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il processo di individuazione

Il processo di individuazione per Jung

Il processo di individuazione è funzionale alla persona perché grazie ad esso diventa realmente un individuo, con una propria personalità. In altri termini, il processo di individuazione si struttura come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi.

“Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”

COMMENTO – Il processo di individuazione è un percorso di progressiva capacità da parte dell’individuo di essere sempre più se stesso, esprimendo le proprie caratteristiche e divenendo così un Essere distinto e separato dalla collettività in cui vive. Al tempo stesso l’individuazione di sé non pone la persona contro o al di fuori dalle norme collettive; il processo di individuazione non si realizza contro qualcosa ma attraverso il riconoscimento della nostra più pura interiorità. Come individui fin dalla nascita siamo raggiunti da un enorme numero di richieste, impressioni dall’esterno che, per via dei processi di adattamento e di educazione, facciamo nostri. Se da una parte tutte queste influenze contribuiscono a formare ciò che noi siamo, dall’altra per le esigenze della vita quotidiana ci spingono a conformarci alla collettività in cui viviamo. Così nel tempo perdiamo il contatto con ciò che realmente noi siamo e finiamo per ritenere di essere la nostra esteriorità. La possibilità di recuperare un rapporto con la nostra interiorità, conscia o inconscia, ci può mettere in grado di riscoprire noi stessi e di ascoltare e realizzare ciò che noi siamo. In questo consiste il processo di individuazione, nel percepire e valorizzare la nostra unicità nelle scelte che compiamo e nei pensieri che facciamo.

Chiaramente come sottolinea Jung  “la piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Questo per sottolineare come il processo di individuazione sia un percorso difficile (è molto più facile conformarsi acriticamente), la cui durata è pari alla vita di un individuo e giammai completo. Ma non per questo dobbiamo desistere dall’impegnarci in esso. Una delle difficoltà che segnala Jung a proposito è il prezzo che esso richiede, individuabile in una certa dose di isolamento: “la sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Sentirsi individui vuol dire a volte avvertire il senso della propria solitudine. Un esempio di ciò potrebbe essere la consapevolezza di sapere che le risposte importanti che cerchiamo per la nostra esistenza non si trovano già pronte in ciò che la società suggerisce ma vanno cercate in noi stessi per essere valide individualmente. Avere la forza di fare ciò vuol dire essere fedeli a se stessi.

Il contatto con la propria interiorità che il processo di individuazione chiede, comporta la piena accettazione di tutti gli aspetti psicologici che ci appartengono e solo questo riconoscimento di noi stessi può permetterci di trovare il nostro giusto posto nella collettività. Come sottolinea Jolande Jacobi: “studio e realizzazione di sé stessi sono perciò (o dovrebbero essere) la premessa indispensabile per l’assunzione di doveri superiori, non fosse altro che di quello di realizzare il senso della vita individuale nella forma migliore e nella massima possibile ampiezza”. “ Infine, una ultima precisazione: il processo di individuazione non significa individualismo ed egocentrico perché grazie ad esso l’individuo non diventa “egoista” ma apprende solo a conoscere ciò che realmente è contribuendo così a costruire la propria identità

Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

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tormento

Il tormento dell’individuazione

Il tormento dell’individuazione sono quelli causati dal senso di colpa che si accompagna sempre, secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung, al processo di individuazione. Sia che assecondiamo la nostra personale realizzazione sia che veniamo meno ad essa, il tormento del senso di colpa rimane un sottofondo che attraversa la nostra esistenza…

