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L’ amore felice, come riconoscerlo…

È importante saper riconoscere un amore felice da un amore infelice. Sembrerebbe facile fare questa distinzione ma in realtà vista la grande quantità di relazioni dolorose che le persone portano avanti, la cosa non si rivela così scontata. Ecco allora un metodo molto semplice che nella sua apparente banalità nasconde un grande verità: per poter fare questa distinzione e saper riconoscere l’amore felice dobbiamo per prima cosa imparare ad essere sinceri con noi stessi…

“C’è un modo per capire se questi amori sono giusti o sbagliati? Se vai la pena di viverli oppure no? E fino a che punto mettersi in gioco?  Voglio suggerire un metodo che si basa proprio sulla provocazione della mia vecchia zia. L’ho chiamato “il termometro della felicità” e l’idea è molto semplice: un amore è giusto se da felicità mentre è sbagliato quando da infelicità. Troppo facile? Proviamo a pensare. Non sto consigliando di usare questo metro di misura per la prima fase di un rapporto, quando la passione, la novità dell’innamoramento colorano tutto di rosa. Propongo invece di intingere la cartina di tornasole dei sentimenti in quel sedimento che si forma nella relazione amorosa dopo un certo periodo di tempo. Allora ci si può chiedere in tutta franchezza: «Ma a me questa persona, non nelle parentesi alle Maldive, nei momenti di festa, ma nella sua quotidianità – perché gli amori vanno giudicati nella quotidianità, nella più banale declinazione della nostra vita – mi fa felice oppure no?». Laddove felicità non vuoi dire necessariamente camminare a mezzo metro da terra, non vuoi dire continua euforia, non vuoi dire toccare il cielo con un dito 24 ore su 24, il che sarebbe impossibile. Ma significa star bene, sentirsi rispettati, tranquilli, sereni e, anche se siamo persone di natura inquieta, essere felici nella propria inquietudine, perché un vero rapporto d’amore ci fa essere noi stessi. E se si soffre? É ovvio che l’amore non da solo felicità, ci sono per tutti dei momenti bui. Però a volte si chiamano amori anche quelle cose che fanno stare bene un giorno e male gli altri 364, un momento di paradiso che si paga con settimane di inferno. E addirittura quasi viene da pensare che gli amori che fanno soffrire servano per arrivare a quell’istante di felicità, come in una specie di gioco sadomasochista in cui a un certo punto non si sa più cosa si stia davvero cercando. La prima cosa che voglio dire dunque è che questi non sono amori felici, di conseguenza non sono un amori giusti.”

COMMENTO – Esiste l’ amore felice se sappiamo riconoscerlo e apprezzarlo nella sua semplicità e spesso nella sua pacatezza. I criteri sono sicuramente quelli indicati da Paolo Crepet e che al loro interno parlano di una profonda verità:  l’ amore felice non è quello che lascia senza respiro, che inebria, che ci sconvolge, quello passionale in ogni istante. Non che tutto questo non sia piacevole ma l’esperienza insegna che tutto questo è solo un aspetto dell’amore connesso alla prime fasi dell’innamoramento e che è giusto che ci sia. Ma se queste relazioni sono amore lo scopriamo dopo, quando il rapporto entra nella quotidianità e le persone diventano più vere nel rapportarsi l’una all’altra. L’ amore felice è un incastro che proprio nel rispetto della nostra diversità da quella del/della partner, ci permette di sentirci nel posto giusto accanto alla persona che abbiamo scelto. Esso produce quel senso di benessere derivante dal fatto di poter essere noi stessi fino in fondo nel rispetto dell’altro e sentendoci rispettati dall’altro. Poi c’è l’amore infelice ma credo che questo sia facile da riconoscere perché chi vi si trova invischiato lo sperimenta sulla propria pelle, vivendo tutto il malessere che ne deriva. La vera difficoltà, in questi casi, non sta dunque nel fatto di non accorgersi di vivere una relazione sbagliata, ma nel non saper ammetterlo a se stessi traendone poi le giuste conseguenze. Ciò accade per tanti motivi: dipendenza affettiva, fragilità interiore, paura del cambiamento. Altre volte subentrano situazioni oggettive a non permettere l’interruzione di questi rapporti: disagio economico, figli, mutui contratti, etc. Anche queste condizioni a volte impediscono di mettere fine agli amori infelici. In ogni caso il primo passo da fare quando si vivono amori sbagliati è quello di ammettere a se stessi questa situazione e cominciare a lavorare interiormente per imparare a non dipendere più da essi, recuperando il proprio benessere al di là di tali rapporti. Arrivare poi, nei tempi e nei modi possibili per ognuno, a mettere fine ad essi per recuperare la possibilità di vivere in altre condizioni il proprio amore felice.

