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la psicoterapia

La psicoterapia cosa aiuta a fare

La psicoterapia è un processo estremamente concreto che può fornire un aiuto a vivere sentendoci in contatto con noi stessi nella complessità della società attuale. Essa non è quindi la panacea in grado di risolvere tutti i nostri mali e di portarci ad una condizione di beatitudine. La psicoterapia è, come suggerisce Alexander Lowen, un modo per ricomporre il puzzle della nostra vita per ritrovare noi stessi proiettandoci verso il futuro.

“Nel processo terapeutico giriamo senza fine intorno al ciclo della vita dell’individuo, dal passato al presente e di nuovo al passato. Ogni circuito svela i ricordi del paziente e i suoi sentimenti su persone e avvenimenti del suo passato e li collega al comportamento e alla situazione attuale. Quando si completa un circuito, il risultato è una maggiore consapevolezza delle sensazioni più profonde e un livello di energia più alto e si è pronti a intraprendere un altro circuito con più energia e con una consapevolezza maggiore. Questi cerchi che si allargano gradatamente rappresentano la crescita della personalità attraverso l’espansione dell’essere. Ma il processo non termina mai: è impossibile analizzare tutti i problemi o risolvere tutte le tensioni. Le ferite provocate dai traumi della nostra vita possono guarire, ma le cicatrici rimangono. Non possiamo ritornare al nostro stato originario di innocenza. Ci sarà sempre qualche limitazione al nostro essere. L’essere umano è un animale imperfetto e un dio inferiore. (… )C’è un altro modo di considerare il processo terapeutico – come se fosse un tentativo di risolvere un puzzle. Noi terapeuti cerchiamo di aiutare il paziente a dare senso alla sua vita e a vederla nel suo insieme. Ho detto prima che la terapia è un viaggio alla scoperta di sé. Come in un puzzle, all’inizio non abbiamo tutti i pezzi, ma, con il progresso della terapia, vengono alla luce ricordi sempre più numerosi. Ogni volta che una parte di informazione si adatta e si congiunge ai pezzi vicini, l ‘immagine diventa più chiara, e il paziente riesce a vedere più profondamente dentro di sé; comincia a conoscersi. Anche se il puzzle non è mai completamente concluso, l’immagine diventa più chiara e la terapia progredisce.”

COMMENTO – La psicoterapia aiuta le persone che vi si rivolgono. Questo è un dato di fatto accertato da molti studi. Ma qual è, con onestà, il tipo di sostegno che la psicoterapia riesce a dare. Alexander Lowe psicoterapeuta e fondatore dell’approccio bioenergetico, prova a rispondere a tale quesito con la solita “concretezza” e lucidità che contraddistingue il suo pensiero. Quando si dice che dovrebbe fornire un aiuto concreto vuol dire che essa non porterà la persona né in paradiso, né la innalzerà ad uno stato di trascendenza; tantomeno libera gli individui da ogni forma di rimozione o inibizione. Come sostiene Alexander Lowen: “la terapia non è una panacea per le malattie umane ; non è la risposta al dilemma umano.” Bisogna partire dalla semplice constatazione che al giorno d’oggi gran parte della gente ha un gran bisogno di un aiuto per vivere la propria esistenza con un minimo di facilità e di piacere. Questa situazione è la diretta conseguenza del modo in cui è strutturata la cultura attuale: più una società diventa industrializzata e complessa, più problematiche diventano le condizioni di vita delle persone al suo interno. Inoltre, nel momento in cui per aspetti di sviluppo della cultura stessa, vengono a indebolirsi quei processi educativi e di supporto sociale tipici di società meno complesse ma più “umanizzate”, accade che gli individui abbiamo sempre più la necessità di un aiuto per affrontare la vita. Come giustamente nota Lowen: !a psicoterapia è un complemento necessario alla vita moderna, come, sembra, lo sono i sedativi e i tranquillanti. È un segno del “progresso.” Tale situazione pone degli evidenti limiti alla psicoterapia dal momento che essa deriva dalla stessa cultura che genera le problematiche che essa dovrebbe risolvere. Così, senza troppe illusioni la psicoterapia deve porsi l’obiettivo di favorire nelle persone l’adattamento alla propria cultura anche se questa presenta molte contraddizioni e aspetti disfunzionali. Le deve mettere nella condizione di poter vivere e lavorare all’interno di questo sistema con un atteggiamento critico ma mai tendente all’estraniamento. Secondo Lowen, infatti, “isolare una persona dalla sua cultura o dirigerla contro di essa, può essere più distruttivo. Noi, pertanto, cerchiamo di aiutare una persona a ridurre la tensione della sua vita all’interno di una situazione culturale che la sottopone giornalmente a una tensione analoga.” Come fare tutto ciò senza creare degli individui automi, ovvero perfettamente integrati e senza anima? La risposta sta tutta nel favorire nelle persone il riconoscimento dei propri vissuti, pensieri ed emozioni spesso rinnegati e repressi che, continuando a esistere nel proprio inconscio come forze dissociate ed estranee, finiscono per creare disagio e sofferenza. In questo modo la psicoterapia non crea degli individui robot acriticamente integrati: la nostra società, infatti, spesso ci impone di rinunciare e di non riconoscere aspetti di noi che la cultura giudica sbagliati o sconvenienti. Tramite i processi educativi ci insegna a rigettare da noi queste parti al punto tale che molte persone perdono qualunque contatto con esse, finendo per vivere in maniera distante da se stesse. La psicoterapia, allora, punta al loro recupero, favorendo negli individui il contatto e il reintegro di queste parti al fine di permettere loro di essere un po’ più se stessi.