“Quando parliamo di individuazione, parliamo di qualcosa che ha a che fare con la pienezza di sé: dunque, di qualcosa che va al di là di ogni traguardo sociale, di ogni dovere morale. Di ogni desiderio, proposito, volontà. Non c’è bisogno allora di addentrarsi più di tanto nel tema per comprendere quale scacco possa rappresentare per un’intera esistenza mancare la propria individuazione. (…) Detto altrimenti, mancare il compito fondamentale è la colpa più grande che potremmo commettere verso noi stessi e, di conseguenza, verso il mondo. Davanti al tribunale della natura, sosteneva ancora Jung, non giungere a comprendere chi siamo, e ancora più non diventarlo. non è mai giustificabile. Nella maggior parte di questi casi, succede che alla fine ci si accorge di essere diventati qualcun altro: abbiamo preso un modello, un esempio, l’abbiamo preso per attrazione, oppure per invidia, ne abbiamo peraltro tratto dei vantaggi. Noi stessi ce ne siamo vantati. Insomma, abbiamo preso una vita in prestito che, prima o poi, saremo chiamati a restituire. In vicende come queste, non c’è beneficio che potremmo aver tratto, capace di far tacere il senso di colpa, che prima o poi si farà sentire. (…) Se al contrario daremo credito all’appello interiore, e ci disporremo a interrogarci sulla nostra individuazione, se eviteremo la finzione, l’imitazione, la maschera, e ogni altro travestimento, ebbene sperimenteremo da subito quanto tutto ciò ci esponga inevitabilmente proprio al sentimento di colpa. Ogni passo verso la comprensione di noi stessi, e ancor più verso il nostro compimento, ogni tappa di questo percorso, ogni gradino di questa scala comporteranno infatti, inevitabilmente, quasi fosse una maledizione, di dover compiere qualche “peccato”. Ci sarà sempre qualcuno che, non volendo noi sacrificare nulla della nostra verità, finiremo per deludere, o per offendere, per tradire o per ferire, per abbandonare o per umiliare. L’individuazione è dunque una brutta storia, perché da qualunque parte la si prenda ha nel sentimento di colpa la sua “segreta simmetria”. Sospinti dall’appello individuativo, chi non faremo patire? A chi non procureremo un piccolo o grande dolore?

COMMENTO: Il tormento psicologico generato dal senso di colpa è un vissuto che si presenta inevitabilmente ogni volta che ci separiamo da qualcosa venendo meno ad aspettative, sensi di appartenenza, comodi modelli preformati, per seguire la strada del proprio sviluppo. Quando scegliamo di realizzare noi stessi, il tormento del senso di colpa è un prezzo da pagare  richiesto a ognuno di noi per portare avanti il processo di individuazione. Del resto è impossibile sfuggire da questo tipo di sofferenza perché il tormento del senso di colpa lo sperimenteremmo comunque, anche se cercassimo di sfuggire e di bloccare il nostro processo di individuazione. Infatti, anche la rinuncia a se stessi viene pagata con un caro prezzo, anch’esso rappresentato dal tormento di non avere avuto il coraggio di vivere la nostra vita, costruendola secondo le nostre aspirazioni e desideri. Come ricordano Quaglino e Roma: “Dunque, dovremmo dire, la colpa è un sentimento dal quale non potremo mai separarci, anzi, si potrebbe ora aggiungere, non dovremmo mai separarci. Tutte le psicologie che includono, tra le molte cose da cui vogliono salvarci, liberarci, riscattarci, anche il senso di colpa non fanno così realmente il nostro interesse. Semmai, il loro. Si mettono il cuore in pace, illudendosi di averci risanato da questo “disturbo”, illudendoci (illudendosi) di averci messo in salvo da questo ospite indesiderato.” In questa luce il tormento del senso di colpa non è da considerarsi come una punizione e, quindi, come qualcosa di cui sbarazzarsi, bensì come qualcosa che ci istruisce rispetto al percorso che stiamo per la nostra vita

Quaglino G.P., Romano A., “Nel giardino di Jung. Raffaello Cortina Editore

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appartenenza

Tra appartenenza e alterità

L’ appartenenza è un destino ineludibile per ogni individuo proprio perché non possiamo “non provenire” da qualcuno. Ma non sempre tale appartenenza si rivela come un prezioso lascito ma può rappresentare anche uno scomodo vincolo per le libertà personali. Così accanto all’ appartenenza esiste per il figlio un secondo movimento fondamentale, quello della propria individuazione, capace di portarlo all’affermazione della propria alterità.

“La vita del figlio è, dunque, vita propria, vita separata, distinta, dalla vita dell’Altro, ma è al tempo stesso vita che, non potendo mai scegliere la sua provenienza, porta con sé tutte le impronte dell’Altro che l’hanno prodotta. Per questa ragione, secondo Freud, i bambini si cimentano con particolare predilezione nella costruzione di “romanzi famigliari” attribuendosi, attraverso il gioco della propria fantasia, origini ideali: essere la figlia o il figlio di re, di principi, di presidenti, di famosi scienziati. Per un altro verso, la condizione del figlio è quella di realizzarsi come erede. Essere figli significa, infatti, avere il compito di ereditare, di fare nostro ciò che l’Altro – nel bene e nel male – ci ha dato. Significa riconquistare, fare davvero nostro, quello che abbiamo ricevuto. La traccia non è solo un’impronta, ma un vincolo con l’Altro che deve essere ripreso in modo singolare. Questa ripresa costituisce il compito più proprio dell’ereditare. In questo senso ogni figlio giusto è un erede: perché ha il compito di non ripetere, ma di riprendere singolarmente – di soggettivare – quello che gli è stato trasmesso da chi lo ha preceduto. Se la nostra origine ci precede e ci costituisce e nessuno di noi può mai impadronirsene (…), spetta al figlio il compito etico di soggettivare questa stessa origine, ovvero di differenziarsi, proprio in questa soggettivazione, dall’Altro da cui proviene. (…)”