Paolo Crepet, “Gli incontri sbagliati. I volti dell’amore”, Mondadori

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fine di un amore

La fine di un amore

La fine di un amore è un evento spesso doloroso quando si percepisce come uno strappo imposto dall’altro. Esso mostra tutta la fragilità dell’essere umano che, in questa situazione, non riesce a percepire altro che il proprio smarrimento e la perdita di significato per ogni cosa della vita…

“La morte di un amore può accadere per estinzione o strappo. L’estinzione sarebbe la fine naturale (ma esiste?) dell’amore tra i Due: qualcosa si è esaurito, non funziona più, si è spento. L’amore ha finito di bruciare, non può più durare. Lo strappo implica invece il taglio della separazione che ricade su chi dei Due ama ancora, su chi tra i Due avrebbe voluto continuare nell’amore, su chi ancora brucia per amore. In questo caso la fine di un amore non è solo la morte del proprio Io che perde un suo sostegno fondamentale, che si trova spogliato di senso, del senso che l’amore gli assicurava, ma la morte del mondo intero, di quel mondo dei Due che quell’amore aveva fatto sorgere miracolosamente per una seconda volta. Quando finisce un amore non finisce mai, dunque, solo un amore, ma finisce anche e soprattutto il mondo che i Due hanno generato. Nella morte di un amore muore l’intero mondo dei Due, dei loro oggetti, dei loro rituali, della loro memoria, dei loro viaggi, dei loro ristoranti, dei loro libri, delle loro case, dell’unione dei loro corpi, della loro stessa vita perché l’esistenza dell’amore era ciò che dava senso a quel mondo che ora non c’è più.”

COMMENTO – Il rischio che un amore finisca è sempre presente nella vita degli amanti. La fine di un amore è una presenza che accompagna una relazione fin dal giorno del suo inizio dal momento che anche quando un amore somiglia a un destino, non c’è mai la certezza del “per sempre”. Come ammonisce Massimo Recalcati: “l’imprevisto pieno di gioia e di estasi dell’incontro amoroso può ribaltarsi nell’imprevisto cupo e drammatico del distacco e della fine.” In questa situazione una relazione amorosa da condizione in grado di generare benessere e gioia, rischia di trasformarsi in una tortura. La fine di un amore fa emergere il fatto che ciò che appariva come un rimedio rispetto alle difficoltà dell’esistenza, in realtà finisce per generare dolore; ciò che doveva dare senso alla vita glielo sottrae; ciò che doveva completarci facendoci diventare un tutt’uno con l’altro finisce invece per dividere e spezzare quell’unità, oltre che mandare in frantumi noi stessi. Così l’amore non unisce come vorrebbe il mito platonico ma separa dal momento che esso evidenzia la nostra vulnerabilità, che si costituisce intorno al fatto che l’intera esperienza umana si struttura su una mancanza. Come nota ancora Recalcati: “è la verità che emerge in modi anche traumatici nel tempo della fine di un amore, nel tempo della separazione degli amanti. È questo il tempo in cui quello che prima era in lei o in lui desiderabile e irresistibile diviene insopportabile o indifferente.” La fine di un amore così trasforma anche l’altro che se prima era idealizzato e desiderato, adesso invece ci appare lontano.

