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Le emozioni per Eugenio Borgna

Le emozioni sono come un sottofondo che accompagna tutta la nostra vita, ma nonostante questa loro naturalezza spesso è più difficile esprimerle rispetto a quanto facciamo con i nostri pensieri. Eugenio Borgna con il suo linguaggio sensibile riesce a parlare di questo sottofondo con impagabile maestria.

“Ogni nostra emozione, la paura e l’angoscia, l’insicurezza e l’inquietudine, la rassegnazione e l’indifferenza, la tristezza e lo sconforto, il taedium vitae e lo smarrimento, la gioia e la speranza, cambia in noi il modo di essere-nel-mondo: il modo di incontrarci con gli altri e con noi stessi. In ogni nostra emozione non cambiano solo gli scenari della nostra vita interiore ma anche quelli del mondo in cui siamo immersi. Cambiano i colori del mondo e le sue luci, le sue ombre e i suoi crepuscoli, i suoi bagliori e i suoi silenzi. Cambia insomma la fisionomia del nostro mondo, e cambia la fisionomia del mondo di chi stia male, in particolare, quando le emozioni dilagano nei cuori. Così, se vogliamo conoscere meglio la vita emozionale dei pazienti, è utile cercare di conoscere come i pazienti vivano, e descrivano, il loro mondo. Nella tristezza il mondo si inaridisce, e si svuota di risonanze coloristiche, si oscura e si fa lontano; mentre nella gioia il mondo diviene luminoso e talora sgargiante quando la gioia è la gioia panica (…).Ridiscendere negli abissi della nostra vita interiore, e riguardare i volti, e le voci, delle emozioni che vivono e gridano in noi, e negli altri-da-noi, significa anche riconoscere quali siano le immagini del mondo che ad ogni emozione si accompagnano in noi e negli altri-da-noi.”

COMMENTO: Le emozioni nella loro essenza aprono la nostra esperienza ad orizzonti nuovi e poco esplorati dalla nostra vita razionale. Esse parlano di che cosa accade nella nostra psiche, nella nostra vita interiore; ma, al tempo stesso, segnalano qual è il rapporto che abbiamo con la vita al di fuori da noi, con gli oggetti e le persone che sono nel mondo. Le emozioni sono una risposta immediata in noi all’esperienza che stiamo vivendo sia che riguardi qualcosa che accade dentro di noi, sia nella realtà esterna. Esse hanno spesso una vita apparentemente autonoma rispetto a noi: alcune di esse non possono essere cancellate o tenute sotto controllo; alcune hanno un carattere inafferrabile, altre sono incontrollabili per cui l’unica cosa che ci è concessa è quella di viverle. Per quanto ne facciamo poco uso, esiste tra le nostra facoltà anche una conoscenza frutto delle emozioni, che spesso ci porta al cuore delle esperienze, e non solo quella razionale. Come ricorda Eugenio Borgna la gamma delle emozioni è infinita: “l’ansia, l’inquietudine dell’anima, la tristezza, la nostalgia, la vergogna, la serenità, la gioia, l’ira, che a volte si sovrappongono, e si intrecciano, e a volte si manifestano nella loro autonomia semantica”. Ogni volta che sperimentiamo una emozione siamo costretti al confronto con qualcosa che va al di là di noi stessi, con la parte di noi meno nota (alter ego) ma anche con situazioni, persone o oggetti (interni o esterni) che sono comunque oltre la nostra individualità.

C’è poi da rilevare che le emozioni hanno un tempo che si mostra in alcune emozioni come la nostalgia, la noia, l’attesa e la speranza. Stiamo parlando non del tempo oggettivo degli orologi ma del tempo soggettivo del vissuto: “il tempo interiore della speranza è il futuro come quello dell’attesa, il tempo interiore della nostalgia e della tristezza è il passato, benché con incrinature diverse, il tempo della gioia è il presente così friabile e così inafferrabile, il tempo dell’ira è il presente dilatato, e deformato, in slanci di aggressività, il tempo dell’ansia è il futuro: un futuro che si rivive come già realizzato nelle ombre dolorose di una morte vissuta come imminente.”

Le emozioni rappresentano una parte fondamentale della nostra esistenza anche se la dimestichezza con questa dimensione della nostra psiche è minore rispetto a quella che abbiamo nei confronti del pensiero espresso tramite il linguaggio. Infatti, al contrario dei pensieri le emozioni non sono ben espresse dalle parole, per cui non solo facciamo fatica a esprimerle ma anche a conoscere la loro dimensione profonda. Proprio la comunicabilità delle emozioni è un aspetto difficile di questa dimensione della nostra vita. Come ricorda Borgna: “quando diciamo di avere “dolore”, “angoscia”, o “piacere”, non sentiamo tutti la stessa cosa, e non siamo talora nemmeno in grado di descrivere queste emozioni.” Così le emozioni destano molti enigmi, anche se ad esse viene dato molto più spazio oggi che nel passato. Per quanto apparentemente antagoniste fra loro le esperienze razionali e quelle emotive costituiscono un tutt’uno nella nostra vita e solo chi sa ascoltare le proprie emozioni “può realizzare cose “ragionevoli”.

