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Un metodo per sfidare le idee irrazionali

Il metodo realistico per sconfiggere le convinzioni irrazionali che spesso sorreggono la nostra ansia consiste nell’esaminare quali sono gli aspetti della realtà sociale che le nostre convinzioni vorrebbero sfidare. Ci parla di questo metodo Albert Ellis, padre fondatore della terapia cognitivo-comportamentale. Questo metodo terapeutico consiste nel cercare di modificare le irragionevoli convinzioni che sorreggono gran parte dei nostri comportamenti disfunzionali. Un metodo che applicato ai disturbi d’ansia consente di ottenere ottimi risultati. Albert Ellis, “Che ansia”, Erickson

Prendiamo un caso molto comune. Poniamo che tu sia sinceramente innamorato di una persona, ma molti indizi ti fanno pensare che l’oggetto dei tuoi desideri non ricambi il tuo affetto. Sembra che tu le sia piuttosto indifferente, o forse non le piaci proprio. Ma continui a desiderare intensamente che questa persona ricambi il tuo sentimento d’amore e di conseguenza provi una certa ansia perché potrebbe non succedere. Come fare per alleviare quest’ansia? (…) La tua preferenza o desiderio, naturalmente, è che la tua amata ricambi il tuo affetto. Ma dato che sei molto ansioso, supporrai che questo desiderio sia passato al grado di doverizzazione insistente. Quindi cerchi dentro di te questa doverizzazione e la trovi con una certa facilità: «Non solo ho un’intensa preferenza affinché la mia amata mi ricambi, ma penso che debba assolutamente farlo. Però, dato che non sembra fare ciò che dovrebbe, e potrebbe anche non amarmi mai nel modo in cui io amo lei, sono molto ansioso. Non ho garanzie che otterrò ciò che credo di dover ottenere, quindi sono molto ansioso, anzi forse sono nel panico». Bene, quindi abbiamo trovato una doverizzazione molto probabile riguardo alla tua amata, ed evidentemente è questa che ti rende ansioso. È semplice, no? Se cerchi la tua doverizzazione, in genere la troverai facilmente. Ora, che cosa puoi fare con questa doverizzazione che dice: «La mia amata deve, deve assolutamente, amarmi come io amo lei»? Come fare per cambiarla? La risposta (…)  è metterla in discussione, contrastarla. Il tuo obiettivo è conquistare la tua amata.

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Decisione : come facciamo le nostre scelte

La decisione è il punto di arrivo di una serie di meccanismi cognitivi complessi e non sempre direttamente coscienti o totalmente consapevoli. Cosa significa decidere? Quali sono le scelte ponderate e le scelte automatiche? Rino Rumiati, Decidere, Il Mulino

Facciamo un veloce sondaggio tra i nostri conoscenti sul significato del termine decisione, potremo verificare direttamente che i significati e le definizioni proposti sono molto diversi tra loro. Queste differenze dipendono dalle diversità dei modi con cui i nostri intervistati sono soliti decidere. Così alcuni diranno che prendere una decisione significa scegliere dopo aver valutato bene ciò che si desidera, altri diranno che si tratta di esprimere una preferenza per un’alternativa, altri ancora che si deve evitare di perdere o di rischiare troppo, altri che si tratta di lasciare fare al caso o che si deve fare la prima cosa che passa per la testa e così via. Da tutte queste ipotetiche risposte, molto differenti tra loro, ma anche molto realistiche, si possono isolare tre aspetti che sono rilevanti per capire che cosa è una decisione e come si prendono le decisioni. Il primo aspetto è costitutivo della definizione di decisione e riguarda il fatto che, per poter decidere, un individuo deve trovarsi di fronte a una serie di possibilità o opzioni. Il secondo aspetto riguarda il rischio insito nel prendere una decisione: certe decisioni hanno a che fare con esiti che non sono prevedibili con assoluta certezza. L’ultimo aspetto, infine, riguarda la consapevolezza del decisore quando affronta il processo di decisione; riguarda, cioè, il fatto che la decisione costituisca o no un atto deliberato.

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Rischio : come lo affrontiamo?