COMMENTO – La vita di ognuno di noi si muove, all’interno delle dinamiche famigliari, tra due movimenti fondamentali nella costruzione dell’identità: quello dell’ appartenenza e quello dell’individuazione. Come sottolinea  Massimo Recalcati: “la condizione di figlio definisce l’umano come una forma di vita che non può essere concepita senza considerare la sua necessaria provenienza dall’Altro”. Una tale condizione vuol dire che nessun individuo è mai totalmente l’artefice della propria condizione: ne può plasmare le forme ma la materia su cui lavorerà è frutto di un lascito dato dalla sua provenienza. Si nasce all’interno di una appartenenza e nessuno mai può farsi da solo o essere genitore di se stesso. “Tutti veniamo, proveniamo, dall’Altro, siamo immersi in un processo di filiazione, in una catena generazionale” per cui ognuno di noi nasce in primis come figlio ossia non è possibile essere padroni delle proprie origini. Si tratta di una appartenenza che, nel bene o nel male, segna la vita di ogni persona.

Ma dal momento che l’esistenza non è una mera replica di altre vite, al figlio viene chiesto un secondo movimento complementare all’ appartenenza e ugualmente necessario: quello della propria individuazione. In questo senso il compito che impegnerà la vita di ogni persona è quello di costruire la propria diversità rispetto alla propria famiglia, differenziando se stessa da tutti i possibili lasciti psicologici ereditati. Si è, dunque, parte di qualcosa ma bisogna esserlo costruendo un proprio modo di farlo. È qui che nasce la nostra soggettività come esseri umani, per cui l’ appartenenza non è più un vincolo che ci obbliga ad “essere come qualcuno” ma una risorsa, una matrice da cui partire.

Massimo Recalcati, Il segreto del figlio. Feltrinelli

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processo di individuazione 1

Processo di individuazione e sviluppo umano

Nel processo di individuazione il conscio e inconscio si integrano imparando a completarsi a vicenda. Così l’essere umano affronta la strada per la realizzazione personale. È grazie al processo di individuazione che l’uomo, diviene realmente individuo, con una propria peculiare personalità. Il processo di individuazione si caratterizza come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi. Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

La totalità della personalità è raggiunta quando tutte le principali coppie di contrasti sono relativamente differenziate, quando dunque le due parti della psiche totale, la coscienza e l’inconscio, sono collegate insieme in una vitale relazione. La conservazione di una certa differenza di potenziale energetico e l’indisturbato corso della vita psichica sono garantiti dal fatto che l’inconscio non può mai esser reso del tutto conscio e conserva sempre la maggior quantità di energia. La totalità resta dunque sempre relativa, e a noi resta per tutta la vita il compito di continuare a lavorarvi. “La personalità, intesa come piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Lo sviluppo della personalità è insieme una grazia e una maledizione. Bisogna acquistarla a caro prezzo, perché significa isolamento. “La sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Ma, oltre che solitudine, essa significa pure fedeltà alla propria legge. “Solo chi sa consciamente accettare la potenza della propria destinazione interiore diventa una personalità” e solo questa può trovare il giusto posto anche nella collettività, solo questa possiede vera forza sociale, ossia la capacità di esser parte integrante di un gruppo umano e non un numero nella massa, che è sempre una semplice addizione di individui e non può divenir mai, come la comunità, un organismo vitale, che dà vita e vita riceve. Cosi la realizzazione di sé diventa, tanto sotto l’aspetto personale che sotto quello collettivo, una decisione morale, ed è questa che conferisce le sue forze a quel processo del diventare sé stessi, che Jung chiama via del processo di individuazione.