Eugenio Borgna, Le emozioni ferite. Feltrinelli

Leggi altri pensieri di Eugenio Borgna: Interiorità, una riscoperta difficile

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preoccupazione

La preoccupazione: cosa fare?

La preoccupazione è un’afflizione che inquina la nostra mente, rendendola prigioniera di pensieri ed emozioni negative. Come affrontare le preoccupazioni inutili, da distinguere da quelle oggettive? la risposta è sempre la stessa, ricorrendo all’uso di quel potente strumento nel lavoro su se stessi rappresentato dall’auto osservazione. Scopriamo come…

Quando iniziamo a lavorare su noi stessi, l’auto osservazione è la pratica di base da cui partire in quanto capacità fondamentale per l’acquisizione della consapevolezza di sé. Una questione importante che deve essere sottolineata è su cosa debba essere focalizzata tale auto osservazione. La risposta a tale domanda è semplice: l’osservazione di sé deve avere come riferimento le tre parti che compongono la “macchina” umana, ossia i nostri tre centri di funzionamento, quello motorio, quello emozionale e quello intellettivo. Ognuna di queste tre parti è come se rappresentasse un nostro differente Io. Così l’osservazione va portata sul nostro Io motorio (cosa fa il nostro corpo), sull’Io emozionale (cosa sentiamo, in quale stato emotivo ci troviamo) e sull’Io intellettivo (cosa pensiamo e cosa immaginiamo).

L’osservazione di noi stessi ci permetterà di “prendere contatto” con quella parte di noi, invisibile agli altri e percepibile solo individualmente, chiamata “se stesso”; questo aspetto del nostro essere in genere tendiamo a darlo per scontato, incappando così nel comune errore di pensare di conoscerci, quando invece ciò che sappiamo di noi è spesso solo in frutto di idealizzazioni o immaginazione. Focalizzare l’osservazione di sé sul funzionamento di questi tre centri ci permette di comprendere prima di tutto che noi, in un dato momento, non siamo un solo Io, così come non siamo una sola persona nel corso del tempo dato che manifestiamo spesso, nostro malgrado, in situazioni diverse volontà addirittura in contrasto fra loro o che si contraddicono. Questi tre centri su cui portare la nostra attenzione nel corso dell’osservazione di noi stessi lavorano simultaneamente: infatti, abbiamo in ogni momento delle nostra esistenza pensieri, emozioni e movimenti, che altro non sono che la risultante del funzionamento del Centro Intellettuale, del Centro Emozionale e del Centro Motorio. Questi tre aspetti noi – questi tre Io – pur lavorando simultaneamente sono del tutto diversi tra loro. Dunque, nell’auto osservazione finalizzata nelle fasi avanzate del lavoro su se stessi all’auto controllo, dobbiamo ricordare sempre che in noi c’è sempre “qualcosa” che pensa, sente e si muove.

Facciamo un esempio prendendo un “banale” comportamento motorio come aggrottare le ciglia. In base alla tripartizione della “macchina” umana esso è il risultante del funzionamento del Centro Motorio. L’accigliarsi è, tuttavia, concomitante alla manifestazione da parte del Centro Emozionale di un sentimento quale l’inquietudine oppure di uno stato di pensosità. Al tempo stesso queste manifestazioni dei due Centri si accompagnano al funzionamento del Centro Intellettuale nella forma di una serie di pensieri o immagini che si affacciano alla nostra mente. Così, come si evince da questo esempio una piena osservazione di noi stessi deve abbracciare tutte e tre le manifestazioni dei nostri Centri, cogliendo non solo la meccanicità di certi schemi per via associativa ma anche la simultaneità del loro funzionamento. Ad esempio, se avvertiamo in noi uno stato di tristezza, passiamo ad osservare quali pensieri stiamo facendo e che la alimentano; così come spostiamo l’attenzione sul nostro corpo e facciamo caso a “come siamo” quando siamo tristi.

