza la superficie ma non è parte della sfera, un po’ come la maschera che indossa l’attore ma che non sarà mai parte dell’individualità dell’attore stesso.

Gran parte del modo in cui un individuo “funziona” è dato dalla sua personalità che, dunque, si attiva in maniera meccanica e senza consapevolezza: una volta strutturata essa ci agisce. Tuttavia, la personalità è da un punto di vista psicologico imprescindibile garantendo quello scambio tra noi e il mondo, rappresentando la nostra identità. La personalità non ci appartiene fin dalla nascita, ma è una struttura acquisita durante la nostra vita tramite l’educazione ricevuta e attraverso l’ambiente viviamo. Per tutti gli individui la personalità rappresenta quello che essi definiscono come “ciò che sono”, ed identificandosi come questa struttura essi ne fanno la propria identità. Come già detto non è possibile immaginare la psicologia di un individuo senza una personalità.  Caso diverso è quello della falsa personalità che si struttura intorno alle fallaci ed errate convinzioni e credenze su ciò che ogni individuo ritiene di essere. A differenza della personalità, il lavoro su se stessi deve mirare a smantellare la falsa personalità per sostituirla con una visione oggettiva e reale di noi stessi.

L’Essenza può essere definita come un processo: essa appare ogni volta che l’individuo riesce a smantellare la propria meccanicità e alla luce della consapevolezza in un dato tempo riesce a comportarsi (riesce ad essere) in maniera oggettiva. Così quando si afferma che l’Essenza è nel manifestare se stessi, si sta dicendo che l’individuo è veramente libero dagli automatismi (la falsa spontaneità) e cosciente di sé e del momento, e può pienamente “fare”. L’Essenza è, dunque, quella potenzialità insita nell’individuo di essere oggettivo, di vedere ed agire distaccato ma partecipe alla vita; è ciò che in ultima analisi costituisce la completa realizzazione del nostro essere pienamente risvegliato. L’Essenza di un individuo è, quindi, la sua vera capacità di essere giusto, equilibrato, imparziale, oggettivo ma non obbedendo a verità esterne e immutabili, ma abbracciando la logica della relatività perché ad ogni livello di sviluppo del nostro Essere corrisponde una diversa visione della realtà.

Il più grande ostacolo nello sviluppo dell’essere umano sta nella differenza che viene a crearsi tra la Personalità ed l’Essenza. Questa divergenza viene chiamata falsa personalità. L’individuo nel suo livello ordinario non conosce se stesso dal momento che non riceve una educazione che favorisca la conoscenza della sua natura. Al contrario la maggior parte dei processi educativi funzionano in maniera opposta, sollecitando una serie di apprendimenti e imponendo ruoli che allontanano la persona dalla propria Essenza e favorendo la costruzione di una falsa personalità. La falsa personalità è un insieme di idee, pensieri e atteggiamenti su noi stessi e sulla realtà che ci circonda che sono stati appresi e a cui gli individui sono molto affezionati e a cui si aggrappano con forza, utilizzando per la loro difesa i respingenti (meccanismi di difesa) in grado di annullare tutti gli attriti che si vengono a creare e che evidenziano la falsità delle nostre credenza. Solitamente la parte più difficile di questo lavoro è che l’uomo ha condensato nella sua falsa personalità un ritratto immaginario di sé molto lontano dalla realtà della sua Essenza.

Il lavoro su se stessi deve mirare allo smantellamento della falsa personalità e consentire alla personalità e all’Essenza di procedere in uno sviluppo reciproco dal momento che l’una ha bisogno dell’altra. Entrambe sono fondamentali nell’individuo: per esempio non dobbiamo pensare che una persona con una Essenza più sviluppata rispetto ad un’altra abbia più possibilità di riuscita nel lavoro su se stessa. Infatti affinché il lavoro possa essere affrontato è necessario che l’individuo sia dotato di una personalità strutturata, in grado di supportare lo sviluppo dell’Essenza. Analogamente chi è dotato di una personalità troppo “forte” potrebbe avere difficoltà nel suo procedere nel lavoro, dal momento che farà molte resistenze a valutare criticamente le proprie meccanicità che lo sostengono.