Alexander Lowen, Paura di vivere, Astrolabio

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La resistenza in terapia e nella vita quotidiana

La resistenza è un potente meccanismo di difesa che, manifestandosi in svariate modalità, ci mette al riparo dall’affrontare aspetti cruciali della nostra esistenza. Se da una parte essa è un potente strumento di equilibrio, d’altra parte ci impedisce di superare problematiche con maturità e coraggio. Erich Fromm, “L’arte di ascoltare”, Mondadori

La resistenza è una questione molto complessa, non solo in psicoanalisi, ma anche nella vita di quanti aspirano a crescere e a vivere. Nell’essere umano sembrano coesistere due tendenze molto forti. Una lo spinge in avanti; inizia con la nascita del bambino, con l’impulso ad abbandonare il grembo materno. L’altra è la grande paura di fronte a ogni novità, soprattutto a ciò che è diverso; è la paura della libertà e del rischio; emerge come tendenza a lasciarsi intimorire, a ritornare indietro, a non avanzare. Questa paura del nuovo, di ciò che non rientra nelle nostre abitudini, di ciò che non è sicuro in quanto non ancora sperimentato, si manifesta nelle resistenze, nelle manovre più diverse messe in atto per evitare di avanzare e di compiere un atto coraggioso. La resistenza è una questione che non riguarda solo la psicoanalisi. La maggior parte dei problemi che emerge nell’analisi – come la resistenza o il transfert – è ancora più importante sul piano umano in generale. Ai fini dell’analisi questi problemi hanno un’importanza relativa, non fosse altro perché solo un numero limitato di persone fa questo tipo di esperienza. In termini generali la resistenza e il transfert sono tra le forze emozionali più intense dell’individuo. In nulla siamo tanto abili come nel razionalizzare le nostre resistenze. E il fatto di star meglio non implica che la resistenza sia minore. Ogni miglioramento è da considerare non con gioia e soddisfazione, ma con grande sospetto.

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Un metodo per sfidare le idee irrazionali

Il metodo realistico per sconfiggere le convinzioni irrazionali che spesso sorreggono la nostra ansia consiste nell’esaminare quali sono gli aspetti della realtà sociale che le nostre convinzioni vorrebbero sfidare. Ci parla di questo metodo Albert Ellis, padre fondatore della terapia cognitivo-comportamentale. Questo metodo terapeutico consiste nel cercare di modificare le irragionevoli convinzioni che sorreggono gran parte dei nostri comportamenti disfunzionali. Un metodo che applicato ai disturbi d’ansia consente di ottenere ottimi risultati. Albert Ellis, “Che ansia”, Erickson

