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migliorare se stessi

Migliorare se stessi

Cosa significa migliorare se stessi? Un atleta che si allena per correre i cento metri in un tempo più breve sta cercando di migliorare se stesso. Un individuo che si sforza di seguire un’alimentazione più sana e corretta sta cercando di migliorare se stesso. E allora cosa vuol dire migliorarsi psicologicamente? La risposta è semplice e complessa al contempo: apprendere ad essere più consapevoli, ossia ad essere più padroni di noi stessi. Ciò significa non solo essere meno in balìa dei fattori esterni a noi e dei nostri stati interiori, più capaci di gestire le nostre reazioni, ma anche imparare ad essere maggiormente noi stessi proprio perché in grado di gestire coscientemente i nostri pensieri, emozioni e comportamenti.

La consapevolezza di se stessi, volontaria e non occasionale, è qualcosa che si apprende lavorando su di sé, con fatica e con impegno, e non rappresenta, quindi, uno stato naturale per l’essere umano. La vita ordinaria non richiede necessariamente di essere consapevoli, tant’è che la maggior parte delle nostre azioni e pensieri sono automatici e frutto di meccanismi associativi. Le abitudini che acquisiamo con l’esperienza non richiedono consapevolezza, ma sono come il software di un computer: basta un comando/stimolo esterno per innescare il “programma” che guiderà il nostro comportamento. Per certi versi è vantaggioso che la nostra mente funzioni in questo modo, ma al tempo stesso questa modalità ci rende prigionieri di noi stessi. Quante volte abbiamo desiderato di comportarci in un modo diverso dal solito senza riuscirci: questo significa essere prigionieri di noi stessi.

Migliorare se stessi psicologicamente non è, quindi, strettamente necessario a vivere e si può tranquillamente continuare a farlo senza mai diventare consapevoli di sé. Il desiderio di migliorare se stessi può nascere, dunque, solo da situazioni critiche nella vita che rendono le nostre abitudini non più utili, oppure può sorgere dall’incontro con persone che già sono consapevoli e che ci fanno intravedere altre modalità di vivere la nostra esistenza. In queste circostanze può farsi strada in noi l’esigenza di ricercare un diverso modo di affrontare la vita, fondato su una maggiore conoscenza di noi stessi e su un più consapevole controllo di sé. Si affaccia così l’idea che possiamo far evolvere il nostro essere, rendendolo capace di accorgersi di cosa che fino ad allora non si vedevano affatto.

Migliorarsi vuol dire allora acquisire una nuova visione della propria esistenza e della vita in grado di farci sperimentare un diverso rapporto con noi stessi,  attraverso una maggiore coerenza personale, una più stabile volontà, un più attento controllo dei nostri stati interni. Il percorso per raggiungere tali obiettivi è complesso, difficile e impegnativo perché migliorarsi richiede, in primo luogo, di cambiare se stessi. Questo sforzo, allora, non è per tutti proprio perché deve essere supportato da una motivazione che costantemente deve essere alimentata dal momento che i momenti difficile e i fallimenti sono molti lungo il percorso. Tuttavia, il modo in cui impariamo a sentirci ad ogni passo del percorso può fare la differenza rispetto alla tentazione di ritornare a come si stava prima di iniziare a lavorare su di sé.

Provate allora a chiedervi, con sincerità, se volete migliorarvi, sapendo che questo vuol dire in primis uscire dalla propria zona di confort in cui non si fanno reali sforzi per cambiare se stessi e in cui ci si limita a “parare i colpi” dei momenti difficili e a dare agli altri la responsabilità dei propri malesseri. Per provare, inoltre, a capire il vostro reale desiderio di cambiare fate un piccolo esperimento: per una intera settimana: ogni volta che dovete bere fatelo usando la mano opposta a quella con cui abitualmente prendete il bicchiere. Così se in genere usate la mano destra, in questa settimana servitevi della mano sinistra per afferrare e portare alle labbra il bicchiere da cui bere. Se vi accorgete di averlo fatto con la mano abituale, poggiate il bicchiere sul tavolo e prendetelo con quella sinistra. Un piccolo cambiamento ma che richiede volontà e sforzo. Tutto questo potrà sembrarvi inutile e forse troppo superficiale di fronte a dei cambiamenti ben più importanti che vorreste fare, ma questo esercizio serve solo a testare la vostra disponibilità a cambiare. Alla prossima puntata la spiegazione di questo piccolo esercizio…

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la concentrazione

La concentrazione come attenzione a se stessi

La concentrazione è un’attenzione posta nel presente su qualcosa. Essa lo strumento principale per riuscire veramente ad entrare in contatto con una situazione o con un’altra persona e per conoscerla veramente. Erich Fromm ci spiega come la concentrazione rivolta a se stessi sia un efficace strumento per apprendere l’arte di vivere con consapevolezza oltre che per apprendere realmente a conoscere ciò che noi siamo.

“Concentrarsi significa vivere pienamente del presente, del momento attuale, senza pensare al prossimo impegno. (…) L’inizio della pratica della concentrazione è difficile, sembra di non riuscire mai a raggiungere lo scopo. In realtà ci vuole una grande pazienza. Se non si sa che ogni cosa dev’essere fatta a suo tempo, e si vogliono bruciare le tappe, allora non si riuscirà mai a concentrarsi veramente, nemmeno nell’arte d’amare. Per avere un’idea di cosa sia la pazienza, basti guardare un bambino che impara a camminare. Cade, si rialza, poi torna a cadere; eppure continua a provare e a riprovare, finché un giorno camminerà senza cadere. Che cosa non potrebbe raggiungere la persona adulta, se avesse la pazienza del bambino e la sua forza di volontà nel conquistare ciò che per lei è così importante? Non si può imparare a concentrarsi senza diventare sensibili con se stessi. Che cosa significa, ciò? Si dovrebbe forse pensare a se stessi tutto il tempo, “analizzarsi”? Se parlassimo di essere sensibili a una macchina, sarebbe facile spiegare ciò che s’intende. Chiunque guidi una macchina è sensibile ad essa. Rileva perfino il più piccolo, insignificante rumore, il minimo guasto. Nello stesso modo, il guidatore è sensibile ai cambiamenti del terreno, ai movimenti delle macchine davanti e dietro a lui. Eppure, non pensa a tutti questi fattori; la sua mente è in uno stato di rilassata vigilanza, aperta a tutti i cambiamenti rilevanti della situazione in cui è concentrata; quella di guidare con sicurezza l’automobile. Se consideriamo la questione della sensibilità verso un altro essere umano, troviamo l’esempio più ovvio nella sensibilità e nella responsabilità della madre nei riguardi del suo bambino. Ella nota certi cambiamenti fisici o d’umore, ancor prima che siano espressi. Si sveglia per il pianto del bambino, mentre un altro rumore, molto più forte, non la sveglierebbe. Tutto ciò significa che è sensibile alle manifestazioni di vita del suo bambino; non è né ansiosa né preoccupata, ma in stato di vigile equilibrio ricettivo ad ogni significativa comunicazione proveniente dal bambino. Nello stesso modo si potrebbe essere sensibili verso se stessi. Si è consci, per esempio, di un senso di stanchezza o depressione, ed invece di lasciarvisi andare, sopportandolo con pensieri deprimenti che sono sempre pronti, ci si chiede: “Che cos’è successo? Perché sono depresso?” Si fa lo stesso quando si nota se si è irritati o offesi, oppure se si ha la tendenza a sognare ad occhi aperti, o a indulgere ad altre attività di  “evasione”. In ognuno di questi casi, la cosa più importante è rendersene conto, senza lasciarsi andare; inoltre, ascoltare la nostra voce più intima, che ci dirà spesso quasi immediatamente – perché siamo ansiosi, depressi, irritati.”