Cosa vuol dire separarsi? Per comprendere bene l’aspetto “drammatico” che connota la fine di un amore dobbiamo considerare che essa non contempla solo un distacco o un allontanamento. Questi aspetti della fine di un amore sono solo la parte esteriore del processo: quando un rapporto si rompe non è solo un mettere una distanza tra noi e l’atro, ma come suggerisce Recalcati riprendendo un’espressione lacaniana, abbiamo a che fare con una “separtizione”. Questo concetto “significa che, quando ci separiamo, ci separiamo innanzitutto da una parte di noi stessi; quella parte che colui che abbiamo perduto sosteneva. Se perdo chi amo perdo tutto, mi sento perso io stesso. È come staccare la mano da un metallo ghiacciato; qualcosa di noi, un frammento della nostra pelle, resta sempre attaccato all’oggetto perduto, a chi non c’è più. Separarsi è, dunque, separtirsi, cioè perdere non solo l’Altro che non c’è più, ma anche, insieme all’Altro, un pezzo di noi stessi.” Ecco spiegato il perché la fine di un amore, ossia ogni separazione sia così dolorosa: essa strappa una parte di noi che l’Altro andando via porta con sé. Ci sentiamo allora divisi, spaccati in due, lacerati con il conseguente vissuto depressivo che accompagna ogni separazione. Un lutto che viene sperimentato perché non perdiamo solo l’altro ma anche una parte di noi. La conseguenza di ciò è che il mondo perde la sua ragione d’essere, il suo senso; non solo il mondo ma anche chi vive la fine di un amore si sente deprivato e impoverito di qualcosa. Così allora come nota Recalcati si verifica il fenomeno della regressione: “è la regressione della vita alla condizione del grido che – come quello di Munch – non trova più nessuno ad accoglierne l’invocazione, non trova più nessuno capace di rispondergli. È una sensazione che spesso accompagna chi vive un’esperienza di abbandono: la vita appare in tutta la sua inermità originaria, povera cosa, insignificante, di troppo, persa nel mondo.”

Massimo Recalcati, Mantieni il bacio, Feltrinelli

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La fine di un amore: perché è un trauma?

La fine di una relazione produce nei partner una ferita profondissima che non solo riattiva antiche simili esperienze, ma fa precipitare l’individuo in un mondo privo di senso. La fine di un amore, per abbandono o tradimento, segna la fine di un mondo senza che ci sia dato di intravederne uno nuovo… Massimo Recalcati, “Non è più come prima”, Raffaello Cortina Editore

Anche i grandi amori, dunque, gli amori di una vita, possono finire. Solitamente la crisi di un rapporto inizia con la comunicazione di uno dei Due o dalla constatazione di entrambi che “non è più come prima”, che qualcosa si è corrotto nel tempo, che è avvenuto un deterioramento del desiderio. Il nostro tempo, il tempo del culto libertino del Nuovo, vuole rendere questa situazione una legge ferrea, senza possibilità di eccezione. Si inizia una storia già convinti che si arriverà fatalmente, prima o poi, a constatarne l’agonia. L’amore finisce per esaurimento della sua spinta propulsiva o per l’apparizione di un altro oggetto, o per entrambe le ragioni. Fa una certa impressione notare che sempre più raramente chi vive una esperienza di separazione affettiva importante riesca a intervallare la perdita dell’oggetto con una pausa di solitudine, anziché precipitarsi alla sua sostituzione con un nuovo oggetto. E anche questo un effetto del ritmo maniacale che regola la nostra vita collettiva e quella più intimamente affettiva. Ma cosa succede quando la perdita e la separazione investono gli amori di una vita? Proprio quegli amori che hanno la forza di sospendere il tempo, di ripetere ancora, ancora come oggi, ancora lo Stesso? Cosa accade quando la frase “non è più come prima” viene pronunciata dalla persona che fino a quel momento era la presenza che dava senso alla nostra presenza nel mondo? (…)