Prendiamo un caso molto comune. Poniamo che tu sia sinceramente innamorato di una persona, ma molti indizi ti fanno pensare che l’oggetto dei tuoi desideri non ricambi il tuo affetto. Sembra che tu le sia piuttosto indifferente, o forse non le piaci proprio. Ma continui a desiderare intensamente che questa persona ricambi il tuo sentimento d’amore e di conseguenza provi una certa ansia perché potrebbe non succedere. Come fare per alleviare quest’ansia? (…) La tua preferenza o desiderio, naturalmente, è che la tua amata ricambi il tuo affetto. Ma dato che sei molto ansioso, supporrai che questo desiderio sia passato al grado di doverizzazione insistente. Quindi cerchi dentro di te questa doverizzazione e la trovi con una certa facilità: «Non solo ho un’intensa preferenza affinché la mia amata mi ricambi, ma penso che debba assolutamente farlo. Però, dato che non sembra fare ciò che dovrebbe, e potrebbe anche non amarmi mai nel modo in cui io amo lei, sono molto ansioso. Non ho garanzie che otterrò ciò che credo di dover ottenere, quindi sono molto ansioso, anzi forse sono nel panico». Bene, quindi abbiamo trovato una doverizzazione molto probabile riguardo alla tua amata, ed evidentemente è questa che ti rende ansioso. È semplice, no? Se cerchi la tua doverizzazione, in genere la troverai facilmente. Ora, che cosa puoi fare con questa doverizzazione che dice: «La mia amata deve, deve assolutamente, amarmi come io amo lei»? Come fare per cambiarla? La risposta (…)  è metterla in discussione, contrastarla. Il tuo obiettivo è conquistare la tua amata.

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Terapia psicologica come aiuto per vivere bene

La terapia psicologica non è qualcosa di astratto ma un concreto aiuto a vivere bene nella complessità della società attuale. Terapia psicologica come lavoro per togliere dalla nostra mente la colpa per restituire un senso di innocenza. Terapia psicologica come ricostruzione del puzzle della nostra vita. Alexander Lowen, Paura di vivere, Astrolabio

Credo che la terapia mi abbia enormemente aiutato, ma non mi ha portato in paradiso o innalzato a uno stato di trascendenza, sebbene io abbia passato la maggior parte della mia vita impegnato in questo processo. Credo anche di aver aiutato la maggior parte dei miei pazienti ma nessuno di loro è stato liberato totalmente dalla rimozione o dalla inibizione. La terapia non è una panacea per le malattie umane ; non è la risposta al dilemma umano. Che la maggior parte della gente oggi abbia bisogno di un aiuto per funzionare con un minimo di facilità e di piacere, è una triste conseguenza della nostra cultura, ma è vero. Più una cultura diventa industrializzata e sofisticata, più problemi pone alle persone e più esse hanno bisogno di aiuto semplicemente per affrontare la vita. La terapia è un complemento necessario alla vita moderna, come, sembra, lo sono i sedativi e i tranquillanti. È un segno del “progresso” . I limiti della terapia derivano, in una certa misura, dal fatto che essa appartiene alla cultura che produce i problemi che essa si propone di risolvere. La terapia deve aiutare l’individuo ad adattarsi alla sua cultura; deve aiutarlo a vivere e a lavorare all’interno di questa cultura. Isolare una persona dalla sua cultura o dirigerla contro di essa, può essere più distruttivo. Noi, pertanto, cerchiamo di aiutare una persona a ridurre la tensione della sua vita all’interno di una situazione culturale che la sottopone giornalmente a una tensione analoga. È come dire a una persona di stare calma e tranquilla mentre i cannoni della guerra tuonano intorno a lei, o di rimanere mentalmente sana e razionale vivendo in un manicomio. Da questo punto di vista il terapeuta moderno può essere paragonato allo stregone della società primitiva.