COMMENTO – La concentrazione è un’arte complicata da praticarsi nella nostra società dato che ogni cosa sembra remarvi contro. La velocità, l’esposizione continua a stimolazioni multiple, la richiesta di passare l’attenzione da una cosa all’altra, sono tutte situazioni contrarie alla concentrazione. Il primo consiglio che ci offre Erich Fromm per sviluppare la concentrazione è quello di apprendere a star soli senza impegnarsi in attività che richiedono attenzione e che ci portano lontano da noi stessi. Proviamo a stare senza leggere, guardare la TV o mangiare snack o bere. In questo modo riusciremo a fare esperienza di cosa voglia realmente dire “stare soli con se stessi”. La nostra attenzione verrebbe portata solo su di noi, riusciremmo a “guardarci” e ad avere una piena sensazione di esserci. Ma come nota Fromm: “chiunque tenti di stare solo con se stesso scoprirà quanto difficile sia. Comincerà a sentirsi irrequieto, nervoso, a provare un’ansia incontenibile. Si accorgerà di non poter andare avanti in questa pratica, convinto di non valer niente, di essere sciocco, che ci vuole troppo tempo, e così via. Si accorgerà pure che ogni sorta di pensieri gli verrà in mente, cercando d’impadronirsi di lui.” Così oltre a possibili sensazioni di disagio inizieremmo a pensare qualunque cosa per tenere occupata la mente anziché consentirle di svuotarsi. Per aiutarci potrebbe essere utile mettere in pratica piccoli esercizi per rilassarci: sedere in una posizione comoda, chiudere gli occhi per evitare stimoli distraenti, ridurre i rumori che potrebbero attirare la nostra attenzione. A questo punto proviamo a seguire il nostro respiro senza pensarci o sforzandolo ma semplicemente assecondando il suo normale ritmo e sentirlo. In questo modo la concentrazione sarebbe totalmente su di noi e potremmo sperimentare la piena sensazione di noi stessi. Tuttavia, oltre a portare la concentrazione su se stessi, è un utile esercizio imparare a puntarla su ciò che facciamo, per esempio mentre ascoltiamo la musica, leggiamo un libro o conversiamo con qualcuno. Anche in questo caso Fromm ci fornisce una utile osservazione: “l’attività, in quel preciso momento, dev’essere la sola cosa che conti, alla quale darsi completamente.”

Questi semplici esercizi possono aiutarci ad aumentare la sensibilità verso noi stessi, ad ascoltarci e ad osservarci. In genere questo tipo di concentrazione la pratichiamo facilmente quando abbiamo a che fare con la nostra corporeità. Siamo abili a percepire i cambiamenti nel nostro fisico, i dolori che possiamo provare. Come già detto questa sensibilità fisica è abbastanza facile da osservarsi nelle persone. Al contrario è molto più difficile riscontrarla quando la concentrazione ha come oggetto la nostra psiche sia per la sua immaterialità sia perché molte persone non hanno idea di cosa voglia dire funzionare mentalmente bene.

Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori

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il conflitto psicologico

Il conflitto psicologico

Il conflitto psicologico è per ogni persona una condizione fastidiosa anche se essa è presente costantemente nella vita di ognuno di noi. La vita di fatto ci propone sempre situazioni dove è necessario scegliere e quindi conflittuali. Nonostante questo il conflitto psicologico e la capacità di superarlo offrono l’occasione di crescere e rafforzare la consapevolezza di noi stessi. Il conflitto psicologico non va, quindi, evitato ma affrontato mettendoci tutta la nostra attenzione.

“Se la civiltà è in un periodo di rapida transizione, quando valori estremamente contraddittori e modi di vivere divergenti esistono fianco a fianco, le scelte che l’individuo deve fare sono numerose e difficili. Può conformarsi alle aspettative della comunità, oppure essere un individualista dissidente; accompagnarsi agli altri o vivere come un recluso, venerare il successo o disprezzarlo, aver fiducia in una stretta disciplina nei riguardi dei bambini, oppure lasciarli crescere senza molta interferenza; può credere in una legge morale diversa per l’uomo e per la donna , o ritenere che debbano valere per tutti e due le medesime aspettative sociali; considerare i rapporti sessuali come espressione di intimità umana oppure vederli separati dai legami affettivi; può sostenere la discriminazione razziale, oppure avere la convinzione che i valori umani non dipendono né dal colore della pelle né dalla forma del naso, e così via. Non c’è dubbio che alternative come queste vengono poste molto spesso alla gente che vive nella nostra civiltà, e ci si può aspettare quindi che i conflitti su queste basi debbano essere del tutto comuni. Ma il fatto che s’impone alla nostra considerazione è che la maggior parte della gente non è consapevole di tali conflitti, e quindi non li risolve con una decisione chiara. Accade più spesso che essa si lasci trascinare ed influenzare dal caso. La gente non si rende esatto conto della propria posizione, scende a compromessi senza accorgersene; rimane coinvolta in contraddizioni senza saperlo.”

COMMENTO – Un elemento fondamentale per affrontare una situazione conflittuale è quello di saper riconoscere le situazioni contraddittorie in grado di produrre in noi il conflitto psicologico. Solo allora saremo in grado di prendere decisioni in merito senza subirle passivamente. Una seconda precondizione importante è quella per cui, per affrontare il conflitto psicologico con efficacia, dovremmo essere consapevoli di quelli che sono i nostri desideri, i nostri sentimenti, i nostri valori. Domandiamoci sempre se certe nostre preferenze sono il frutto di nostri reali orientamenti oppure nascono da una semplice adesione alle circostanze e alla moda. Molte persone potrebbero trovare arduo rispondere a tale domanda semplicemente perché non sanno cosa in realtà sentono o desiderano. Il conflitto psicologico è sempre collegato alle convinzioni , credenze e valori morali che possediamo, per cui il riconoscimento di una situazione di conflitto presuppone il fatto che noi abbiamo sviluppato un nostro sistema di valori. Tale sistema di valori può essere più o meno solido per cui, come ricorda Karen Horney: “le credenze semplicemente adottate, senza  far parte di noi, difficilmente hanno forza sufficiente per condurre a conflitti o per servire di guida alle nostre decisioni. A contatto di nuove influenze, tali credenze saranno facilmente abbandonate a favore di altre. Se abbiamo semplicemente adottato i valori approvati dal nostro ambiente, i conflitti che potrebbero nascere per un nostro più preciso interesse, non sorgono.”