Il rischio è una condizione ineludibile del nostro vivere. Possiamo averne una percezione sicuramente influenzata da come le condizioni del rischio ci vengono comunicate. Eppure spesso i nostri comportamenti conseguenti non risultano essere coerenti con il rischio oggettivo, ma risentono molto della componente emotiva… Silvia Salvatori, Job Rumiati, Rischiare, Il Mulino

Quando si parla di comunicazione del rischio spesso si intende la comunicazione verbale del rischio. E in effetti, un modo estremamente frequente di comunicare il rischio nella società moderna è tramite la comunicazione verbale, con o senza immagini. Ad esempio, la maggioranza di noi ha esperito il crollo delle Torri Gemelle in via indiretta attraverso i notiziari televisivi e le testimonianze dei protagonisti. I bambini sanno quanto può fare paura una storia di draghi o di altri personaggi fantastici, se ben raccontata con dovizia di particolari e di termini evocativi. La capacità di apprendere le informazioni emozionali, non solo dall’espressione facciale e dal comportamento, ma anche dalle parole è una caratteristica tipica degli esseri umani. Il linguaggio e un sistema di simboli, arbitrariamente connesso a un referente e quindi staccato dal suo referente nel mondo. Ad esempio, tra la parola «mela» e il suo referente, ovvero la mela vera e propria, non vi e nessun legame naturale; infatti, fino a quando la nostra mamma non ci insegna che, per convenzione, quel frutto rosso così buono si chiama «mela››, per noi il termine non ha significato. La trasmissione tramite il linguaggio è l’unica che non prevede l’osservazione e l’esperienza diretta delle proprietà che suscitano emozioni di uno stimolo, in altre parole, non prevede l’osservazione di uno stimolo reale che può indurre paura. Il linguaggio obbliga chi ascolta a basarsi sulla propria esperienza passata e sulle immagini autogenerate nella propria mente. Attraverso queste immagini la persona si costruisce una memoria emotiva dell’evento. Immaginare una scena è un’operazione neurologicamente molto simile al vederla davvero, perché comporta l’attivazione della stessa parte del cervello coinvolta nella percezione visiva e nella memoria degli episodi. L’attività mentale che usiamo per simulare eventi futuri inoltre è molto simile a quella empatica, necessaria per capire che cosa stanno pensando gli altri. (…)

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L’infelicità : due tecniche per affrontarla

L’infelicità è spesso fonte di stress e, soprattutto rende più “difficile” la nostra vita. Ma l’infelicità non è un dato di fatto ma una condizione che possiamo efficacemente contrastare. Spesso l’infelicità pone le sue basi ne meccanismi cognitivi che usiamo per affrontare le difficoltà quotidiane. L’infelicità dunque può essere combattuta agendo attivamente una serie di strategie mentali che servono a riposizionare il fatto negativo su una scala gerarchica. Paolo Legrenzi, La felicità, Il Mulino

È importante una rappresentazione corretta della genesi potenziale de l’infelicità: una perdita futura, in quanto creduta e temuta, anche se improbabile, si può trasformare in una paura presente, la quale invece è “certa”. Autoesaminiamoci e cerchiamo di vedere in noi stessi se, ora, in questo momento, compaiono, anche deboli, dei sintomi, e cioè gli effetti negativi della paura e dell’ansia.

Effetti  mentali: quello che avete in testa

  • Concentrazione eccessiva su un evento temuto.
  • Sovrastima delle probabilità di accadimento di tale evento.
  • Difficoltà ad affrontare il problema e a prendere decisioni in merito.
  • Attenzione selettiva a tutte le informazioni che possono essere diagnostiche dell’evento temuto, attenzione cioè eccessiva per i segni premonitori di un possibile guaio o insuccesso.
  • Sensazione di impotenza di fronte al futuro.
  • Incapacità di distinguere quello che è sotto il nostro controllo da quello che non 1o è. .
  • Sopravvalutazione delle conseguenze negative dell’evento temuto.

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La rabbia: 5 falsi miti

La rabbia è un sentimento che offusca la nostra capacità di affrontare le situazioni, oltre che essere una reazione che danneggia la nostra salute. In questo articolo Albert Ellis affronta, per distruggerli, cinque falsi miti sulla gestione di questo sentimento. Albert Ellis e Raymond Tafrate, “Che rabbia!”, Erickson