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il narcisista 2

Il narcisista seduttore

Il narcisista in amore non rinuncia a manifestare la propria autoreferenzialità finalizzata a difendere la propria fragilità affettiva. Il narcisista lo fa improntando il rapporto con l’altro sesso sulla mera conquista e sulla superficialità per non intrecciare rapporti profondi che smaschererebbero il suo gioco. Inoltre, paradossalmente il narcisista non cerca il possesso dell’altro ma solo la conferma di se stesso attraverso la conquista.  Aldo Carotenuto, “Riti e miti della seduzione”, Bompiani

Don Giovanni è un particolare tipo di conquistatore: non è mai sazio, potremmo dire che soffre di bulimia erotica, più che goloso è vorace, quello che conta per lui è la quantità. Ma non solo: egli ha bisogno di enumerare le sue prede, farne cataloghi e lunghi elenchi. (…) Cosa significa questo bisogno di continue conquiste e la necessità di enumerarle? Essi rivelano aspetti diversi della psicologia del dongiovanni, un individuo che conosce l’arte della seduzione ma che è impossibilitato ad abbandonarsi all’amore. Sembra che enumerare sia innanzitutto compensatorio al non poter effettivamente possedere. Un surrogato, un premio di consolazione, per potersi illudere di avere in qualche modo realizzato certe fantasie di onnipotenza: averne conquistate ben mille e tre! Questa, afferma Kierkegaard, è una ricchezza apparente, che in realtà rivela una estrema povertà, dato che l’enumerazione mette in luce che si tratta di una folla anonima di passanti, numeri senza volto né storia. È un enumerare che “mette tutto nello stesso sacco”, e che rivela la sostanziale impossibilità di Don Giovanni di amare la singolarità, la particolarità, l’individualità dell’altro, proprio perché ogni nuova preda viene adocchiata soprattutto per incrementare il bottino. L’incapacità di approfondire il legame amoroso è frequente nelle personalità con disturbi narcisistici. I sentimenti che sembrano dominare questi individui sono l’impazienza e la frustrazione, qualora i loro oggetti di desiderio non siano subito disponibili. Essi diventano inquieti e scontenti, scontrosi e irritabili: come se stesse sfuggendo loro un’opportunità di vitale importanza. E in effetti per costoro riuscire a sedurre l’altro, cioè a conquistarlo e a sottometterlo, rappresenta una verifica positiva del loro stesso valore, una riprova della loro esistenza. Seduco, dunque sono.

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La fede nella vita e nell’amore

La fede è per Fromm una condizione fondamentale per l’essere umano soprattutto quando questo atto di coraggio viene rivolto verso la credenza che l’amore e la capacità di amare siano prerequisiti essenziali per una vita piena e degna di essere vissuta. Erich Fromm, “L’arte di amare”, Mondadori