Si capisce come, allora, il conflitto psicologico sia esperienza normale e augurabile nella vita di ogni persona. Coloro che non vivono il conflitto psicologico sono individui a cui va bene tutto, ossia persone che non possiedono un proprio sistema di valori, dei gusti personali o dei desideri che li animano. Infine, dobbiamo considerare un aspetto determinante per la risoluzione di un conflitto: non solo dobbiamo riconoscerlo ma “dobbiamo avere la volontà e la capacità di rinunciare ad una delle due soluzioni contrastanti.” Purtroppo questa capacità non è così scontata perché come sottolinea Karen Horney la possibilità di attuare una rinuncia consapevole è rara, dal momento che spesso i nostri sentimenti, i nostri desideri e valori sono confusi. Per di più nella società odierna la maggior parte degli individui non è sufficientemente sicura e disposta a rinunciare a qualche cosa. Per finire, la possibilità di arrivare ad una decisione che risolva il conflitto psicologico richiede la volontà e la capacità di assumersi le responsabilità della scelta. Decidere vuol dire correre il rischio di prendere una decisione sbagliata, e la forza di sopportare personalmente le conseguenze di ciò senza dare la colpa gli altri. “Ciò implica il pensiero «Questa è la mia scelta, il mio dovere», e presuppone una forza interiore e una indipendenza maggiori di quanto ne abbia oggigiorno la maggior parte della gente.”

Karen Horney. I nostri conflitti interiore, Martinelli Editore

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essere consapevoli

Essere consapevoli e avere autostima

Essere consapevoli di se stessi (obiettivi, competenze, capacità) significa mettersi nella condizione di poter lavorare realisticamente per realizzare qualcosa nella propria esistenza. Questa consapevolezza fornirà alla nostra autostima tutti quegli elementi che derivano non solo da una accettazione di ciò che noi siamo o facciamo, ma soprattutto la nutrirà con quegli aspetti positivi che potranno arrivare dal raggiungimento dei propri obiettivi.

“Se esiste un’indicazione certa di una vita priva di consapevolezza, è l’indifferenza alla domanda: Che cosa mi serve sapere (o imparare) per raggiungere i miei obiettivi? Questa indifferenza è strettamente correlata a un mancato senso della realtà. Quando manca questo senso, quando mancano l’oggettività e la comprensione dei fatti, gli obiettivi vengono raggiunti con la fantasia e non con azioni appropriate. Tra la pratica di vivere consapevolmente e l’autostima esiste un rapporto di reciproca causalità. Le due cose si rafforzano a vicenda. Se abbiamo fiducia nella nostra mente, non ci spaventa l’idea di imparare cose nuove. Perseverando, tendiamo a coronare i nostri sforzi con un successo che rafforza la fiducia iniziale. In mancanza di questa fiducia, l’idea di imparare cose nuove ci può spaventare fino a spingerci a rinunciare, il cambiamento e le novità vengono visti come pericolosi, e si tende ad aggrapparsi a ciò che è conosciuto e familiare. Ma se ciò che conosciamo e ci è familiare non risponde ai requisiti della nuova situazione, il risultato è il fallimento, con il conseguente deterioramento di un’autostima già ferita.”

COMMENTO – Che lo vogliamo o no, la nostra esistenza si struttura intorno a degli obiettivi da raggiungere. Lo facciamo tutti i giorni, più o meno consapevolmente, da quando ci alziamo al mattino a quando andiamo a dormire la sera. A volte si tratta di obiettivi a brevissimo termine, altre volte a lungo termine; talvolta semplici altre volte più complessi e laboriosi. In questa situazione esistenziale più riusciamo a essere consapevoli più saremo in grado di far fronte ai nostri obiettivi, rendendoli anche occasione di crescita personali. Per sapere il grado del nostro essere consapevoli riflettiamo sul fatto se ci poniamo mai domande del tipo: “Per questo mio obiettivo cosa devo fare per raggiungerlo?”, oppure “Che tipo di informazioni mi occorrono per arrivare alla mia meta?”, o ancora “Quali criteri utilizzerò per capire se sono sulla strada giusta?”. Essere consapevoli di stare lavorando bene per raggiungere i nostri obiettivi richiede di fare chiarezza su quali risorse poter utilizzare a proposito e, soprattutto, su quali informazioni ci occorrono per operare al meglio con i nostri sforzi. Ci sono poi alcuni aspetti personali di cui sarebbe bene essere consapevoli, per esempio: “Cosa spettarci realisticamente da noi”, “Cosa è in mio potere di fare per mettermi nelle condizioni di raggiungere il traguardo desiderato”

Come ci ricorda Nathaniel: “più agisco consapevolmente, più vado in cerca di informazioni utili al mio scopo. Meno agisco consapevolmente, meno considererò necessarie queste informazioni: crederò di sapere già tutto, e se non so qualcosa, sarò convinto che non faccia differenza. Le domande che dobbiamo porci sono: “Sono pronto a ricevere qualunque informazione che possa farmi cambiare percorso o correggere le mie posizioni, oppure sono convinto di non avere niente da imparare?”, “Cerco continuamente nuovi dati utili, o chiudo gli occhi anche davanti all’evidenza?”.

Se noi riusciamo ad agire in questo modo e ad essere consapevoli di tutti questi aspetti, il risultato è una espansione della nostra consapevolezza, con la conseguenza che il nostro lavoro procederà in maniera più soddisfacente e la nostra autostima ci supporterà al meglio. Dobbiamo, dunque, una volta che abbiamo un obiettivo e lo desideriamo raggiungere, prenderci la responsabilità di apprendere tutto ciò che necessita per arrivare alla meta. Essere consapevoli in tal senso ci richiederà di sapere esattamente dove ci troviamo in un dato momento rispetto ai nostri obiettivi. Ben si comprende che tutto questo va al di là del raggiungimento della meta ma diventa un’occasione per diventare delle persone migliori, dotate di un senso della realtà spiccato, capaci di andare oltre la semplice fantasticheria per assumerci la responsabilità del nostro agire.

In aggiunta essere consapevoli mentre lavoriamo verso una meta, richiede di “verificare il rapporto tra i valori e gli obiettivi che professiamo e il nostro comportamento quotidiano. A volte – nota Nathaniel Branden – c’è incongruenza tra quelle che sosteniamo essere le nostre priorità e il modo in cui investiamo il nostro tempo e la nostra energia. A volte dedichiamo scarsissima attenzione alle cose che dichiariamo più importanti per noi, e tantissima a quelle che dichiariamo secondarie.” Infine, una sana consapevolezza ci richiederà di considerare senza paura i feedback che ci arrivano dell’ambiente rispetto a come stanno andando le cose nel nostro lavoro. Come afferma Nathaniel Branden non sempre le cose andranno bene, ci saranno interruzioni, ritardi e anche fallimenti. Allora: “Se siamo attenti, regoliamo le nostre azioni in relazione ai nostri obiettivi, cerchiamo di capire dove sono allineati e, se non lo sono, rivediamo o le prime o i secondi. Come avrete osservato, non sono per forza le azioni a dover cambiare. Molto spesso scegliamo di modificare proprio quelle, ma non dobbiamo prenderla come una conclusione obbligata. A volte le nostre azioni riflettono una saggezza del subconscio superiore al nostro impegno ufficiale e cosciente. Forse ci siamo proposti obiettivi che non rappresentano i nostri valori piri profondi o non sono funzionali ai nostri veri interessi, ed ecco perché a un certo livello veniamo spinti in un’altra direzione.”