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Inconscio collettivo e individuazione di sé

L’ inconscio collettivo è una dimensione della vita psichica che, nella psicoanalisi junghiana, si aggiunge a quella dell’inconscio personale. L’ inconscio collettivo è quell’aspetto della vita psichica che accomuna tutti gli individui e da cui, paradossalmente, emergono anche le istanze più importanti del nostro Sé. Jung, in questo scritto, mette in relazione questi due aspetti della vita psichica: l’ inconscio collettivo e il processo di individuazione. Carl Gustav Jung, L’Io e l’inconscio, in Opere Complete, Bollati Boringhieri

Individuarsi significa diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, ultima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare sé stessi, attuare il proprio Sé. “Individuazione” potrebbe dunque essere tradotto anche con “attuazione del proprio Sé” o “realizzazione del Sé”. Le possibilità di sviluppo di cui abbiamo discorso nei capitoli precedenti sono, in sostanza, forme di alienazione del Sé, di rinuncia al Sé, a favore di una parte da sostenere o a favore di un significato immaginario. Nel primo caso, il Sé passa in seconda linea di fronte al riconoscimento sociale; nel secondo, di fronte al significato autosuggestivo di un’immagine primordiale. In entrambi i casi prevale dunque l’elemento collettivo. La rinuncia del Sé a favore del collettivo risponde a un ideale sociale; essa passa persino per un dovere o una virtù sociale, sebbene se ne possa fare anche un abuso egoistico. Naturalmente però l’egoismo non ha nulla a che fare col concetto del Sé come qui lo intendo.

Continua a leggere su: Carl Gustav Jung, L’Io e l’inconscio, in Opere Complete, Bollati Boringhieri

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il senso di colpa 2

Il senso di colpa e l’individuazione

Il senso di colpa è un vissuto inevitabile ogni volta che l’individuo si separa da qualcosa venendo meno ad aspettative, sensi di appartenenza, comodi modelli preformati. Quando decidiamo di realizzare noi stessi, di far percorrere alla nostra vita la sua strada, il senso di colpa è un inevitabile sentimento richiesto a ciascuno di noi per portare avanti il processo di individuazione. Quaglino G.P. e Romano A., “Nel giardino di Jung”. Raffaello Cortina Editore

La persona savia impara soltanto dalla propri colpa. Carl Gustav Jung

Si sa che l’individuazione è il tema centrale della psicologia di Carl Gustav Jung. Abbiamo detto il tema, e non il concetto, perché, come Jung stesso ci ricorda nella sua autobiografia, è la vita ad averglielo insegnato prima che la sua speculazione. La vita sua e forse anche quelle dei suoi pazienti gli hanno insegnato che l’individuazione non è altro che il sentiero che conduce al punto più alto dal quale si scorgono compiutamente il significato e lo scopo dell’esistenza. Da un lato, certo, ciò è piuttosto tautologico: essendo l’individuazione la realizzazione del compito ultimo della nostra vita, è in definitiva la sua stessa rivelazione. Ma dall’altro, ciò resta completamente misterioso: “Che cos’è l’individuazione? È un grande mistero […]: noi non sappiamo cosa sia […]. Per noi è una realtà, tuttavia una realtà proprio sulla linea di confine della comprensione umana”. Quando parliamo di individuazione, parliamo di qualcosa che ha a che fare con la pienezza di sé: dunque, di qualcosa che va al di là di ogni traguardo sociale, di ogni dovere morale. Di ogni desiderio, proposito, volontà. Non c’è bisogno allora di addentrarsi più di tanto nel tema per comprendere quale scacco possa rappresentare per un’intera esistenza mancare la propria individuazione. Quale perdita, quale sfortuna, quale sciagura. E quale peccato.

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Vocazione e individuazione

Vocazione e individuazione: due termini in stretta relazione fra loro. Individuazione è un termina che si riferisce al processo di realizzazione del Sé di ogni essere umano. James Hillman ci fornisce una personale e originale lettura di questo processo attraverso la sua “teoria della ghianda”. Quando l’individuazione è la realizzazione della vocazione di ciascuno di noi.
Da: James Hillman, Il codice dell’anima. Adelphi.

vocazione

Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono. […]
Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se  accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi , di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. […]
Più in profondità noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente  – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana. Questo libro, insomma, ha per argomento la vocazione, il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta. […]
Il leggere la vita a ritroso ci permette di vedere come certe ossessioni precoci siano l’abbozzo di comportamenti attuali.[…] Leggere a ritroso significa che la parola chiave per le biografie non è tanto “crescita” quanto “forma” e che lo sviluppo ha senso soltanto in quanto svela un aspetto dell’immagine originaria. […]

Continua a leggere su: James Hillman, Il codice dell’anima. Adelphi.

(continua leggere: la teoria della ghianda di Hillman)
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I libri di James Hillman