Una nota particolare merita la cosidetta personalità di lavoro. Si tratta di quella struttura che viene a crearsi nel momento in cui iniziamo a compiere sforzi coscienti rivolti al ricordo di sé e la cui esistenza è a discapito ed in sostituzione della falsa personalità. Dunque, la personalità di lavoro nasce dalla deliberata ricerca della consapevolezza di sé e che proprio grazie a questi risultati viene sostenuta e a sua volta riesce a supportare la persona nel prosieguo del lavoro.

C’è un momento nel lavoro su se stessi in cui iniziamo a vedere i nostri limiti e di come l’ostinata assenza di consapevolezza di noi è alimentata dalle menzogne che ci raccontiamo; è allora che si sperimentano in questo percorso dei momenti difficili perché infrangere il nostro ritratto immaginario (falsa personalità) e scoprire in noi aspetti che non pensavamo di avere, è non solo complicato (sforzo) ma anche estremamente doloroso. In questa fase è possibile cominciare a intravedere la nostra Essenza e a sperimentare non solo l’ancora fugace suo beneficio, ma anche l’attrito generato dalla nostra personalità che potrebbe non apprezzare l’essenzialità di ciò che sta nascendo. Non dimentichiamo che la personalità frutto dell’apprendimento ordinario è estremamente convenzionale e quindi potrebbe rifuggire da abitudini e atteggiamenti propri del manifestarsi della nostra Essenze che sfuggono a tale ordinarietà. Per poter modificare la struttura della falsa personalità sostituendo alle “immagini” che la compongono una più realistica visione di noi è necessario un lavoro intenzionale che deve essere condotto gradualmente. Infatti, una diversa e più vera visione di noi e della realtà dovesse all’improvviso sostituire la falsa personalità, potrebbero esserci conseguenze anche spiacevoli per l’individuo, fatte di disorientamento e perdita di identità. Difficilmente potremmo sostenere questa sostituzione così repentina.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 17: Conoscenza ed Essere

Leggi sulla personalità

conoscenza

Conoscenza ed Essere

La Conoscenza e l’Essere rappresentano due aspetti inscindibili su cui il lavoro su se stessi dovrebbe essere condotto. La prima pone le basi per sapere come funziona la nostra psiche; il secondo aspetto rappresenta la parte esperienziale di questa conoscenza quando essa viene “calata” nella nostra vita contribuendo al nostro sviluppo.

Una volta che un individuo abbia constatato quello che è il proprio stato di scasa consapevolezza di sé, con tutto ciò che ne consegue, come deve portare avanti il lavoro su di sé? Ovvero come può iniziare a lavorare per sviluppare il proprio essere? In genere il lavoro su di sé va affrontato seguendo due linee: quella della Conoscenza e quella dell’Essere, che devono essere sviluppate entrambe. Da quale di queste due linee dovrebbe iniziare il lavoro? Forse dovrebbe iniziare ad apprendere e fare sue alcune conoscenze di questo sistema psicologico oppure cominciando ad agire sui suoi modi di essere? Questo esempio serve a farci comprendere che la totalità del nostro Essere si compone sia delle conoscenze che abbiamo, sia del suo stato in un certo momento della nostra vita. Dunque se vogliamo iniziare a lavorare lo dobbiamo fare su entrambe queste linee. La possibilità di sviluppo di un individuo dipende dal lavoro simultaneo su due aspetti:  la Conoscenzae l’Essere. Il progresso di questi due aspetti del lavoro su se stessi è interdipendente, per cui lo sviluppo sul piano della Conoscenza dipende da quello sul piano dell’Essere, e viceversa. Un disarmonico sviluppo di questi due aspetti, per cui uno dei due progredisce maggiormente rispetto all’altro, porterebbe ad una situazione in cui il lavoro su  di sé subisce un arresto.