Senza dubbio avrai già sentito diversi consigli «di buon senso» su come gestire la rabbia. Le riviste, i talk show televisivi e gli esperti alla radio offrono quotidianamente soluzioni che in teoria dovrebbero aiutarti a vivere una vita libera dalla rabbia e dal risentimento. Purtroppo, però, molte di queste idee in realtà non funzionano. Se oggi ti rivolgessi a cinque diversi professionisti che si occupano di salute mentale chiedendo qual è il modo migliore di gestire la rabbia, probabilmente otterresti cinque risposte differenti. Alcuni «esperti» ti diranno che la soluzione ai tuoi problemi è nel tuo passato. L’unico modo per risolvere efficacemente il problema della rabbia è tornare indietro e curare le vecchie ferite e ingiustizie che ti hanno reso un individuo insicuro e rabbioso. Altri, però, potrebbero dire che il passato non c’entra niente. Se cambierai il tuo lavoro attuale, le relazioni o le situazioni che ti turbano, allora sicuramente vivrai una vita più felice e sana e con meno rabbia. E potresti sentire anche altre opinioni sulla rabbia che si contraddicono tra loro. Alcuni professionisti consigliano di trattenersi ed evitare il più possibile i conflitti con persone problematiche, ad esempio allontanandoti dalle situazioni difficili e ritornando solo dopo aver sbollito la rabbia. Al contrario, c’è chi dice di sfogare sempre la rabbia: puoi farlo ad esempio esprimendoti apertamente con chi ti fa arrabbiare. Oppure puoi sfogare la rabbia indirettamente quando sei da solo, urlando, dando pugni ai cuscini o impegnandoti in un’attività fisica intensa. I luoghi comuni sulla rabbia sono moltissimi, ma perché? Perché finora non sono state effettuate sufficienti ricerche scientifiche per capire le cause e le soluzioni di questo problema. (…) Ecco cinque dei più diffusi falsi miti su come gestire l’ostilità e la rabbia. Per capire la vera natura della rabbia, prendi in esame questi falsi miti e contestali con giusto scetticismo.

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Doverizzazioni che creano ansia

Le doverizzazioni sono aspetti rigidi delle nostre credenze che, come spiega Albert Ellis, condizionano pesantemente la nostra vita e alimentano più del necessario le nostre ansie. Albert Ellis, Che Ansia!, Erickson

La prima volta che ho indagato sulle convinzioni irrazionali dei miei pazienti, ne ho riscontrate dodici fra le più comuni, ciascuna delle quali presentava diverse varianti. (…)In genere è stato riscontrato, come avevo predetto, che quando gli individui avevano diverse convinzioni irrazionali, e ci credevano in modo rigido e irremovibile, in genere erano più ansiose o disturbate in altro modo rispetto a coloro che avevano meno convinzioni irrazionali e le prendevano più alla leggera o con moderata serietà. (…)Svolgendo ulteriori ricerche e analisi cliniche sulle convinzioni irrazionali dei pazienti, ho riscontrato, non senza una certa sorpresa, che le mie categorie di convinzioni irrazionali originali resistevano, e così anche diverse loro varianti. E poi ho scoperto che era possibile condensarle in tre tipologie di convinzioni irrazionali principali entro le quali ricadevano praticamente tutte le altre convinzioni irrazionali, che sono centinaia.

Doverizzazioni su se stessi. Esempi: «Io devo assolutamente avere successo in ogni attività importante che intraprendo»; «Io devo essere amato completamente, o quanto meno approvato pienamente, dalle persone a cui tengo»; «Io devo distinguermi ed essere impeccabile in certi progetti che scelgo di intraprendere». Questa forma comunissima di doverizzazione, che le persone di tutto il mondo sperimentano a un certo punto della propria vita, fa sentire ansiosi, depressi, insignificanti, autolesionisti e insicuri quando non si riesce a realizzare diversi obiettivi della propria vita.

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Pensare : istruzioni per l’uso

Pensare è un’attività per lo più automatica. Tutti diamo per scontato di saper pensare e, in questo modo, trascuriamo la possibilità di modificare, migliorare e potenziare questa nostra capacità. Edward De Bono, ci spiega altre modalità di pensare e come questa facoltà possa essere utilizzata in maniera più funzionale a risolvere i nostri problemi.
Edward De Bono, Sei cappelli per pensare. Biblioteca Universale Rizzoli