Avventuriamoci ora, avendo chiarito questo aspetto nell’osservazione di noi stessi, nel prendere in considerazione una delle maggiori afflizioni con cui un individuo “tortura” se stesso: la preoccupazione. Per prima cosa è doveroso riconoscere che essa, al pari di molti altri stati d’animo negativi, prende forma quando siamo identificati con tutta una serie di pensieri e immagini prodotte dalla nostra mente. Ricordiamo che il meccanismo dell’identificazione comporta che la persona che ne è “vittima” diventi un tutt’uno con la situazione interiore (ma può accadere anche con eventi esterni che ci “catturano”) che sta vivendo, incapace di prendere le distanze da se stessa e poter dire “io non sono questa cosa che sto provando”. Quando siamo in preda alla preoccupazione ci sentiamo lacerati, oppressi e psicologicamente ritorti su noi stessi. Spesso mentalmente rimuginiamo e “rimestiamo” continui pensieri negativi su possibili conseguenze sfavorevoli e avverse, tant’è che uno dei segnali esteriori della nostra preoccupazione è il “torcersi le mani” o comunque il loro sfregamento. Ricordiamo, infatti, che ogni stato psicologico ha la sua manifestazione anche attraverso il funzionamento del Centro Motorio che, nel caso degli stati d’animo, si concretizza in certi specifici movimenti o tipiche posture. Così è facile osservare che quando siamo preoccupati tormentiamo le mostre mani, oppure ci mordicchiamo le labbra, o ancora il nostro sguardo vaga senza guardare. In generale gli stati d’animo negativi come i timori, l’ansia o la depressione tendono a manifestarsi nel nostro comportamento con tensioni e contrazioni muscolari, flessione e ripiegamento del capo o delle spalle, talvolta anche con una debolezza dei muscoli. Al contrario gli stati d’animo positivi non si manifestano in questo modo: in genere il funzionamento del Centro Motorio si caratterizza per  espansione ed estensione delle membra, comportamenti erettivi, rilassamento muscolare e da una sensazione di forza.

Apprendere a osservarsi ci metterà nella condizione di fare caso a queste manifestazioni comportamentali che segnalano uno stato di preoccupazione. In questo modo potremmo, prima di tutto, accorgerci di essere preoccupati quando magari non ci siamo ancora resi conto dei pensieri negativi che stiamo “ruminando”. Ma soprattutto essere coscienti di questi comportamenti del nostro Centro Motorio può far sì che noi iniziamo ad agire su di essi per contrastarli: smettere di aggrottare le sopracciglia e la fronte, decontrarre la bocca serrata, rilasciare i pugni chiusi e in generale smettere di trattenere il respiro e provare a rilasciare i muscoli. queste semplici operazioni opereranno uno spostamento della nostra attenzione e quindi un allentamento della nostra identificazione con le emozioni e i pensieri negativi.

Abbiamo detto poco più sopra che in ogni momento la nostra “macchina” contempla il funzionamento di tutti e tre i Centri che compongono la nostra persona. Di questi tre Centri il più difficile da controllare e gestire è quello emozionale specie per la sua rapidità di funzionamento. Nel lavoro su noi stessi esso viene paragonato ad un elefante “birbante” perché non addomesticato, ma affiancato ai lati da altri due elefanti addomesticati (il Centro Intellettuale e quello Motorio). Il primo passo, come sempre, è quello di avere coscienza, tramite l’osservazione di sé, della presenza in noi di uno degli stati emotivi negativi, ossia di quelle condizioni abituali ma non meno dannose come la preoccupazione, la noia, l’ansia, etc. Avere maturato l’abitudine ad osservarsi è fondamentale perché proprio questa dimestichezza con noi stessi ci dà quella sensibilità tale da farci rendere conto di tali stati di cui facciamo fatica a percepirne la presenza proprio perché sono per noi abituali. A questo punto possiamo utilizzare uno dei due elefanti addomesticati per “educare” quello birbante (Centro emozionale) data la difficoltà che le persone hanno ad affrontare direttamente le emozioni. Provare a usare il Centro Intellettuale, in questo caso, significa osservare il flusso dei pensieri e delle immagini che si susseguono nella nostra mente mentre siamo preoccupati. L’atto stesso di osservare questa produzione mentale ci fa prendere le distanze dalle preoccupazioni che stavamo ruminando e ci fa rendere conto come “giochiamo” con questi pensieri, usandoli come piccoli mattoncini con cui costruiamo il muro della preoccupazione. Osservare questa azione di volontaria manipolazione di tali pensieri ci aiuta a disidentificarci con la preoccupazione, riuscendo a cogliere l’oggettività della situazione (molte preoccupazioni sono il frutto di una immaginaria anticipazione di situazioni negative) e a valutarla con razionalità. Lentamente usando la nostra volontà possiamo arrivare a fermare la parte di noi che pensa la preoccupazione, compiendo un’operazione simile a quando abbiamo a che fare con un fuoco (la preoccupazione): questo si spegnerà se noi smettiamo di gettarci dentro della legna (i pensieri preoccupanti).

L’altro elefante addomesticato che possiamo utilizzare esercitando su di esso la nostra volontà è il Centro Motorio. Come detto in precedenza potremmo mettere in atto una serie di esercizi per rilassare e decontrarre i muscoli iniziando da quelli del viso, dell’espressione, degli occhi, della bocca, etc. Riprendiamo però per un attimo il tema della preoccupazione. È bene precisare che per quanto essa sia sempre uno stato emotivo negativo, bisogna fare una distinzione tra preoccupazioni oggettive e immaginarie. Oggettive sono quelle preoccupazioni  che possiamo provare quando siamo inquieti per la salute di una persona cara malata oppure perché dobbiamo affrontare una prova difficile e per noi significativa. Immaginarie sono quelle preoccupazioni costruite sull’immaginazione negativa e sui pensieri  avversi; un miscuglio di menzogne a cui dedichiamo tempo, basate su pochi fatti che ci raccontiamo.