La Conoscenza è la funzione principale del centro intellettuale e, nel caso specifico, riguarda lo studio dei diversi argomenti della psicologia. La Conoscenza può verificarsi a differenti livelli rispetto ad un certo oggetto. La civiltà odierna conferisce un grande valore alla Conoscenza e le persone con grande preparazione riguardante un argomento sono in genere tenute in grande considerazione, basti pensare agli scienziati e agli intellettuali in ogni campo. Tuttavia il valore attribuito molto spesso alla persone è solo in base al livello della loro Conoscenza, a prescindere dal grado di sviluppo del loro Essere. L’Essere è ciò che un individuo è in un certo momento della sua vita, ossia tutto quello che egli come persona ha raggiunto ed esprime. L’Essere di un individuo a livello ordinario è caratterizzato da quanto egli ha acquisito e sedimentato in sé attraverso l’educazione ed è contraddistinto dalla meccanicità, dall’identificazione, dall’esser preda delle proprie emozioni negative, dal mentire a se stesso, dal ricorso a continue giustificazioni, dal parlare inutile. Inoltre il suo Essere è l’espressione del continuo mutare dei suoi molteplici Io che si susseguono al cambiare degli input esterni, senza che ci sia un Io principale (“padrone”) consapevole di tali successioni. Infine, l’individuo a livello ordinario può contare su un Essere dotato di scarsa consapevolezza, di volontà e della capacità di fare (“tutto accade semplicemente”).

Utilizzando il linguaggio “metaforico” con cui nella Quarta Via si parla dello sviluppo della persona, la possibilità che un individuo ha di diventare padrone di se stesso sta tutto nella possibilità di utilizzare il lavoro su se stessi al fine di cambiare il proprio livello d’essere. In questa prospettiva l’Essere si configura come una condizione dinamica della persona che dipende da vari elementi. Dunque, lo stato dell’Essere di un individuo non è sempre lo stesso e persone diverse hanno differenti livelli del proprio Essere: colui che ha costruito intenzionalmente uno stato di coscienza più elevato avrà maturato un Essere più sviluppato e completo di chi si trova in una condizione ordinaria di partenza. Comunque, il livello d’Essere raggiunto non è una conquista statica e definitiva, ma richiede un continuo lavoro su se stessi. Inoltre bisogna considerare che in un individuo i diversi Io possono presentare differenti livelli di sviluppo e quindi dell’Essere. Si può, allora, affermare che in generale l’Essere di una persona si situi su diversi livelli data la molteplicità dei nostri Io. Proprio questa difformità del nostro Essere che rende possibile e attuabile il suo cambiamento, dato che se fosse sempre lo stesso non avremmo né la possibilità di far conto su di un Io più “forte” a cui appoggiarci per lavorare su noi stessi, né potremmo sperimentare il “sapore” che ha per noi collocarci su un diverso livello di sviluppo.

Ad esempio, proprio per questa difformità dei nostri Io, possiamo accorgerci o comprendere che certi Io ci fanno ristagnare in manifestazioni più basse di noi stessi; questo può portarci a desiderare di voler evitare tali modi di essere, anche se spesso accade che poi, pur avendo espresso tale desiderio, non riusciamo ad evitare di fare proprio ciò che sappiamo essere sbagliato. Questo accade sia per la mancanza di un Io sufficientemente forte a imporsi sulle tante volontà che si alternano in noi, sia perché siamo portati lontano da un tale proponimento da basso nostro livello d’Essere. Tale esempio evidenzia anche che la nostra capacità di vedere (di accorgerci delle cose) è superiore alla nostra possibilità di fare e ciò rappresenta un ottimo caso in cui la conoscenza è superiore al nostro Essere. Una ulteriore concettualizzazione dell’Essere è quella di una capacità interiore, frutto delle esperienze passate, che ci consente di orientare la totalità della nostra persona verso ciò che una parte di noi valuta sia la cosa da fare in un dato momento. Dunque l’Essere è sia capacità di indirizzare sia capacità di valutare ciò che è giusto; i vari livelli dell’Essere si differenziano sia nella forza con cui un individuo è in grado di imprimere un orientamento a se stesso, sia rispetto a ciò che valuta essere giusto e “buono”.