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Rifiuto subìto : come affrontarlo in terapia

Il rifiuto è una esperienza dolorosa e, se subito nell’infanzia, capace di influenzare la percezione di sé e i rapporti con gli altri. Spesso in psicoterapia è utile affrontare questa problematica con un atteggiamento attivo da parte del terapeuta che faccia vivere al paziente una esperienza correttiva di quel vissuto. Joseph Weiss, Come funziona la psicoterapia, Bollati Boringhieri

Secondo la nostra teoria, il compito fondamentale del terapeuta è aiutare il paziente a disconfermare le proprie credenze patogene e a perseguire gli obiettivi che esse ostacolano. In contrasto con la teoria tradizionale, qui si sostiene che paziente e terapeuta hanno un obiettivo comune, e cioè che il paziente arrivi a disconfermare le proprie credenze patogene. Questo è talmente importante da permettere al terapeuta di valutare una data tecnica mediante un semplice criterio: il terapeuta contribuisce, direttamente o indirettamente, alla disconferma delle credenze patogene da parte del paziente? Quando il paziente si accorge che il terapeuta condivide i suoi piani, reagisce quasi sempre sentendosi meno ansioso, più rassicurato e più fiducioso nel terapeuta. (…) Il paziente può rivelare il suo maggior senso di sicurezza nella relazione con il terapeuta in modo diretto, con un atteggiamento più audace e più fiducioso e una maggiore capacità di insight, oppure, dopo una breve pausa, può sottoporlo a un test più severo. Se invece il paziente percepisce che il terapeuta si oppone ai suoi piani, diventa più insicuro, più angosciato e più difensivo, e gli riesce più difficile sottoporre a verifica le sue convinzioni patogene. L’approccio del terapeuta è caso-specifico, cioè il terapeuta deve aiutare il paziente a sentirsi abbastanza sicuro da far fronte ai pericoli che le credenze patogene gli fanno presagire, e perseguire in modo efficace quegli obiettivi che le sue convinzioni rendono difficili da raggiungere.