Nathaniel Branden, L’arte di vivere consapevolmente. Corbaccio

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la paura di noi stessi

La paura di noi stessi

La paura di noi stessi è una condizione di insicurezza che determina in noi un blocco che spesso è attivo inconsapevolmente. Per riuscire a superarlo è necessaria una consapevolezza orientata a farci osservare tutte le volte che scegliamo un atteggiamento passivo o di rifiuto rispetto all’espressione di noi stessi e alla responsabilità delle nostre azioni. Infatti, un atteggiamento passivo ci porta a d essere impreparati davanti le sfide e le occasioni che ci mette davanti la vita, non permettendoci di coltivare la nostra autostima.

“Non è difficile capire che arrendersi alla paura della nostra fallibilità è autodistruttivo. Arrendersi alla paura di scegliere o prendere decisioni è essa stessa una scelta o una decisione, e come tale avrà delle conseguenze. Prendiamo come esempio un dirigente che, temendo di esercitare il proprio giudizio e la propria iniziativa davanti a un rapido cambiamento economico, guarda inerme mentre la sua azienda perde quote di mercato a favore della concorrenza. La stessa osservazione vale per chi si arrende alla paura di assumersi delle responsabilità. Se la nostra priorità pii alta non è raggiungere degli obiettivi, ma evitare di essere ritenuti colpevoli o responsabili di qualcosa, nella vita non realizzeremo mai nulla. La nostra timidezza diventerà la nostra prigione. Il timore che non osiamo sfidare determinerà i limiti della nostra esistenza. Sia sul lavoro che nella vita privata, il successo è di chi è disposto ad assumersi la responsabilità di realizzare i propri desideri, di chi reagisce alla vita attivamente e non passivamente, scegliendo l’indipendenza a scapito della dipendenza.”

COMMENTO: La paura di noi stessi si traduce in una incapacità ad affrontare la verità su ciò che pensiamo e sentiamo realmente e su ciò che faremmo veramente in certe situazioni. Ogni percorso di crescita personale, compiuto autonomamente o all’interno di una psicoterapia, se svolto con successo deve sicuramente condurre a quella condizione definita come accettazione di sé. Infatti, nel momento in cui riconosciamo, accettiamo e facciamo nostro ciò che siamo, solo allora saremo in grado di sconfiggere la paura di noi stessi che così spesso ci porta a essere ciò che non siamo. Cosa significa questo? Vuol dire “digerire” i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri comportamenti nel momento in cui essi si verificano, considerandoli espressione di noi stessi. Sicuramente questo non è un invito ad una irresponsabilità gratuita o ad una spontaneità sconsiderata. È piuttosto una esortazione ad una autoconsapevolezza, grazie alla quale iniziamo a non giudicare troppo severamente noi stessi, cominciando a guardare cosa sentiamo e cosa vogliamo e assumendoci il coraggio di mostrarlo, Solo mettendo da parte la paura di noi stessi cominceremo a diventare più forti e ci sentiremo più integri. Come ricorda Nathaniel Branden: “non siamo costretti a farci piacere o a perdonare tutto quello che osserviamo, ma non dobbiamo neppure rifiutare noi stessi.” Se questo accade è possibile scoprire che: “accettando ciò che di sé non ci piace, non è affatto vero che dopo non si riuscirà più a liberarsene, anzi accade l’esatto contrario: l’accettazione di sé è la base della crescita e del cambiamento.”

Chi non consente a se stesso di avere consapevolezza di ciò che pensa realmente, negando e disconoscendo i propri pensieri nel momento in cui arrivano e vivendoli come imbarazzanti, non riuscirà a entrare in contatto con le proprie conoscenze; non potrà elaborare i propri pensieri, finendo per subirli o restando impantanato in essi. La stessa cosa accadrà con ciò che si sente e si prova: negandoci e non riconoscendo come nostri quei sentimenti ed emozioni che potenzialmente potrebbero disturbare il nostro equilibrio, non avremo accesso a informazioni vitali sulle nostre credenze e valori. La paura di noi stessi non ci permette di apprendere nulla su di noi e così non ci resta che continuare ad avere timore dei nostri pensieri, emozioni e azioni ogni volta che questi minacciano di affiorare. “Se non permetto a me stesso di riconoscere e fare mie azioni che adesso mi dà fastidio ricordare, se non me ne prendo la responsabilità, che cosa mi darà la spinta ad agire diversamente in futuro?”

Nathaniel Branden, L’arte di vivere consapevolmente. Corbaccio

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Roberto Assagioli

Roberto Assagioli: osservare l’ inconscio

Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi, ci mostra come gran parte della nostra vita sia guidata da processi mentali inconsci. Tale inconsapevolezza del nostro agire e pensare ci equipara a delle marionette mosse da una volontà non propria…

“Noi ignoriamo le radici, la provenienza, le cause di molte nostre idee, convinzioni, stati d’animo, impulsi; vediamo per così dire il prodotto già formato. Abbiamo delle concezioni filosofiche, religiose, poetiche; dati atteggiamenti di fronte agli altri, impulsi a fare certe cose. Di questo siamo coscienti; ma le loro vere cause ci sfuggono, hanno radici nel profondo del nostro essere. Basta questo a dimostrare l’importanza pratica, vitale dello studio dell’inconscio. Se noi non vogliamo essere spinti quali marionette mosse da fili invisibili, se vogliamo essere consapevoli del come, del perché pensiamo ed agiamo in dati modi, dobbiamo fare un esame profondo, coraggioso di questa zona oscura che è in noi. Si potrebbe domandare perché tutta la nostra psiche non è cosciente, perché siamo consapevoli solo di una parte della nostra personalità. Si può facilmente capire perché ciò avvenga e debba avvenire. Se vi è una molteplicità di elementi e di attività contemporanee non possiamo seguirli tutti ad un tempo.”

COMMENTO: Secondo Roberto Assagioli il motivo per cui ci sfuggono molti contenuti del nostro inconscio non è dovuto solo a questioni di funzionamento della nostra attenzione, ma esistono dei veri e propri ostacoli che impediscono  l’affioramento dell’inconscio, una vera e propria repressione e rimozione. Infatti, la parte cosciente della nostra mente allontana da sé, rimuove tutti quegli elementi che ci riguardano e che al tempo stesso rifiutiamo perché spiacevoli o perché ci spaventano. In questo modo pensiamo che scacciandoli tali elementi vengano annullati, ma questo modo di fare simile a quello dello struzzo che nasconde la testa davanti ad un pericolo, è profondamente illusorio. Non vedere un problema non vuol dire che quello stesso problema si sia annullato. Infatti, questi contenuti rimossi, non più sotto il controllo della coscienza, sono ora liberi “di scorrazzare, di insidiare l’inconscio, come delinquenti che tanto più operano indisturbati, quanto più se ne nega l’esistenza”. Un altro ostacolo alla conoscenza dei nostri contenuti inconsci, secondo Roberto Assagioli, sta nel fatto che spesso essi sono difficilmente assimilabili per la nostra coscienza. Essi, infatti, hanno una natura così differente rispetto alla nostra personalità cosciente, che si fa fatica a riconoscerli come propri e quindi ad inserirli in un più ampio “come siamo”.  Così accade nei confronti di tali contenuti ci comportiamo come quando diciamo di avere qualcosa “sulla punta della lingua” ma non riusciamo a ben focalizzarla. Allora ci succede di avvertire questi contenuti come se essi premessero dentro di noi per uscire fuori “ma non riusciamo a farla entrare nella coscienza”.