Come detto in precedenza la situazione ideale è quella in cui Conoscenza e Essere procedono appaiati nel loro sviluppo influenzandosi reciprocamente. Tuttavia, ci possiamo trovare davanti a situazioni in cui questa contemporaneità viene meno. Quando la Conoscenza è superiore all’Essere, l’individuo sa molto, ma non può usare la conoscenza mettendola in pratica. Se l’Essere è più avanti rispetto alla Conoscenza, l’individuo  è in grado di fare, ma non sa che cosa. Il lavoro su se stessi deve riproporsi di far crescere appaiati tra loro la Conoscenza e l’Essere. Ciò vuol dire che la Conoscenza non deve mantenersi solo ad un livello astratto (ragionamento o pensiero), ma deve essere calata nell’Essere affinché sia sentito e provato quanto è conosciuto dal pensiero e dall’intelletto. Così, per entrare nel concreto, le idee e i concetti della psicologia basata sull’insegnamento della Quarta Via possiamo appropriarcene soltanto se, tramite uno sforzo, saremo in grado di portarle nella nostra vita facendone esperienza. Se l’idea di base di questa psicologia è che l’uomo è una macchina, noi potremo pienamente comprendere tale conoscenza solo attraverso la sua verifica pratica su noi stessi. Analogamente l’Essere deve condurre all’aumento della conoscenza, per cui se abbiamo compreso qualcosa su di noi, è importante rafforzare questi insight, ampliando la nostra Conoscenza,  in riferimento agli elementi della psicologia basata sull’insegnamento della Quarta Via, per esempio leggendo o rileggendo i libri su tale sistema.

Teniamo, inoltre, presente che esiste un ulteriore modo in cui Essere e Conoscenza sono in rapporto fra loro e che dipende dal fatto che il nostro Essere in un dato momento riflette il nostro stato (sviluppo). Al variare del nostro Essere corrisponderà un nostro diverso stato e la Conoscenza che possiamo ricevere e comprendere dipenderà dallo stato in cui siamo. Ad uno stato più evoluto, potremo ricevere una Conoscenza maggiore, che è tale in quanto saremo in grado di fare più connessioni tra quanto osserviamo. In pratica – è utile ripeterlo – Il lavoro sulla conoscenza consiste nello studiare le idee del sistema, nel vederle come formanti un tutto che descrive l’essere umano e il suo sviluppo; per ciò che riguarda l’Essere il lavoro pratico consiste primariamente nello studiare se stessi e i tanti Io che agiscono in noi, nel costruire un’immagine complessa ma unitaria di se stessi, cogliendo il modo in cui i vari Io sono connessi o non connessi tra di loro, cosa li attiva ecc. Il lavoro sull’Essere che deve partire da una conoscenza di se stessi ha come tappa iniziale il fatto di riuscire a vedere, avendone esperienza, alcuni aspetti del nostro funzionamento: l’assenza di un Io permanente, l’azione dei molti pregiudizi, il nostro agire meccanico, la guida di noi stessi da parte della nostra falsa personalità, la constatazione che nonostante possiamo volerlo non siamo in grado di scegliere di reagire in modi diversi. Ne deve nascere una presa di coscienza della pretesa di essere ciò che non siamo e della confusione in cui versiamo data dal susseguirsi automatico dei tanti Io come reazione agli stimoli esterni.

Solo a questo punto il lavoro sul nostro Essere può andare oltre, richiedendo un ulteriore sforzo: se prima ci era chiesto di osservarci, ora lo sforzo è quello di resistere a certe manifestazioni di noi stessi. In questa nuova fase del lavoro sull’Essere richiede di porre l’attenzione sul dotarci di una certa unità, della capacità di non esprimere le emozioni negative, una più durevole attività di auto osservazione di tutti quegli ostacoli alla consapevolezza (identificazione, parlare inutile, mentire, etc.) È questo il lavoro per il cambiamento del nostro livello d’Essere. La vera comprensione in questo percorso si ha solo quando la Conoscenza e l’Essere procedono di pari passo, quando le idee del sistema prendono forma concreta nell’esperienza che facciamo di noi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

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