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Il fato è qualcosa a cui non possiamo sfuggire. Ma il fato non è qualcosa di astratto ma lo si può identificare con il nostro carattere a cui non possiamo ribellarci. Ne nascerebbe una lotta contro noi stessi autodistruttiva. Solo accettando ciò che siamo riusciremo a liberare quelle energie necessarie alla guarigione di noi e alla crescita. Alexander Lowen, Paura di vivere, Astrolabio Ho studiato a lungo la storia di Edipo, ma recentemente le ho prestato un rinnovato interesse per via del ruolo che il fato ha nel mito. Si consideri il fatto che sia Laio. il padre, che Edipo, il figlio, consultarono l'oracolo in diverse occasioni, fu predetto loro lo stesso fato, e che entrambi presero provvedimenti per evitarlo. Laio legò il suo bambino in un campo affinché morisse; Edipo lasciò Corinto per evitare di uccidere il padre. Tuttavia, malgrado questi sforzi per evitare il loro fato, la predizione dell'oracolo si avverò. La domanda che mi viene in mente è: ciò successe proprio perché essi cercarono di evitare il loro fato? Questa domanda mi colpisce con particolare intensità, da quando ho capito che uno degli aspetti del carattere nevrotico è l'incapacità del nevrotico di accettare se stesso. Mi sono reso conto che l'individuo nevrotico lotta per evitare un fato temute, ma è proprio questo sforzo che rende possibile proprio quel fato cui egli tenta di sfuggire. Ammettiamo, ad esempio, che Laio avesse accettato il fato predetto dall'oracolo. La storia sarebbe stata diversa? (Una simile accettazione poteva esser indice di un atteggiamento religioso. Se è volontà degli dei, cosi sia). Se Laio avesse educato Edipo come un figlio, almeno uno degli incidenti della storia avrebbe potuto essere evitato: Laio non sarebbe stato uno straniero per suo figlio e cosi non sarebbe stato ucciso in un incontro casuale sulla strada maestra. Se Edipo avesse accettato il suo fato e fosse rimasto a Corinto ubbidendo alla volontà degli dei, non avrebbe potuto sposare sua madre. I 'se' possono cambiare una storia, ma è proprio perché i fatti andarono in quel modo che noi abbiamo una storia significativa di esperienza umana. (…) Diciamo spesso che il fato coglie o sorprende le persone, Ho detto che queste azioni garantiscono il fato. Ma garantire può essere una parola troppo forte. Invitare sembra più adatta. Per esempio, se qualcuno assume un atteggiamento provocatorio, ci si può aspettare che qualcun altro raccolga la provocazione. Certi atteggiamenti per natura suggeriscono agli altri risposte di un certo tipo. Ecco un semplice esempio clinico. Ho avuto come paziente una donna che si lamentava di non riuscire mai a "farsi un uomo". Tutte le sue relazioni con gli uomini duravano poco. Un giorno, durante la seduta disse “Mia madre mi diceva sempre, Nessun uomo mai ti vorrà”. Era come se sua madre le avesse gettata una maledizione che determinava il suo fato, tanto che aveva raggiunto la mezza età senza aver trovato un uomo che volesse avere con lei una relazione seria. Ma la mia paziente aveva un ruolo attico, anche se inconscio, nel determinare il proprio fato. Credendo a ciò che le aveva detto sua madre, si aggrappava a ogni uomo che aveva interesse per lei. Non lo faceva in modo esplicito, ma scegliendo attentamente un modo di comportarsi utile all’uomo. Il risultato, tuttavia, era sempre lo stesso poiché non poteva nascondere la sua disperazione. L’uomo, messo in guardia, fiutava la trappola e se ne andava. Così la profezia della madre sembrava proprio avverarsi. C’è un altro modo di considerare l’azione del fato. Le difese che erigiamo per proteggerci creano proprio la condizione che cerchiamo di evitare. Così, quando qualcuno costruisce un castello per proteggere la sua libertà, finisce prigioniero del castello perché non osa lasciarlo. Analogamente, non si può garantire la pace accumulando le armi, perché gli eserciti, per la loro stessa natura, conducono alla guerra. Questo concetto è particolarmente evidente nelle difese psicologiche sviluppate dalle persone. Per esempio, l’individuo che, per paura del rifiuto, si difende non aprendosi o non scoprendosi agli altri, si isola e, con questo atteggiamento, si sentirà sempre rifiutato. In una situazione simile, nessuno può essere libero. Questo vale per i nevrotici, che innalzano barriere psicologiche e costruiscono corazze muscolari per proteggersi da eventuali ferite, e scoprono poi che la ferita temuta, con questo processo, si è strutturata nel loro essere. (…) Eppure, non cerchiamo forse tutti di superare la nostra debolezza, la nostra paura o i nostri sensi di colpa? Mettiamo in moto la volontà nel tentativo di sormontare gli ostacoli interni che ci bloccano nella realizzazione dei nostri sogni. Diciamo: "Se c'è la volontà, c'è una via d'uscita". Con uno sforzo di volontà sufficiente possiamo fare quasi l'impossibile. La volontà ha potere nelle azioni o nelle prestazioni, ma non per cambiare lo stato profondo del nostro essere. Le nostre sensazioni non sono soggette alla volontà. Non possiamo cambiarle con un'azione cosciente, ma possiamo reprimerle. Tuttavia la repressione di una sensazione non provoca la sua scomparsa; la spinge solo più profondamente nell'inconscio. In questo modo interiorizziamo il problema. Allora diventa necessario sottoporsi alla terapia per riportare alla coscienza il conflitto in un modo non nevrotico. La mia ipotesi è che un individuo non può superare un problema che è parte della sua personalità. La parola chiave di questa affermazione è superare. Il tentativo di fare questo mette una parte dell’Io contro l’altra; l’Io, con la volontà, si oppone al corpo e alle sue sensazioni. Invece dell'armonia tra questi due aspetti antitetici della natura umana si crea un conflitto che in definitiva distrugge la persona Questo è ciò che fanno tutti i nevrotici, imprigionandosi nel fato che cercano di evitare. L'alternativa, e la via alla salute, risiede nella comprensione, che porta all’auto accettazione, all'autoespressione e alla padronanza di sé. Ci sono dunque due modi in cui determiniamo il nostro fato. Primo, con il nostro atteggiamento e con il comportamento, cioè con il nostro carattere, provochiamo risposte di un certo tipo dagli altri. Se per paura del rifiuto, restiamo in disparte o ci ritraiamo, non dobbiamo stupirci se gli altri mantengono le distanze. Oppure se siamo paranoici, la nostra diffidenza provocherà l’ostilità degli altri e sperimenteremo la loro antipatia. Il secondo modo è perpetrare in noi stessi il fato che temiamo. Reprimendo le nostre sensazioni, creiamo un vuoto interiore; ci mettiamo in trappola da soli con tensioni sviluppate come resistenze a cedere alla paura di essere intrappolati. Ma questi due modi non sono privi di rapporto La persona che si sente vuota vive una vita vuota di significati in termini di relazioni e coinvolgimento. Chi si intrappola da solo è intrappolato dalle situazioni della vita. La situazione esterna deve combattere quella interna. Un piolo quadrato non si adatta a un buco tondo. Parlando in generale, ogni persona trova nel mondo il rifugio che le è adatto. Naturalmente è anche vero che una situazione esterna ne produce una interna, sebbene possa sembrare una contraddizione. Con la sua influenza sulla famiglia, la cultura plasma il carattere dei bambini. Se viviamo in un mondo alienato, ci alieniamo dal nostro corpo e da noi stessi. Una comprensione dei rapporti tra condizione interna e situazione esterna è essenziale per una comprensione della natura umana e del fato. La gente è estremamente a disagio quando si trova in situazioni diverse da quelle a cui è abituata. Mettete un mendicante in una bella casa e implorerà che gli sia permesso di ritornare sulla strada. Vestite un barbone con abiti da signore e non saprà come muoversi. Il contrario e altrettanto vero. Siamo esseri legati all'abitudine: i nostri corpi e il nostro comportamento si strutturano in situazioni definite e ci è molto difficile adattarci ad altre. Senza contare come siamo nati, è il modo in cui siamo stati educati che determina il nostro fato o la nostra sorte. Per esempio, i bambini che crescono con la televisione non possono vivere senza perché si sono abituati a questo tipo di stimolo.(…) Lottando contro il destino ci si avvolge solo più profondamente nelle sue spire. Come un animale preso in una rete, più uno si lotta, più si lega strettamente. Questo significa che siamo condannati? Siamo condannati solo se lottiamo contro noi stessi. La spinta principale data dalla terapia è l’aiuto a mettere di lottare contro se stessi. Questa lotta è autodistruttiva: esaurirà le energie di una persona e non approderà a nulla. Molte persone vogliono cambiare. Il cambiamento è possibile, ma deve cominciare con l’accettazione di sé: il cambiamento fa parte dell’ordine naturale. La vita non è statica; si sviluppa continuamente o declina. Non si deve fare qualcosa per crescere, la crescita avviene naturalmente e spontaneamente quando l’energia è disponibile. Ma quando utilizziamo le nostre energie in una lotta contro il nostro carattere (fato) non ci rimangono energie per la crescita o per il naturale processo di guarigione. Ho sempre constatato che appena un paziente accetta se stesso, si ha un cambiamento significativo nelle sue sensazioni, nel suo comportamento e nella sua personalità