Roberto Assagioli afferma che un altro motivo per cui i contenuti dell’inconscio sono esclusi dalla nostra coscienza “è che non sono pronti, sufficientemente elaborati”. Alcune cose che ci accadono non vengono “digerite” normalmente come accade in genere alle esperienze quotidiane e quindi non sono subito pronte e disponibili per la nostra coscienza. Hanno bisogno di un tempo di decantazione nel nostro inconscio che continua a lavorarle per noi. Finché questa elaborazione non è giunta a termine, i contenuti di queste esperienze “non possono nascere nella nostra coscienza; esse possono premere su di noi, darci un senso di disagio, di pena, di fatica, ma non affiorare”. Chiaramente uno degli sforzi fondamentali per la nostra crescita interiore va proprio indirizzato ad osservare e scandagliare questa dimensione inconscia della nostra vita mentale, esplorandola metodicamente e mettendo da parte i nostri pregiudizi su noi stessi. Osserviamo realmente come siamo senza cercare di difenderci dalla percezione di cose di noi che non ci piacciono; impariamo a essere sinceri in questo “guardarci dentro” e riusciremo a vedere fino in fondo tute quelle dinamiche che muovono il nostro essere.

Roberto Assagioli, Cambiare se stessi. Astrolabio

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Nathaniel Branden

Nathaniel Branden: la consapevolezza

Nathaniel Branden, psicologo statunitense, è uno dei massimi esperti sul tema della consapevolezza. Nei suoi studi sottolinea come essa dovrebbe essere lo strumento che, psicologicamente, guida la nostra vita, suddividendo la consapevolezza in esterna e interna. Quella esterna volta alla conoscenza della realtà intorno a noi, quella interna focalizzata sul conoscere se stessi,

“Vivere consapevolmente significa capire che, vivendo nella realtà e dovendo adattarci a essa per sopravvivere e prosperare, la nostra prima responsabilità è vedere con chiarezza quello che concerne la nostra esistenza e il nostro benessere; più specificamente, quello che concerne le no­stre azioni, interessi, necessità, valori e obiettivi. Lo scopo di questa visione è adattare di conseguenza i nostri compor­tamenti. (…) Vivere consapevolmente significa riconoscere che, alli­neandoci al nostro meglio con la realtà, ottimizziamo le no­stre possibilità di successo, mentre mettendoci contro di es­sa condanniamo noi stessi al fallimento se non alla distru­zione. (…) Vivere consapevolmente significa essere convinti che ve­dere è preferibile all’essere ciechi; che il rispetto per i fatti della realtà porta a risultati più soddisfacenti della negazio­ne di essi; che l’evasione non rende irreale ciò che è reale o viceversa; che è meglio per me correggere i miei errori piut­tosto che fingere di non averli commessi; che più sono consapevole dei fatti riguardanti la mia vita e i miei obiettivi, più sagge ed efficaci saranno le mie azioni. Il senso della realtà ci rendersi conto di tutte queste cose e collegarle tra loro. Sono la roccia su cui poggia una vita consapevole.”

COMMENTO: Oltre alla consapevolezza rivolta a se stessi e alla realtà intorno a noi Nathaniel Branden individuo altri cinque pilastri fondamentali che sostengono il nostro benessere. Il primo è l’accettazione di sé, ossia la comprensione di tutto ciò che noi siamo, compresi quei lati di noi meno piacevoli, accogliendo e non rinnegando ciò che di noi meno ci piace. Questo ci aiuterà a riconoscere quando queste parti di noi si manifestano e, quindi, ad avere più possibilità di gestirle. Il secondo è la maturazione di un senso di responsabilità, per cui assumersi il pieno impegno della nostra realizzazione personale, senza demandare ad altri la costruzione della nostra felicità. Il terzo pilastro secondo Nathaniel Branden è lo sviluppo dell’autoaffermazione, ossia l’abitudine a dare spazio e voce ai nostri pensieri ed emozioni. Il quarto è la capacità di porsi degli obiettivi con cui identificarsi e in grado di spingerci ad impegnarci in qualcosa che per noi sia dotato di senso. Infine, il quinto pilastro è rappresentato dall’integrità personale, ossia il saper mantenere fede ai propri principi, attraverso la lealtà e la coerenza verso noi stessi.

Nathaniel Branden, L’arte di vivere consapevolmente. Corbaccio

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illusioni

Illusioni contrarie allo sviluppo di sé

L’uomo vive di illusioni che lo tengono lontano dal desiderare per se stesso un modo di essere diverso e più sviluppato. Del resto il desiderio di lavorare su noi stessi può nascere solo dallo svelamento di tali illusioni, reso possibile solo praticando l’osservazione di noi stessi.

Una delle illusioni più radicate nelle persone è quella di essere “uno”: ognuno si attribuisce il possesso dell’individualità che, in questo caso, non significa “essere diverso dagli altri” ma di “funzionare in maniera unitaria”. In realtà, se ci osservassimo con costanza e continuità nell’arco di una giornata scopriremmo in noi un alternarsi di stati, spesso contrapposti fra loro, che altro non sono se non l’espressione di una molteplicità di Io presenti in noi stessi. Altre due illusioni connesse con questa relativa all’unità del nostro essere, sono quelle per cui le persone ritengono di avere una sola volontà e di vivere in una piena coscienza di sé. Eppure basterebbe una sincera auto osservazione per rendersi conto che la nostra vita mentale è governata da volontà che spesso sono antagoniste e in conflitto fra loro e che di volta in volta prendono il sopravvento. Analogamente, sarebbe facile rendersi conto che salvo rari casi compiamo azioni e abbiamo pensieri che non sono altro che automatismi in reazione a stimolazioni che riceviamo o semplici comportamenti meccanici privi di consapevolezza.

Coltivare, inconsapevolmente, tali illusioni fondate sull’immaginare di avere una individualità, una volontà ed essere coscienti, fa rimanere la nostra esistenza in uno stato di penombra (“uno stato di sonno” secondo la tradizione esoterica), il cui risultato è non farci desiderare o aspirare ad una vera consapevolezza di noi stessi con il conseguente sviluppo di sé. L’individuo, così, si limita a immaginare di possedere una unità in se stesso e di condurre una vita cosciente, senza vedersi realmente per quello che è, non riuscendo a ricordarsi di sé, ossia ad essere presente a sé ogniqualvolta agisce e si rapporta agli altri. Non ricordarsi di sé, vivere nell’illusione sostenuta dall’immaginazione ci porta a sperperare la nostra vita, a distruggerla rimanendo prigionieri di tutte le circostanze che di volta in volta finiscono per governarci. Prime fra tutte le emozioni negative che inquinano il nostro vivere e i rapporti interpersonali. L’illusione che le persone hanno di essere “uno”, avere una volontà e di essere consapevoli di sé si riferisce tuttavia ad una possibilità: è possibile avvicinarsi a queste condizioni, raggiungerle a patto però di impegnarsi in un lavoro su se stessi che prima di tutto ci permetta avere esperienza di tale illusione attraverso l’osservazione di sé e ci motivi ad acquisire uno stato di consapevolezza.