Dunque, non dobbiamo ritenere che la situazione opposta alla preoccupazione sia l’indifferenza. Come detto, è lecito sentirsi in ansia per una persona in stato di pericolo, sperimentando un insieme di speranza e timore. Ma la preoccupazione di cui stiamo parlando e che ci affligge per molto tempo della nostra giornata, è ben diversa perché con l’entrata in gioco dell’immaginazione, essa si trasforma in abitudine fino a far sì che le persone ritengano meritevoli preoccuparsi di tutto.

Nella preoccupazione frutto dell’immaginazione non esiste per i nostri pensieri che si affastellano nella nostra mente un centro di gravità: non c’è per essi né una direzione né un obiettivo chiaro. Pensieri ed emozioni si susseguono senza un ordine, fluttuando nella nostra mente. Non sempre è facile smettere di preoccuparsi, data l’esistenza di situazioni in cui non è quasi possibile farlo. Eppure esiste una condizione, una tendenza abituale che porta le persone ad essere preoccupate per ogni cosa, cogliendo ogni avvenimento come motivo di preoccupazione e occupando con questi timori molto tempo della propria giornata. Contrariamente a quello che si possa pensare, preoccuparsi non vuol dire pensare ma significa spingere la nostra mente in uno stato emozionale confuso e oscurare ulteriormente il nostro pensiero. La preoccupazione non ci porta a prestare attenzione a qualcosa, operazione questa che ci aiuterebbe in ogni caso, ma ci spinge sempre più ad identificarci con i pensieri e le emozioni che la sostengono.

Infine una ultima osservazione che possiamo far partire dalla seguente domanda: la preoccupazione serve a qualcosa? La risposta è no e sì. No, perché la preoccupazione in quanto esperienza in sé porta in basso il nostro Essere e fuori dal nostro controllo. Si, perché nell’imparare a vivere dal punto di vista del lavoro su di sé,  la preoccupazione è un’esperienza che se vissuta consapevolmente ci offre l’opportunità di comprendere il modo in cui funziona la nostra “macchina” e l’occasione di agire su di noi andando contro la natura degli automatismi di tale macchina, per sviluppare il nostro Essere. La vita, in generale, è una immensa opportunità di crescita a patto che tra noi e la vita ci sia lo sforzo del lavorare su di sé. Solo in questo modo la preoccupazione come esperienza vissuta ci può far vedere qualcosa di noi stessi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 35: Le due linee dell’esistenza

Leggi articolo su: Come smettere di preoccuparsi

centri

I centri della mente: come funziona l’essere umano

La macchina Umana si suddivide in quattro centri – istintivo, motorio, emozionale e intellettuale – ognuno con uno specifico funzionamento. Chiunque voglia svolgere un lavoro su se stesso deve apprendere a conoscersi attraverso la percezione di come funzionano queste parti del proprio essere.

La possibilità di sviluppare un livello di consapevolezza di sé poggia su un attento studio della propria persona e per far questo bisogna sapere cosa osservare in maniera ordinata. Così lo studio di sé deve partire dall’osservazione delle quattro funzioni principali in cui si sostanzia il funzionamento del nostro organismo/mente. La prima cosa che si deve fare riguardo al lavoro pratico su di sé è osservare le differenze nei  quattro centri che esistono nell’uomo e come stanno lavorando questi centri in un dato momento. Ma partiamo dall’individuazione di queste quattro funzioni. La macchina umana è composta da quattro parti che, nel sistema della psicologia basata sulla Quarta Via, sono definite come centri. Esse hanno a che fare con  differenti funzioni rispetto alla vita interiore ed esteriore dell’individuo. Questi centri sono:

  • il centro istintivo, da cui dipende il funzionamento biologico dell’organismo. Tale centro agisce automaticamente nel mantenere in uno stato di equilibrio fisiologico l’essere vivente.
  • il centro motorio, che si occupa della gestione delle funzioni motorie esteriori volontarie. La differenza tra le funzioni istintive e motorie è chiara e facile da comprendere: le prime sono innate e non dobbiamo impararle per poterle utilizzare; le seconde devono essere acquisite tutte quante, così come un bambino deve apprendere a camminare.
  • il centro emozionale, che gestisce la vita emotiva dell’individuo. Nel suo funzionamento tale centro, rispetto agli altri tre, è il più veloce.
  • il centro intellettuale, che ha a che fare con il pensiero. Esso è il più lento di tutti i centri ed è il primo con cui iniziare a lavorare su noi stessi. Tutti gli uomini compiono un qualche tipo di lavoro intellettuale. Ogni “pensiero” che richiede una dose di attenzione ci colloca nella parte cosciente del centro intellettuale; così accade quando cerchiamo di pensare a qualcosa che abbiamo ascoltato e cerchiamo di ricordarlo, quando leggiamo un libro, quando scriviamo una lettera e facciamo dei conti, ecc. Nel lavoro su di sé è importante far funzionare il proprio “cervello” tutti i giorni. Il pensare genuinamente è una cosa che richiede uno sforzo e, purtroppo, le persone fanno ciò raramente.  Quando si consiglia, durante il lavoro su se stessi, di far “funzionare il cervello” una volta al giorno, vuol dire compiere un vero sforzo di pensiero. Infatti, ciò che comunemente chiamiamo pensiero è un semplice pensare automatico, un fluire di associazioni, un’accozzaglia di idee vaghe e ricordi che si susseguono, solo occasionalmente interrotti per usare consapevolmente il pensiero.

Come si può dedurre da queste brevi descrizioni dei centri, ognuno di essi ha una propria sfera di azione anche se tutti quanti insieme partecipano ad ogni nostro comportamento; inoltre, ogni centro ha modalità proprie di sviluppo che possono procedere anche differentemente. Così possiamo incontrare persone che hanno sviluppato molto la propria funzione emotiva mentre altre quella intellettiva. Rispetto alla consapevolezza, ad eccezione di quello istintivo, i centri possono funzionare in diverse maniere, più o meno coscientemente: così potremo avere pensieri, emozioni e compiere azioni in maniera consapevole, oppure in modo del tutto incosciente. Ciascun centro è poi diviso in una metà positiva e in una metà negativa, e tale accezione non è da intendersi in termini morali, ma solo come dicotomia funzionale nel senso di affermazione/negazione, si/no, azione/non azione. Per esempio, in riferimento al centro intellettuale la metà positiva è la parte che afferma, quella negativa è la parte che nega. La parte negativa del centro intellettuale entra in funzione quando pensiamo “no”, quando neghiamo. Al contrario la parte positiva del centro intellettuale si manifesta quando si pensa “sì”, quando si afferma. Per il corretto funzionamento del centro intellettuale sono necessarie entrambi i lati, per cui senza la parte negativa sarebbe impossibile pensare. Infatti pensare vuol dire confrontare una cosa con un’altra, dunque se avessimo come strumento di pensiero solo l’affermazione, non sarebbe possibile fare confronti. I problemi nascono quando tra questi due lati del centro intellettuale si viene a creare uno squilibrio. Per molte persone è facile dissentire, ossia usare abitualmente la parte negativa del centro. Usare abitualmente il dissentire, la disapprovazione, la denigrazione, lo screditare, ecc., vuol dire utilizzare il centro negativo senza fare confronti. Sicuramente un individuo che pensa così andrebbe evitato perché cerca di distruggere tutto ciò che gli viene detto. Questo funzionamento troppo spostato sul lato negativo equivale ad un uso sbagliato del centro. D’altra parte anche una persona che pensi solo utilizzando il lato positivo farà fatica a comprendere i principi del lavoro su di sé perché non avrà sperimentato il conflitto e la lotta fra le parti negative e positive e, quindi, non potrà lottare e impegnarsi per superare questi attriti.

Per il centro motorio la suddivisione riguarda la lo stato di moto o di staticità del nostro organismo. Nel centro emozionale la divisione positivo/negativo è più particolare: infatti quelle che definiamo come emozioni negative (rabbia, odio, aggressività, etc.) non sono proprie di questo centro, ma si tratta di stati emotivi acquisiti tramite l’educazione e per imitazione (atteggiamenti appresi). Dedicheremo alle emozioni negative una apposita trattazione perché imparare a disinnescarle è una importante parte del lavoro su se stessi. Senza esagerare possiamo dire che il centro emozionale raramente funziona in forma corretta, a causa dell’azione delle emozioni negative, generate come una sorta di infezione dal nostro vivere. Possiamo assistere oggi al fenomeno per cui sono proprio le emozioni negative a governare la vita, e le persone si aggrappano sempre di più ad un immaginare negativo piuttosto che ad altre cose. La vera parte negativa del centro emozionale è quella che ha a che fare con il dolore che sperimentiamo in occasione di particolari sofferenza reale, come ad esempio il lutto per una persona cara. É utile sottolineare che quando iniziamo a studiare noi stessi attraverso l’osservazione di sé non osserveremo fisicamente e direttamente i centri, bensì le loro funzioni, ossia le loro particolari espressioni così come si manifestano nella nostra esistenza esteriore ed interiore. Più osservazioni saremo in grado di accumulare maggiore sarà la consapevolezza che avremo a disposizione e più grandi saranno le possibilità che avremo di controllare l’espressione di questi centri. Ogni manifestazione dei nostri centri (ad eccezione forse di quello istintuale) può essere gestita nel momento i cui avremo imparato a conoscerla, quando saremo in grado di riconoscere in che modo le varie funzioni si manifestano in risposta ad un certo stimolo ed a certe condizioni. Questo ci darà modo non solo di capire meglio il funzionamento della nostra macchina ma anche di saper “prevedere” quali condizioni esteriori generano certe nostre espressioni, dunque ad apprendere a gestire anche il nostro rapporto con le circostanze esterne a noi.