Fato : carattere e accettazione di sé

Il fato è qualcosa a cui non possiamo sfuggire. Ma il fato non è qualcosa di astratto ma lo si può identificare con il nostro carattere a cui non possiamo ribellarci. Ne nascerebbe una lotta contro noi stessi autodistruttiva. Solo accettando ciò che siamo riusciremo a liberare quelle energie necessarie alla guarigione di noi e alla crescita. Alexander Lowen, Paura di vivere, Astrolabio

Ho studiato a lungo la storia di Edipo, ma recentemente le ho prestato un rinnovato interesse per via del ruolo che il fato ha nel mito. Si consideri il fatto che sia Laio. il padre, che Edipo, il figlio, consultarono l’oracolo in diverse occasioni, fu predetto loro lo stesso fato, e che entrambi presero provvedimenti per evitarlo. Laio legò il suo bambino in un campo affinché morisse; Edipo lasciò Corinto per evitare di uccidere il padre. Tuttavia, malgrado questi sforzi per evitare il loro fato, la predizione dell’oracolo si avverò. La domanda che mi viene in mente è: ciò successe proprio perché essi cercarono di evitare il loro fato? Questa domanda mi colpisce con particolare intensità, da quando ho capito che uno degli aspetti del carattere nevrotico è l’incapacità del nevrotico di accettare se stesso. Mi sono reso conto che l’individuo nevrotico lotta per evitare un fato temute, ma è proprio questo sforzo che rende possibile proprio quel fato cui egli tenta di sfuggire.