Tutto deve partire dall’avere esperienza di questa illusione, ossia dall’accorgerci direttamente del fatto che siamo mancanti di una individualità stabile, di una volontà dominante e di coscienza di noi. Questo dal momento che è proprio tale illusione ad essere il principale ostacolo alla possibilità di lavorare su noi stessi in un determinato modo: infatti, se immaginiamo di possedere qualcosa, non ci impegneremo  a conquistarla. Infatti se ci pensiamo bene, perché mai un individuo dovrebbe impegnarsi a raggiungere qualcosa se è già convinto di possederla. Questa è una delle conseguenze illusorie dell’immaginazione con cui compensiamo ciò che non abbiamo e che ci porta a pensare di essere ciò che non siamo. Su questo aspetto le persone sono, in genere, molto brave a notare quando negli altri non c’è corrispondenza tra ciò che sono e ciò che credono di essere, peccando di mancanza di autocritica quando tale considerazione dovrebbe riguardarle. In questo siamo molto indulgenti, finendo per non accorgerci di quanto noi stessi usiamo l’immaginazione per dipingerci come vorremmo essere. Dunque, nel lavoro su se stessi si insiste molto sul fatto che bisogna lottare contro l’immaginazione (quando questa serve a illuderci), soprattutto quando essa si riferisce  all’immagine che ci formiamo di noi stessi.

L’auto osservazione serve allora a smantellare tali illusioni, non solo perché alimentano false percezioni di noi stessi, talvolta mettendoci anche in situazioni imbarazzanti con gli altri, ma soprattutto perché ci tolgono la possibilità di maturare una crescita interiore. È bene ripetere: se immaginiamo soltanto già di essere dotati di certe qualità senza verificarne l’effettiva loro presenza in noi, non avremo alcuna speranza di arrivare a possederle. Infatti, spesso con l’immaginazione tendiamo a supplire tale carenza. Così facendo, illudendoci che il nostro essere sia unitario, credendo di avere una sola e costante volontà e di essere pienamente consapevoli, non riusciremo ad accorgerci che invece dentro di noi tali qualità non ci sono. Ignari di ciò – ossia del fatto di non possedere tali qualità che giocherebbero a favore del nostro equilibrio e serenità – riteniamo che i nostri disagi e scontentezze siano causati dal fatto che gli altri non ci stimano abbastanza, che abbiamo meno denaro di quanto vorremmo, etc. Insomma, trascurando le nostre mancanze interiori addebitiamo sempre alle circostanze esterne le nostre insoddisfazioni e malesseri esistenziali. Così l’individuo che immagina di sé cose non vere non crea solo illusioni, ma finisce per danneggiare se stesso dal momento che non potrà muovere un solo passo che lo porti fuori dalla condizione in cui si trova. Resta fermo in un certo punto del proprio sviluppo interiore senza poter proseguire oltre tale stadio e ciò perdurerà finché egli non “vedrà” con chiarezza la persona che realmente è, ossia molto diversa da quell’immagine illusoria di sé con cui si continua a pensare.

Questa nuova comprensione di noi stessi, questa diversa percezione interiore di sé, muta totalmente il senso di sé che un individuo ha avuto fino a quel punto. Cambia perché egli inizierà a vedere se stesso e i fatti della realtà sotto una nuova luce, fuori dalla percezione illusoria che lo aveva dominato fino ad allora. Maturerà una percezione delle cose meno confusa, sarà in grado di attribuire a se stesso tutto ciò che  di buono e di cattivo c’è nella sua vita interiore. Riconoscerà come propri tutti i vissuti che sperimenta, si sentirà responsabile di ogni pensiero e stato d’animo. Questo gli consentirà di lavorare con tutte queste parti, specie con quelle negative per vitare di esserne schiavo, arrivando ad una forma di autocontrollo. Infatti, se l’individuo rimane cieco, senza conoscenza riguardo l’origine dei suoi comportamenti, dei pensieri e di ciò che prova, non potrà mai cercare di avere un controllo su di essi. L’osservazione di sé, in questo senso, è il solo strumento per riuscire ad accorgersi di quanto poco gestiamo questi aspetti di noi stessi. Rendersi conto di questo, uscendo quindi dall’illusione del dominio che abbiamo su noi stessi, ammetteremo la nostra impotenza nel governare la nostra esistenza, portando alla luce ciò che è nascosto e ricoperto dall’illusione. Il fatto stesso di arrivare a questa consapevolezza, ossia di non “essere padroni in casa nostra”, fa sì che il cambiamento diventi possibile perché accanto a questa coscienza di sé nascerà il desiderio di essere diverso.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione precedente: La trasformazione di se stessi

Leggi articolo: Come trovare se stessi

essere presenti

Essere presenti a se stessi

Essere presenti a noi stessi è l’unico modo per riuscire a coltivare una reale consapevolezza di sé. Inoltre questo tipo di stato – la presenza – favorisce ogni processo di auto osservazione e, nei suoi sviluppi è la principale condizione per poter migliorare e controllare il nostro comportamento.

La tendenza delle persone è quella di essere proiettate in un “tempo” differente dal  presente. Tale abitudine non consente di approcciarci e di conoscere le situazioni in essere per quelle che sono e, di conseguenza, di agire in modo conforme alla realtà del momento. L’unica realtà ad essere esistente è il “qui ed ora” dal momento che il passato è già stato e il futuro deve ancora essere. Se con la nostra mente (mondo interiore) ci proiettiamo verso il passato o verso il futuro, non consideriamo il tempo presente e, dunque, non potremo “fare” quello che deve e può essere fatto nel “qui ed ora”. Naturalmente il futuro e il passato sono dimensioni temporali importanti, ma è utile porle sempre in relazione al presente. Infatti se consideriamo il futuro, esso si costruisce a partire dal presente, e quindi a tal fine è bisogna comprendere cosa porti con sé la situazione contingente, concentrandosi sulle sue variabili e caratteristiche. Analogamente il passato deve essere considerato come il contenitore delle esperienze fatte che entrano in gioco, in quanto bagaglio che ci portiamo dietro, nel presente e che spesso determinano solo una visione limitata di quello che è il momento.

Per essere in grado di vivere il momento presente dobbiamo sforzarci di non dare forza e spazio agli Io che ci portano in momenti diversi, fantasticando il futuro o perdendoci nel passato. Facciamo caso, per esempio, che trovandoci impegnati in un compito possa capitare che una parte di noi già si proietti alla sua conclusione e a quello dobbiamo fare dopo, innescando un senso di affaticamento; oppure che una parte di noi si rivolga al passato, riandando a quando abbiamo già affrontato una difficoltà simile e creando, anche in questo caso, un sovraccarico dato che interiormente quel problema già lo avevamo già vissuto. Questo proiettarsi nel futuro o nel passato fa parte delle risposte automatiche e meccaniche che noi diamo agli eventi, senza imparare così facendo a vivere le situazioni per ciò che sono, attenti a quanto esse portano con sé. In che modo iniziare ad essere parte del momento che stiamo vivendo e, quindi, a stare nel nostro presente? I due concetti chiave nella psicologia della Quarta Via sono:  la presenza e il Ricordo di Sé. Partiamo dal primo concetto e chiediamoci cosa voglia dire essere presenti a noi stessi e come si faccia.