Aver fede richiede coraggio, capacità di correre un rischio e di accettare perfino il dolore e la delusione. Chiunque insista sulla sicurezza e sulla forza come mezzi principali non può aver fede; chiunque si rinchiuda in un sistema di difesa, in cui distacco e possesso siano i suoi mezzi di sicurezza, si rende prigioniero. Amare ed essere amati significa aver coraggio di giudicare certi valori e di aver fede in essi. Questo coraggio è diverso da quello di cui il famoso millantatore Mussolini parlò usando lo slogan “vivere pericolosamente “. Il suo tipo di coraggio è il coraggio del nichilismo. È basato su un atteggiamento distruttivo nei riguardi della vita, sulla volontà di respingere la vita perché si è incapaci d’amarla. Il coraggio della disperazione è l’opposto del coraggio dell’amore, così come la fede nel potere è l’opposto della fede nella vita. Esiste una pratica riguardo alla fede e al coraggio? In verità, la fede può essere praticata in ogni momento della vita. Ci vuol fede per allevare un bambino; ci vuol fede per prendere sonno; ci vuol fede per cominciare qualunque lavoro. Ma tutti noi siamo avvezzi ad avere tale genere di fede. Chiunque non l’abbia soffre di ansia per il proprio bambino, o d’insonnia, o dell’incapacità di fare qualsiasi genere di lavoro produttivo, oppure è sospettoso, non sa avvicinarsi al prossimo, o è ipocondriaco, o incapace di far piani per il futuro. Conservare il proprio giudizio su una persona, anche se la pubblica opinione o le circostanze sembrano minarla, rimaner fedeli alle proprie convinzioni anche se esse sono impopolari – tutto ciò richiede fede e coraggio. Accettare le difficoltà, le avversità e i dolori della vita come una sfida, superare la quale ci rende più forti, invece che come una punizione ingiusta, richiede fede e coraggio.

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La fedeltà nell’amore

La fedeltà è una delle condizioni che spesso poniamo alla base del rapporto di coppia. Ma come deve essere vissuta questa fedeltà: come rinuncia a qualcosa, una sorta di camicia di forza del desiderio, oppure come una consapevole scelta, come valore in quanto promessa fatta al partner… Massimo Recalcati, “Non è più come prima”, Raffaello Cortina Editore

L’incontro d’amore non si accontenta di accadere una volta, ma vuole ritornare, vuole che sia “per sempre”, vuole la ripetizione all’infinito, o meglio, l’infinito in atto della ripetizione. In questo senso l’amore diventa parola, patto, promessa, fede; vuole trasformare la contingenza dell’incontro in una necessità. In ciò esso rivela la sua prossimità all’infinito. Quello che è accaduto tra noi non può finire, non può esaurirsi qui, ma esige che ritorni di nuovo, che sia ancora, ancora una volta, ancora per sempre. È la fedeltà della promessa che introduce un frammento di eternità nello scorrere del tempo trasformando il caso in destino, la contingenza in necessità. Per questo e solo per questo, non per ragioni moralistiche, la fedeltà è una postura essenziale nell’ amore. Restare nello Stesso, volere ancora lo Stesso per trovare nello Stesso l’Altro, il Nuovo, non perdersi nella cattura aleatoria del Nuovo opposto allo Stesso. I maschi tendono a sorvolare sul valore effettivo della fedeltà. Distinguono troppo facilmente la fedeltà del cuore da quella del corpo. Le donne diversamente tendono a tradire quando non c’è l’amore del cuore o quando questo amore è stato deluso. A loro il parallelismo maschile che separa la fedeltà del corpo da quella del cuore sembra estraneo. I maschi invece non intendono come il corpo possa restare fedele nel tempo. Salvo poi reagire furiosamente all’infedeltà del corpo della partner. Per questa ragione Freud, mentre individuava la base inconscia della gelosia femminile nella angoscia di Perdere l’oggetto d’amore, riteneva che quella maschile fosse eminentemente proiettiva: l’uomo massimamente geloso è quello massimamente infedele.

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Illusione e idealizzazione in amore

L’ illusione in amore non è data dall’innamoramento che ci porta a idealizzare l’arto. Piuttosto è l’illusione della nostra finta autosufficienza svelata dal rapporto con l’altro… Massimo Recalcati, “Non è più come prima”, Raffaello Cortina Editore