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blocco evolutivo 1

Blocco evolutivo e conflitto inconscio

Blocco evolutivo o conflitto psicologico inconscio: quale è la causa per cui le persone restano ferme nella propria crescita personale. È un blocco evolutivo che impedisce la guarigione psicologica o ci “ammaliamo” a causa di conflitti inconsci? Cosa può fare una psicoterapia davanti a un blocco evolutivo o una conflittualità inconscia? Stephen A. Mitchell e Margaret J. Black, “L’esperienza della psicoanalisi”, Bollati Boringhieri

Che cos’è che impedisce la crescita e la guarigione psicologica? Perché le persone rimangono bloccate, con i loro sintomi e con le loro relazioni, nelle esperienze dolorose che hanno incontrato all’inizio della vita? Due modelli concettuali fondamentale, e una tensione dialettica tra di essi, hanno dominato le idee degli psicoanalisti sull’immutabilità della psicopatologia (…). Paul, un giovane tra i vent’anni e trent’anni, venne in terapia per una serie di problemi di cui soffriva fin dall’infanzia. Era l’unico figlio di una madre timorosa e appiccicosa e di un padre distante, che era morto quando Paul aveva sei anni. Pur essendo estremamente ricco di risorse e competenze, Paul era spesso tormentato dalla mancanza di fiducia, dalla sensazione di trovarsi in un mondo per il quale era completamente impreparato. Nonostante avesse una lunga storia di successi scolastici e professionali, si sentiva un impostore, e avvertiva il rischio incombente di essere scoperto. Un timore simile lo ossessionava nei rapporti sociali e sessuali. Era in grado di stabilire e mantenere relazioni di amicizia e relazioni sessuali, ma spesso era del tutto incapace d capire e sentire veramente che cosa gli altri trovasserro di attraente e prezioso in lui. Era tormentato da una sensazione di inadeguatezza sessuale, e aveva episodi occasionali e passeggeri di impotenza. Spesso aveva fantasie su altri uomini – più forti, più possenti, con un pene più grande – che, nella sua immaginazione, riuscivano a svolgere con grande facilità tutte le attività che lui vergognosamente trovava faticose.

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transfert 3

Transfert e relazione reale

Cosa è il transfert? Perché questa fondamentale dinamica dei rapporti umani è importante non solo nel processo psicoterapeutico ma anche nella vita quotidiana. Erich Fromm, L’arte di ascoltare. Mondadori

Nel processo psicoanalitico un altro aspetto rilevante è il transfert, che è tra i più significativi anche nella vita umana in genere. Che gli individui abbiano sacrificato i loro figli al Moloch, che abbiano venerato come idoli Mussolini e Hitler, che abbiano dato la vita per dei feticci ideologici, tutto questo rientra nel fenomeno del «transfert». Tale concetto, che Freud riferisce solo all’analisi, è troppo riduttivo. Per transfert Freud e quasi tutti gli psicoanalisti contemporanei intendono quello che è il significato proprio del termine: il trasferimento di un affetto sull’analista. Questo affetto era in passato rivolto a una persona di riferimento dell’infanzia, il padre o la madre; ora esso viene «investito» e trasferito sull’analista. Ciò in generale mi pare corretto. Harry Stack Sullivan illustrò il transfert con un esempio tratto dalla sua esperienza: aveva analizzato una paziente per un breve periodo, e quando, dopo una settimana, questa stava per congedarsi, esclamò: «Dottore, ma lei non ha la barba!». Sullivan aveva in effetti dei sottili baffetti, ma non la barba. Per un’intera settimana la donna aveva creduto invece che l’avesse, perché lo identificava a tal punto col padre da aver trasferito letteralmente su di lui tutta la sua immagine, barba compresa. Lo vedeva così anche nelle sembianze, visivamente; dal momento che aveva la sensazione che fosse suo padre, per lei aveva anche lo stesso aspetto fisico. Questo è il transfert in senso stretto, dove i sentimenti infantili verso un personaggio di rilievo vengono trasferiti su qualcun altro. Ma tale interpretazione non coglie l’essenza del fenomeno, né è questa la sua manifestazione più propria.