In via generale, possiamo dire che ciascuno di noi dovrebbe “essere presente” ad ogni esperienza o fatto della propria vita dal momento che soltanto così è possibile dire di stare realmente vivendo, anziché lasciare che le cose accadano. Tuttavia, spontaneamente questa presenza non ci è data ma richiede uno sforzo che per essere compiuto richiede che noi desideriamo di essere presenti alle cose; il che, a sua volta, necessita del fatto che dobbiamo sapere che, desiderando e compiendo uno sforzo in tale direzione, otterremo qualcosa. Il sistema psicologico basato sulla Quarta Via ci dà informazioni per sapere cosa possiamo ottenere lavorando in un certo modo – per esempio il fatto di arrivare ad essere padroni del nostro vivere – tuttavia sta poi a noi attuare i suggerimenti, verificando personalmente i benefici che possiamo trarre dal cambiamento del nostro livello d’essere. Essere presenti a se stessi vuol dire osservare le nostre manifestazioni (modi d’essere), così come quelli degli altri e la realtà che ci circonda. Questo tipo di attenzione nel “qui ed ora” portata su noi stessi, sugli altri e sul mondo intorno a noi dilata la nostra percezione, portandoci alla consapevolezza che gli eventi sono molto più ricchi e vasti di come ci appaiono inizialmente. La conoscenza che ne deriva muta naturalmente il nostro rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo.

Il miglior modo che può condurci ad essere nel presente è quello di ricordarci di desiderare di voler essere presenti a noi stessi. Senza il ricordo che il nostro scopo è quello di essere presenti ne ignoreremmo l’esistenza in un dato momento; infatti, gli Io attivi in una certa situazione – mentre lavoriamo, parliamo o facciamo altro –  sono così identificati nelle loro attività che non sanno nulla dello scopo di “essere nel presente”. Per questo è utile ricorrere all’aiuto di Io che desiderano “l’essere nel presente”, introducendoli nella nostra quotidianità attraverso l’uso di esercizi. Essi sono uno strumento a cui ricorrere per determinare delle “rotture” e interruzioni volontarie nella meccanicità con cui si susseguono le cose, permettendoci di ricordare il nostro scopo “essere presenti”. Un tipo di esercizio è basato, per esempio, sull’uso intenzionale di un certo tipo di comportamento per ricordarci dell’essere presenti. Ad esempio, se nel parlare gesticoliamo potremmo imporci lo sforzo per cui ogni volta che gesticoliamo dobbiamo portare la nostra attenzione sui nostri gesti ed essere così presenti alla situazione; in questo modo, usando una nostra peculiarità, potremo ricordarci ogni volta che gesticoliamo di ritornare al presente, iniziando la nostra auto osservazione. È bene ricordare che ciò che ha valore non è l’esercizio in sé, per cui quello che conta non è la nostra abilità o meno nel farlo. Ciò che conta è l’esperienza a cui l’esercizio ci introduce dal momento che ogni esercizio è una pratica di un pezzo della conoscenza contenuta nella psicologia della Quarta Via. L’esercizio è, in questo caso, solo un allarme che ci segnala che dobbiamo ricordarci di qualcosa di cui ci siamo dimenticati (essere presenti il più a lungo possibile); così, se qualcuno ci fa notare che ci stiamo dimenticando di fare un esercizio, non ha senso scusarci per la nostra mancanza, ma è più utile usare l’osservazione fattaci per tornare al presente, riprendendo lo sforzo di osservarsi.

Ancora una volta abbiamo fatto accenno alla necessità di compiere uno sforzo al fine di ricordarci di “essere nel presente”.  In cosa consiste tale sforzo e a cosa è indirizzato? Prima di tutto è giusto ribadire che lo scopo dell’essere nel presente è quello di osservare le nostre manifestazioni: cosa facciamo in determinate circostanze, le nostre reazioni agli stimoli, i nostri pensieri, i movimenti e gli stati emotivi. In sostanza la base di tali osservazioni, possibili solo se si è nel presente, è la nostra “macchina” e i suoi tre centri. Iniziando dalle osservazioni più semplici, quelle del centro motorio, passiamo poi ai nostri pensieri diventando consapevoli di cosa si sta occupando in un determinato momento il nostro centro intellettivo. In questo caso proviamo anche a ricostruire la catena di pensieri che ci ha condotto per associazione a quelli che stiamo facendo ora. Infine, passiamo a sentire il nostro centro emozionale, iniziando a chiederci semplicemente se stiamo in una condizione in cui proviamo piacere o di disagio, per poi imparare nel corso del tempo a fare differenziazioni più sottili dei nostri stati emotivi. Consideriamo che dal momento che questi tre centri sono sempre attivi, per ciò che riguarda le emozioni siamo sempre dentro uno stato emotivo. Non sempre tali stati emotivi sono simili a colori accesi e sgargianti; il più delle volte somigliano a tinte più tenui, ma non per questo capaci di influenzarci meno (provare una leggera irritazione, una sottile gioia, etc.).

Tutte le volte che ci ricordiamo di compiere questo sforzo, indirizziamo il nostro essere nel presente al riconoscimento dello stato in cui sono le nostre diverse parti, cercando di comprendere il legame che c’è tra le nostre manifestazioni con gli stimoli che riceviamo, considerandole così come risposte. Nelle fasi iniziali in cui compiamo lo sforzo di essere nel presente e, quindi, di osservare aspetti di noi, cerchiamo di non giudicare quanto osserviamo ma manteniamo un atteggiamento neutrale e limitiamoci a “registrare” il nostro funzionamento. Solo quando, con il tempo, avremo maturato per via delle osservazioni, dell’esperienza e della conoscenza un certo tipo di “visione” della realtà saremo in grado di contestualizzare i nostri giudizi, evitando che questi siano solo delle risposte meccaniche e automatiche. Solo in quella fase saremo in grado con oggettività di dare simili giudizi sui nostri comportamenti e potremo “fare” qualcosa volontariamente e non meccanicamente perché sarà per noi possibile avere un reale controllo su di noi. All’inizio queste capacità non esistono nell’individuo ordinario (che crede di averle) e esse devono essere costruite con un paziente lavoro.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 18: L’Essenza e la Personalità

Leggi sulla Consapevolezza

stati di coscienza

Gli stati di coscienza

Nell’uomo sono possibili quattro stati di coscienza, eppure l’individuo vive solo in due di tali stati, quello del sonno e quello della coscienza di veglia. Quest’ultimo, tuttavia, è ben lontano dall’essere caratterizzato da una piena e attiva consapevolezza di sé. In sostanza, è come se l’uomo pur possedendo una casa a quattro piani vivesse solo nei due piani inferiori…

Il lavoro su noi stessi al fine di giungere ad una piena consapevolezza di sé richiede un lungo percorso di auto osservazione. Nella precedente lezione abbiamo parlato di una “mappa” per poter orientare tale studio di noi stessi, centrando l’attenzione sui quattro centri in cui si divide il funzionamento di un individuo: il centro istintivo, quello motorio, quello emotivo e quello intellettuale. La parte pratica, che come sempre consiste nel calare nella nostra esperienza i pezzi di conoscenza con cui entriamo in contatto, era una esortazione a osservare queste quattro funzioni in noi, a percepire la loro perenne presenza nel nostro esistere. Sicuramente questa attenzione forzatamente portata su queste funzioni avrà anche acuito ulteriormente la consapevolezza di quanto siamo meccanici nel nostro vivere per cui per la maggior parte del tempo questi centri hanno una sorta di “pilota automatico” a guidarne il funzionamento. Un’altra utile mappa per orientare l’osservazione di noi stessi è quella relativa agli stati di coscienza. Gli individui, in generale, hanno la possibilità di fare esperienza di quattro diversi stati di coscienza, anche se ordinariamente essi vivono quasi sempre nei primi due.