L’incontro d’amore non è dell’ordine dell’ illusione; è piuttosto ciò che fa cadere l’ illusione del bastare a se stessi, del narcisismo dell’Io e del suo sogno di indipendenza. Più che rafforzare l’immagine narcisistica dell’Io, la mette sottosopra, la scompagina, la rinnova, le impone di incontrare il proprio limite. L’incontro d’amore non avalla la nostra identità ma la turba, la obbliga a contaminarsi, a cedere su se stessa. Implica un indebolimento dell’Io, una perdita di controllo, uno smarrimento, il rischio dell’esposizione assoluta all’incognita del desiderio dell’Altro. Mentre nell’ illusione narcisistica l’ombra del mio fantasma mi cattura e io ne sono la preda, nell’incontro d’amore urto contro una specie di solidità spigolosa che eccede il mio fantasma e che chiamiamo eteros. Urto contro l’alterità invisibile ma assolutamente reale dell’Altro. L’incontro è, infatti, solo incontro con Veteros dell’Altro, con il reale più reale dell’Altro, con ciò che dell’Altro sfugge a ogni specularità narcisistica, a ogni simmetria sentimentale. Quando invece l’ illusione agisce rende impossibile l’incontro con l’Altro proiettando su di esso il fantasma della nostra immagine narcisistica. L’incontro non è allora incontro con l’Altro, ma è reso impossibile dalla riproduzione inconscia dell’ombra dello Stesso. Di fronte all’esaltazione narcisistica dell’immagine dell’altro come versione idealizzata di quella dell’Io, il tempo agisce fatalmente come una erosione (lenta o brusca) che provoca delusione. Lo insegna spietatamente l’esperienza dell’analisi: l’amore deluso è spesso l’amore più idealizzato.

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Amori felici e amori infelici

Quali sono gli amori felici e quali sono gli amori infelici? Quante volte diamo lo stesso nome di “amore” a storie molto diverse tra loro in quanto al benessere che sanno darci. A volte saper distinguere un amore felice da uno infelice è moto semplice se solo sapessimo essere onesti con noi stessi… Paolo Crepet, “Gli incontri sbagliati. I volti dell’amore”, Mondadori

Anch’io, come tutti, ho avuto il mio apprendistato d’amore. Ricordo in particolare una storia piuttosto tormentata. Ero giovane, molto giovane, lei mi faceva soffrire ma ne ero innamorato e non sapevo decidermi se lasciarla o continuare a vederla. Ci pensavo giorno e notte, non combinavo più niente negli studi, mi sentivo addosso solo una grande tristezza e una grande confusione. Un giorno, durante una riunione di famiglia, incontrai una vecchia zia che non vedevo da tempo. Chissà perché, chiacchierando del più e del meno, mi venne voglia di parlarle di questa fidanzata. Lei ascoltò il mio lungo racconto con grande attenzione, con tutta la pazienza della sua età e alla fine mi disse, guardandomi dritto negli occhi: «Ma tu sei felice con quella ragazza?». Una domanda così semplice! Eppure io non me l’ero fatta (forse, inconsciamente, avevo paura della risposta?). Improvvisamente, di fronte a quelle parole, mi ritrovai con il bandolo della matassa in mano. Era una rivelazione. Una provocazione che fece subito luce dentro di me. No, non ero felice, quindi dovevo chiudere quella storia. Forse sarei anche potuto arrivare prima, e da solo, a questa conclusione, ma ero un ragazzo e mi perdevo nelle mie pene, senza trovare una soluzione. Ci sono momenti nella vita – e nell’amore più che mai – in cui precipitiamo in un grandissimo caos. Momenti in cui non sappiamo nemmeno più chi siamo, dove stiamo andando, come se fossimo avvolti in una fitta nebbia. Prendere decisioni allora è molto difficile. Per fortuna, la sorte a volte ci guida verso le persone giuste, quelle che con la loro saggezza, con una speciale capacità di intuizione, riescono a riportarci sulla nostra strada. Così una frase semplice come: Ma tu sei felice?» diventa una rivelazione che ci cambia l’esistenza.