Qualche lettore potrebbe trovare “noiose” queste descrizioni di come funziona l’essere umano ad un livello ordinario e, soprattutto, potrebbe essere portato a intravedere poco l’utilità di un lavoro centrato sull’osservazione di “cose così ovvie”. Tuttavia ogni grande impresa richiede dei preparativi che si basano su azioni apparentemente noiose ma che si rivelano prerequisiti indispensabili e in grado di portarci successivamente  al compimento dell’opera. Come spesso si ricorda nel lavoro su se stessi: la gente quando si ripropone di arrivare ad una meta, cerca di correre prima ancora di saper camminare. Dunque se avete manifestato a voi stessi l’intenzione di lavorare sulla vostra consapevolezza provate a seguire le indicazioni di queste lezioni, senza boicottare la vostra volontà con confortevoli obiezioni che però vi fiaccano.  Il lavoro su se stessi funziona solo se fatto volontariamente e non perché qualcuno impone di farlo. Lavorare su se stessi di mala voglia o per prestigio, è una cosa; lavorare su di sé perché c’è qualcosa che non va e si desidera cambiare, è un’altra cosa.

Per ciò che riguarda la parte pratica di questa settimana, ci rifacciamo direttamente alle parole di P.D. Ouspensky: “In determinati momenti della giornata, dobbiamo cercare di vedere in noi stessi cosa pensiamo, come sentiamo, come ci muoviamo e così via. In un certo momento vi potete concentrare sulla funzione intellettuale, in un altro su quella emozionale, poi sull’istintiva o sulla motoria. Per esempio cercate di scoprire cosa state pensando, perché lo pensate e come lo pensate. Cercate di osservare le sensazioni fisiche quali il calore, freddo, ciò che vedete, ciò che sentite. Allora, ogni volta che fate un movimento potete vedere come vi muovete, come sedete, come state ritti, come camminate e così di seguito. Non è facile separare le funzioni istintive, perché nella psicologia ordinaria essere sono confuse con quelle emozionali; ci vuole tempo per metterle a posto.”

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logicadegli argomenti.

Leggi lezione n. 1Lezione n. 2Lezione n. 3Lezione n. 4

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L’attacco di panico e le emozioni represse

L’ attacco di panico ha una funzione di “rottura” rispetto alle abitudini sicure ma anestetizzanti. L’ attacco di panico. Fa emergere forze inespresse, gesti mai compiuti, desideri irrealizzati che spuntano nella crisi. Raffaele Morelli, “Vincere i disagi”, RIZA

Cos’è il panico? – Diversamente descritto e connotato, è sempre esistito, anche se ancora oggi molti non lo codificano come un disturbo specifico poiché i suoi sintomi, psichici e somatici, sono troppo variegati e spesso ricollegabili a fenomeni d’ansia. Tuttavia, molti concordano nel definirlo come una sindrome acuta e cronica che costituisce, insieme all’ansia e alla depressione, una delle tre maggiori cause di invalidità individuale e sociale. Varie e sfaccettate sono dunque le interpretazioni del panico e delle sue cause, offerte nel corso dei secoli da filosofi, psicanalisti e studiosi del cervello appartenenti a scuole, culture e orientamenti diversi, che lo hanno descritto attraverso l’analisi della sua sintomatologia. Va però ricordato che è a partire dagli anni Venti che l’ attacco di panico viene discusso e trattato come un disturbo psichiatrico. E solo negli anni Sessanta e Settanta si è iniziato a studiarlo in modo sistematico. Infine, negli anni Ottanta è stato poi riconosciuto come una categoria clinica a sé.