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immagine del mondo 4

Immagine del mondo e realtà

L’ immagine del mondo è quella verità costruita da ognuno di noi che guida e determina il nostro stare-al-mondo. L’ immagine del mondo che ogni individuo ha e che spesso ritiene essere oggettiva è un aspetto difficile da cambiare perché soggetto alle regole dell’auto-conferma. Paul Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli.

La psicoterapia si occupa del cambiamento. In che cosa però essa debba cambiare, le varie scuole sono molto divise e queste divergenze di opinione hanno il loro fondamento semplicemente nella sostanziale diversità delle rispettive idee sull’essenza dell’uomo – dunque in una problematica di tipo filosofico, anzi addirittura metafisico, e non psicopatologico. È necessario trovare una risposta utile a questa domanda prima di poter esaminare quali conseguenze per la tecnica della terapia risultino da quanto è stato fin qui detto. In primo luogo vorrei proporre di rispondere alla questione in un modo quanto più possibile pragmatico: chi viene a cercare aiuto da noi soffre in una qualche maniera del suo rapporto con il mondo. Con questo vogliamo intendere – e questa concezione risale al primo buddhismo che, come è noto, era eminentemente pragmatico – che egli soffre per la sua immagine del mondo, per la contraddizione irrisolta fra il modo in cui le cose sono e come, secondo la sua immagine del mondo, dovrebbero essere. Davanti a lui si aprono allora due possibilità: un intervento attivo, che assimili più o meno il mondo all’immagine che egli ha di esso; oppure viceversa, quando ciò sia impossibile, l’adattamento della sua immagine del mondo ai dati immutabili. Il primo tipo di soluzione può essere oggetto di consulto, raramente però di una terapia in senso stretto; mentre invece il secondo è per l’appunto lo scopo e l’obiettivo della trasformazione terapeutica. (…)

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Il Paziente e il viaggio dentro se stesso

Il paziente in terapia cade spesso nella trappola della dipendenza dal proprio psicoterapeuta. Da lui si aspetta la verità, o peggio ancora che risolva i suoi problemi. Il vero viaggio dentro noi stessi e la nostra vera crescita personale avvengono a patto di smettere di voler apprendere verità assolute, iniziando a sperimentare in prima persona. Sheldon Kopp, Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Astrolabio

In ogni epoca, gli uomini hanno intrapreso pellegrinaggi, viaggi spirituali, ricerche personali. Spinti dal dolore, attirati dal desiderio, sorretti dalla speranza, singolarmente e in gruppi, sono andati alla ricerca della liberazione, dell’illuminazione, della pace, del potere, della gioia o dell’irrealizzabile. Desiderosi di conoscenza, hanno però confuso l’apprendimento con la conoscenza stessa e spesso hanno cercato aiutanti, guaritori e guide, insegnanti spirituali dei quali poter diventare discepoli. L’uomo di oggi, il pellegrino contemporaneo, desidera essere discepolo dello psicoterapeuta. Se cerca la guida di un tale guru contemporaneo, si troverà a intraprendere il proprio pellegrinaggio spirituale moderno. Non dovremmo rimanere meravigliati. Le crisi caratterizzate da angoscia, dubbi e disperazione, sono sempre scaturite da quei periodi di inquietudine personale che si presentano  nei momenti in cui un uomo è sufficientemente turbato da cogliere l’opportunità di una crescita personale. Dobbiamo sempre vedere i nostri sentimenti di disagio come l’occasione per fare una scelta che conduca alla crescita piuttosto che una scelta dettata dalla paura”. Perciò anche il desiderio di crescita del paziente costituisce la forza centrale del suo pellegrinaggio. (…)

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