Questa è la progressione degli stati di coscienza:
Il primo degli stati di coscienza è quello del sonno notturno vero e proprio. Si tratta di uno stato corporale totalmente passivo durante il quale riposiamo nel letto senza alcun movimento. In questo stato trascorriamo, più o meno, un terzo della nostra vita. É la condizione più bassa dei livelli di coscienza dal momento che in questo stato non ci rendiamo conto di quello che ci circonda e le funzioni dei centri sono al minimo. Solo vaghe impressioni penetrano dall’esterno verso i centri; si tratta di una condizione in cui versiamo in una totale immaginazione (i sogni)e identificazione (completa concentrazione su di sé) in cui non c’è alcuna intenzionalità. È uno stato totalmente soggettivo, in cui si susseguono a livello mentale immagini totalmente soggettive, frutto degli echi delle passate esperienze e di vaghe percezioni del presente (rare percezioni provenienti dall’esterno, sensazioni fisiche)

Il secondo degli stati di coscienza, quello della veglia, è la condizione in cui ogni persona trascorre la maggior parte della propria esistenza. In questo stato interagiamo con gli altri, pensiamo e parliamo, viaggiamo o leggiamo libri, considerandoci attivi, svegli e lucidi. É uno stato in cui l’individuo ha una maggiore consapevolezza di sé rispetto al sonno ma, comunque, è la condizione dell’uomo ordinario in cui non si esperisce una reale connessione con la propria esistenza e si conduce una mera vita funzionale. In genere le persone nutrono l’illusione di essere consapevoli di se stesse, contrapponendo questo secondo stato a quello del sonno di incoscienza e pensando di essere padrone di sé. In realtà, questa seconda condizione è lo stato in cui l’individuo è schiavo (inconsapevole) delle proprie risposte meccaniche, dei pensieri associativi e delle emozioni automatiche. Attraverso l’osservazione di sé si comincia a comprendere che i termini coscienza sveglia paiono essere inadeguati a descrivere lo stato in cui in realtà l’uomo vive ed agisce. Infatti, in questo stato chiamato di veglia l’uomo, per lo più, non ha coscienza di se stesso, conducendo per lo più un’esistenza “meccanica”. L’individuo nell’ordinario stato di veglia è caratterizzato da stati di costante identificazione, immaginazione (fantasticheria) e menzogna. Tale stato rimane caratterizzato da un vivere che si struttura secondo un accadere automatico senza nessuna intenzionalità da parte della persona. Nel percorso di lavoro su se stessi è di fondamentale importanza fare esperienza diretta di questa condizione dal momento che proprio da questa consapevolezza può nascere e prendere vigore il proponimento di “svegliarci” ad una piena consapevolezza di noi stessi.  Infatti, solo quando ci rendiamo conto di essere “addormentati” che possiamo dire di stare sulla strada del “risveglio” dal momento che può “svegliarsi” solo che avrà provato in precedenza l’esperienza del sonno. Nell’esistenza di ogni persona ci sono anni e anni di “vita sbagliata e stupida”, condotta compiacendo le proprie debolezze. Una vita fatta di sonno della consapevolezza, di ignoranza, di assenza di sforzo, di conveniente abitudine a farsi trasportare dagli avvenimenti, di abitudine a chiudere gli occhi rispetto a percepire le nostre reali qualità, di evitamento della lotta per contrastare i fatti sgradevoli, di costante abitudine a mentire a se stessi, di utilizzazione degli altri per propri fini e di attribuzione agli altri della colpa per le cose che ci accadono, di comode consuetudini come trovare difetti in chi ci circonda, giustificare se stessi. Un’esistenza in cui si è vuoti senza averne la consapevolezza.

Il terzo degli stati di coscienza è quello definito come coscienza di sé e viene raggiunto dall’individuo molto raramente in maniera accidentale. Questo terzo stato può essere evocato da situazioni che si configurano in una data circostanza come degli shock per la nostra vita psichica, rappresentati da momenti di grande paura o gioia. Quando una persona sperimenta questo stato di coscienza, si trova a vivere una consapevolezza più profonda di se stessa, arrivando a conoscere la verità su di sé. Quando si trova in questo stato di coscienza un individuo si vede con una visione “oggettiva” per quello che è, come se fosse in un film; esperisce la sensazione dell’essere “Io nel qui ed ora”. Questo stato è una condizione difficile da conservare nel tempo, di solito dura molto poco e, spesso, se ne ha sentore solo accidentalmente. Questo terzo stato, per quanto possa arrivare in maniera accidentale, affinché rappresenti una evoluzione del nostro essere dovrà essere costruito grazie ad un lavoro intenzionale per mezzo di sforzi coscienti. Questo terzo stato è anche definito come quello del Ricordo di Sé, in cui l’individuo è presente a se stesso mentre vive; in cui si ricorda di sé sciogliendosi da stati di totale identificazione con le situazioni in cui si trova. È dato dalla capacità di “fare un passo indietro” da se stesso e dalle circostanze in essere, assumendo una visione di ciò che accade. In generale, l’uomo crede di essere in possesso di tale stato e ritiene di avere sempre la percezione di sé, illudendosi di agire pensare e sentire con una piena coscienza di ciò che sta facendo. Ma in realtà l’uomo non possiede tale stato di coscienza; non è uno stato a cui si accede spontaneamente e non lo si può avere semplicemente perché lo si desidera raggiungere. Tuttavia, questo stato di coscienza è nelle potenzialità dell’essere umano e non lo si possiede a causa delle condizioni errate con cui viene condotta la vita. In condizioni ordinarie questo stato di coscienza, come già ricordato, si sperimenta solo in rare circostanze e dunque casualmente, diventando uno strumento inutilizzabile coscientemente per ampliare volontariamente la coscienza che abbiamo di noi.

Il quarto degli stati di coscienza è quello definito come coscienza oggettiva. In questo stato, che si può raggiungere solo dopo aver avuto esperienza del terzo stato, l’individuo riesce a vedere le cose realmente per come sono e per questo se non adeguatamente preparata tale visione potrebbe non essere compresa.

Come sempre, ad ogni lezione finalizzata a mettere insieme “pezzi” di conoscenza, deve accompagnarsi una parte esperienziale che ci faccia sentire e provare quanto abbiamo letto. In questo caso vi invitiamo a continuare a fare esperienza del vostro essere meccanici e quindi del fatto che il nostro stato di coscienza nella veglia è sempre molto relativo. Nel momento in cui vi trovate a fare dei pensieri o a sperimentare uno stato d’animo chiedetevi cosa lo ha determinato e se siete voi a gestirlo. Vi accorgerete che il più delle volte pensieri ed emozioni semplicemente “accadono” e che, soprattutto sono spesso loro ad avere un proprio corso senza che voi abbiate voce in capitolo (notate questo soprattutto con quelle che sono le emozioni negative). Ricordate che il lavoro su se stessi dipende dallo sforzo e si basa sullo sforzo. Quindi siate forti e resistenti con le voci interiori che vogliono boicottare queste auto osservazioni. Inoltre, tenete a mente che quello che un individuo è, è dato dalla sua comprensione.

stati di coscienza

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logicadegli argomenti.

Leggi la Lezione n. 5

Leggi sugli stati di coscienza