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Leggi articolo su: Riconoscere l’ansia

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Emozioni distruttive : cosa sono, cosa fare

Le emozioni distruttive inquinano la nostra mente. Per cui le emozioni distruttive sono da evitare perché ci impediscono di vedere realmente le cose per come sono. La prospettiva della psicologia buddhista apre sulle emozioni distruttive una interessante prospettiva di lavoro. Dalai Lama e Daniel Goleman, Emozioni distruttive, Oscar Mondadori

Il primo obiettivo affrontato da Matthieu fu lo iato tra il termine inglese e quello buddhista per definire il concetto di emozione. Fece notare che «emozione» è un termine molto generico. L’inglese «emotion» deriva dalla radice latina emovere – l’idea di qualcosa che mette la mente in movimento verso un’azione che può essere dannosa, neutra o positiva. «Nel contesto del buddhismo, invece, si chiama emozione qualcosa che condiziona la mente, facendole adottare un certo punto di vista o visione delle cose. Non è necessariamente un riferimento a uno scatto emotivo verificatosi all’improvviso nella mente, che è forse quanto di più vicino a ciò che gli scienziati studiano come emozione. Il buddhismo considera un evento del genere un’emozione grossolana, come quando una persona è evidentemente arrabbiata, triste o in preda a un’ossessione.» Per chiarire ulteriormente questa distinzione cruciale tra la concezione buddhista e quella occidentale delle emozioni, Matthieu offrì una panoramica estremamente concisa della questione, affrontandola dal punto di vista della psicologia buddhista. Cominciò descrivendo un parametro molto diverso da quello usato in Occidente per identificare un’emozione come distruttiva: essa è tale non tanto se provoca danni evidenti ma se ne provoca uno ben più sottile, e cioè se distorce la percezione della realtà. «Come si distinguono le emozioni costruttive da quelle distruttive in una prospettiva buddhista?» continuò. «In linea di massima, un’emozione distruttiva – alla quale ci si riferisce anche come a un fattore che “oscura” o “affligge” – è qualcosa che impedisce alla mente di riconoscere la realtà per quello che è. In presenza di un’emozione distruttiva, ci sarà sempre uno iato tra apparenza ed essenza delle cose.

Continua a leggere su: Dalai Lama e Daniel Goleman, Emozioni distruttive, Oscar Mondadori

Leggi articolo: Autocontrollo, dialogare con le emozioni

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Autocontrollo : dialogare con le emozioni

L’ autocontrollo o padronanza di sé è un requisito fondamentale in tutte le relazioni. Autocontrollo non significa soffocare le emozioni – anche quelle negative – ma saper scegliere come manifestarle e utilizzarle. Daniel Goleman sfata i falsi miti sull’autocontrollo proponendo un rapporto costruttivo con le nostre emozioni.
Daniel Goleman, Lavorare con l’intelligenza emotiva. BUR

La padronanza emotiva (autocontrollo) comprende non solo la capacità di smorzare il disagio o di soffocare l’impulso; significa anche saper evocare intenzionalmente un’emozione, magari spiacevole. Mi hanno raccontato che alcuni esattori, prima ci chiamare le persone rimaste indietro con i pagamenti, si «caricano» stimolando in se stessi uno stato di irascibilità e stizza. I medici che devono dare cattive notizie ai pazienti o alle loro famiglie fanno la stessa cosa, calandosi in uno stato d’animo appropriatamente cupo e malinconico, proprio come fanno gli impresari di pompe funebri quando trattano con i familiari in lutto. Nel settore del commercio al dettaglio e dei servizi, l’esortazione ad essere amichevoli con i clienti è virtualmente universale.
Una scuola di pensiero sostiene che, quando per conservarsi il posto chi lavora deve manifestare una data emozione, si vede imporre un faticoso «lavoro emozionale». Quando le emozioni che una persona deve esprimere sono determinate dalle istruzioni di un superiore, il risultato è un’estraniazione dai propri sentimenti. Commesse, hostess e personale alberghiero appartengono ad alcune delle categorie di lavoratori soggette a questo tentativo di controllo del cuore, che Arlie Hochschild, sociologo dell’Università della California di Berkeley, definisce «commercializzazione dei sentimenti umani», equivalente a una forma di tirannia emotiva.
Un esame più attento rivela come questa prospettiva sia solo parziale. Un fattore critico nel determinare se il lavoro emozionale sia o meno gravoso è la misura in cui la persona coinvolta si identifica nel proprio ruolo. Per un’infermiera che si consideri interessata agli altri e compassionevole, impiegare qualche istante a consolare un paziente che soffre non rappresenta un peso ma è proprio ciò che rende più significativo il suo lavoro.

Continua a leggere su: Daniel Goleman, Lavorare con l’intelligenza emotiva. BUR

Leggi articolo: Emozioni, l’altra parte di noi
Leggi articolo: Sviluppare il proprio autocontrollo

Empatia : il nostro radar sociale

Cosa è l’ empatia e come funziona? Ce lo spiega Daniel Goleman, lo psicologo americano che per primo ha sottolineato l’importanza dell’intelligenza emotiva.
Daniel Goleman, Lavorare con l’intelligenza emotiva. BUR