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la scelta illusoria 1

La scelta illusoria degli amori tossici

La scelta illusoria in amore si verifica tutte le volte che trovandoci in uno stato di bisogno scambiamo l’altro/a per qualcos’altro. La scelta illusoria avrà tante più conseguenze quanto è la fragilità di chi opera tale scelta. In questo articolo l’autrice analizza la scelta illusoria al femminile proponendo un interessante paragone con la fiaba di Alice. Jole Baldaro Verde, “Illusioni d’amore”, Raffaello Cortina Editore

Alice, la famosissima protagonista di Alice nel paese delle meraviglie, può bene rappresentare alcune situazioni che inducono all’innamoramento che ho definito una scelta illusoria. Ciò avviene quando, trovandoci in uno stato particolare come può essere l’emergere di un bisogno, la noia o l’infelicità, decodifichiamo in modo errato i segnali di inizio di una relazione che provengono da una persona che incontriamo per la prima volta. Alice è attratta dalle caratteristiche insolite e diverse del Coniglio bianco dagli occhi rosa, e finisce in una situazione e in una serie di incontri paradossali perché interpreta la sua “diversità” in modo errato e tale da essere indotta a seguirlo senza esitazione ovunque egli vada. Le fiabe mettono in risalto alcuni atteggiamenti attribuendoli a comportamenti sempre e soltanto del sesso femminile o del sesso maschile; tali atteggiamenti però, non bisogna dimenticarlo, sono caratteristici del momento storico in cui la fiaba è stata scritta, un tempo ormai lontano dal nostro. Ritengo che oggi questi comportamenti siano espressi da donne e da uomini, e che in questo senso sia Alice sia altri personaggi “tipici” possano tranquillamente appartenere al sesso maschile. Alice si “annoiava”. È la condizione di noia, insoddisfazione, depressione, tanto frequente nella vita di ciascuno di noi, a rendere generalmente una persona disponibile a un cambiamento. Sono le situazioni simili al vivere in un pantano senza ranocchi e senza luna. In questi casi l’innamoramento rappresenta il mago che popola il pantano di farfalle multicolori e lo muta in un giardino fiorito. (…).

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Passione e amore: quali differenze

Non c’è passione che non comporti una sorta di alienazione da sé che di solito approda o nell’immedesimazione con la persona amata, con il conseguente smarrimento della propria identità, o nel possesso della persona amata.
Umberto Galimberti, Le cose dell’amore. Feltrinelli

Non conosciamo più la passione perché l’abbiamo affogata nel sesso che, nel corpo a corpo, annulla la distanza di cui la passione si alimenta. Finché la generazione non si stancherà del sesso sarà difficile reperire passioni in quella forma eroica e sublime che l’età romantica conobbe e seppe distinguere dall’amore. A differenza dell’amore, infatti, la passione non ubbidisce a regole, ignora il governo di sé, risponde a un’attrazione violenta che non conosce il limite, non si alimenta di progetti e costruzioni, ma cammina nelle prossimità del sacrificio di sé, sino a fiancheggiare la morte, perché, in preda alla passione, indiscernibile diventa il confine tra la forza del desiderio che trascina e la morte che chiama.
Da quando Dio prese ad amare il suo popolo e, dopo il suo popolo, ciascuno di noi (cosa che non è prevista da alcuna religione, eccezion fatta per quella giudaico-cristiana), la passione è stata tacitata, e la sua forza incanalata in quell’inizio della Legge che pone fine alla sregolatezza. Ne è scaturito quell’ordinamento che prevede un investimento affettivo carico di senso che interdice la libera circolazione delle passioni, le quali, da allora, sono state convogliate nel progetto, nella costruzione, nella generazione. Il tutto a intensità regolata per evitare la dissoluzione. In questo senso è possibile dire che l’amore è cristiano, mentre la passione è pagana, perché ignora la misura, si muove in quel confine dove ogni calcolo è abolito e, nello spazio dischiuso dalla generosità  senza risparmio di sé, giunge a fantasticare la propria morte come unico segno all’altezza  della  propria dedizione.

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