Come osservava Freud, «i mortali non sanno mantenere segreti. Se le loro labbra sono silenziose, spettegolano con la punta delle dita; il tradimento si fa strada attraverso ogni poro della pelle». Il nervoso e inquieto agitarsi di un negoziatore smentisce la sua espressione impassibile; lo studiato disinteresse di un cliente che mercanteggia sui prezzi da un concessionario di automobili è contraddetto dall’eccitazione con cui gravita intorno alla convertibile che desidera con tutto se stesso. Saper cogliere queste spie emotive è particolarmente importante in situazioni in cui le persone hanno ragione di nascondere le loro vere emozioni – una cosa comune nell’ambiente degli affari e del lavoro.
L’essenza dell’empatia sta pertanto nel cogliere quello che gli altri provano senza bisogno che lo esprimano verbalmente. In effetti, è raro che gli altri ci dicano esplicitamente che cosa provano; piuttosto, ce lo comunicano con il tono di voce, l’espressione del volto, o in altri modi non verbali. L’abilità di captare queste comunicazioni impercettibili si fonda su competenze più fondamentali, soprattutto sulla consapevolezza di sé e sull’autocontrollo. Come vedremo, se non siamo capaci di percepire i nostri sentimenti o di impedire che essi ci sommergano, non avremo alcuna speranza di entrare in contatto con gli stati d’animo degli altri.
L’empatia è il nostro radar sociale. Un’amica mi racconta di essersi accorta molto presto dell’infelicità di una collega. «Andai dal mio capo e dissi, “C’è qualcosa che non va con Kathleen – non è felice qui”. Non mi guardava più negli occhi, aveva smesso di mandarmi i suoi soliti messaggi spiritosi via e-mail. Dopo un po’ annunciò che se ne andava a lavorare da un’altra parte.»
Quando mancano di questa sensibilità, le persone sono «fuori». Essere sordi emotivamente si traduce nella goffaggine sociale, che può derivare da un’errata interpretazione dei sentimenti, da una ottusità meccanica e desintonizzata, o dall’indifferenza che può distruggere un rapporto.

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Emozioni : l’altra parte di noi

Le emozioni si costituiscono come il background su cui si fonda la nostra vita; benché, certo, esse siano meno facilmente comunicabili che non i pensieri. Eugenio Borgna con il suo sensibilissimo linguaggio riesce a trasmettere il senso fondamentale della vita emotiva di ognuno di noi.
Eugenio Borgna, Le emozioni ferite. Feltrinelli

Gli orizzonti di senso delle emozioni sono sconfinati (…).Le emozioni dicono quello che avviene in noi, nella nostra psiche, nella nostra interiorità, nella nostra anima. Le emozioni nascono immediatamente in noi; ce ne sono nondimeno alcune che ci è possibile rimuovere, o tenere sotto controllo; e altre che sono inafferrabili e incontrollabili, e che ci è solo possibile rivivere in noi. Non c’è solo, in ogni caso, la conoscenza razionale ma anche la conoscenza emozionale che ci porta nel cuore di alcune esperienze di vita irraggiungibili dalla ragione cartesiana. (…) Le emozioni sono infinite: ci sono emozioni forti ed emozioni deboli che nondimeno sconfinano, o almeno possono sconfinare, le une nelle altre.
L’ansia, l’inquietudine dell’anima, la tristezza, la nostalgia, la vergogna, la serenità, la gioia, l’ira, che a volte si sovrappongono, e si intrecciano, e a volte si manifestano nella loro autonomia semantica. Ogni emozione si confronta con un orizzonte di senso, con un alterego, con un tu, con un oggetto che può essere interno, o esterno, e ogni emozione ha un suo proprio tempo interiore che si fa evidente in alcune emozioni come sono la noia, l’attesa e la speranza. Quando si parla di tempo non ci si riferisce, ovviamente, al tempo dell’orologio ma al tempo soggettivo, al tempo vissuto: il tempo interiore della speranza è il futuro come quello dell’attesa, il tempo interiore della nostalgia e della tristezza è il passato, benché con incrinature diverse, il tempo della gioia è il presente così friabile e così inafferrabile, il tempo dell’ira è il presente dilatato, e deformato, in slanci di aggressività, il tempo dell’ansia è il futuro: un futuro che si rivive come già realizzato nelle ombre dolorose di una morte vissuta come imminente. (…) Le emozioni costituiscono il fondamento su cui si svolge la nostra vita; benché esse siano più difficilmente comunicabili che non i pensieri: a disposizione dei quali sta sempre il linguaggio. Le parole, invece, servono poco ad esprimere le emozioni che noi proviamo; e, di sovente, perfino la natura delle nostre emozioni ci è oscura e ignota. Quando diciamo di avere “dolore”, “angoscia”, o “piacere”, non sentiamo tutti la stessa cosa, e non siamo talora nemmeno in grado di descrivere queste emozioni. Le emozioni, anche perché la loro origine e la loro descrizione destano molti enigmi, sono oggi considerate molto più seriamente che non nel passato. Emozioni e ragione, esperienze emozionali ed esperienze razionali, formano una unità molto stretta, e solo chi dà ascolto alle proprie emozioni, e le prende sul serio, può realizzare cose “ragionevoli”.

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