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Pensare è la massima risorsa dell’uomo. Tuttavia non siamo mai soddisfatti della nostra capacità fondamentale. Per quanto si diventi bravi, occorre sempre desiderare di essere migliori. Di solito le uniche persone soddisfatte del la loro capacità di pensiero sono quei poveretti che credo no che il pensieri serva a togliersi il gusto di dimostrare che hanno ragione. Solo una visione limitata di quel che il pensiero può fare, e nient’altro, può renderci soddisfatti della nostra bravura in questo campo. La maggiore difficoltà che si incontra nel pensare è la confusione. Cerchiamo di fare troppe cose alla volta. Emozioni, informazioni, logica, aspettative e creatività si affollano in noi ostringendoci a fare il giocoliere con troppe palle. (…)
Recitate la parte del pensatore: lo diventerete (…) Voglio che voi vi raffiguriate la tanto usata — e abusata — immagine del Pensatore di Rodin. Voglio che immaginiate la posa con la mano sul mento che si suppone debba assumere ogni pensatore non del tutto frivolo. In proposito, io sono convinto che pensare dovrebbe essere qualcosa di attivo e vivace, e non di malinconico e solenne. Ma per il momento l’immagine tradizionale ci è utile.
Mettetevi in quella posa — fisicamente, non mentalmente — e diventerete pensatori. Perché? Perché se recitate la parte del pensatore lo diventerete.

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Pensiero laterale : creare le soluzioni

Pensiero laterale e pensiero verticale ovvero creatività e logica a confronto. Edward De Bono con “il dilemma della figlia del mercante” ci introduce alla scoperta di quella forma di pensiero in grado di trovare nuove soluzioni a problemi apparentemente irrisolvibili.
Da: Edward De Bono, Il pensiero laterale. Biblioteca Universale Rizzoli

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Molti anni fa, ai tempi in cui un debitore insolvente poteva essere gettato in prigione, un mercante di Londra si trovò, per sua sfortuna, ad avere un grosso debito con un usuraio. L’usuraio, che era vecchio e brutto, si invaghì della bella e giovanissima figlia del mercante, e propose un affare. Disse che avrebbe condonato il debito se avesse avuto in cambio la ragazza. Il mercante e sua figlia rimasero inorriditi della proposta. Perciò l’astuto usuraio propose di lasciar decidere alla Provvidenza. Disse che avrebbe messo in una borsa vuota due sassolini, uno bianco e uno nero, e che poi la fanciulla avrebbe dovuto estrarne uno.
Se fosse uscito il sassolino nero, sarebbe diventata sua moglie e il debito di suo padre sarebbe stato condonato. Se la fanciulla invece avesse estratto quello bianco, sarebbe rimasta con suo padre e anche in tal caso il debito sarebbe stato rimesso. Ma se si fosse rifiutata di procedere all’estrazione, suo padre sarebbe stato gettato in prigione e lei sarebbe morta di stenti. Il mercante, benché con riluttanza, finì coll’acconsentire. In quel momento si trovavano su un vialetto di ghiaia del giardino del mercante e l’usuraio si chinò a raccogliere i due sassolini. Mentre egli li sceglieva, gli occhi della fanciulla, resi ancor più acuti dal terrore, notarono che egli prendeva e metteva nella borsa due sassolini neri. Poi l’usuraio invitò la fanciulla a estrarre il sassolino che doveva decidere la sua sorte e quella di suo padre. Immaginate ora di trovarvi nel vialetto del giardino del mercante. Che cosa fareste nei panni della sfortunata fanciulla? E, se doveste consigliarla, che cosa le suggerireste? Quale tipo di ragionamento seguireste?
Se riteneste che un rigoroso esame logico potesse risolvere il problema – ammesso che esista davvero una soluzione – ricorrereste al pensiero verticale. L’altro tipo di pensiero è infatti quello laterale. Chi si servisse del pensiero verticale non potrebbe però essere di grande aiuto a una ragazza che si trovasse in simili frangenti. (…)
Ebbene: la ragazza dell’aneddoto introdusse la mano nella borsa ed estrasse un sassolino, ma senza neppur guardarlo se lo lasciò sfuggire di mano facendolo cadere sugli altri sassolini del vialetto, fra i quali si confuse. “- Oh, che sbadata! – esclamò. – Ma non vi preoccupate: se guardate nella borsa potrete immediatamente dedurre, dal colore del sassolino rimasto, il colore dell’altro.”
Naturalmente, poiché quello rimasto era nero, si dovette presumere che ella avesse estratto il sassolino bianco, dato che l’usuraio non osò ammettere la propria disonestà. In tal modo, servendosi del pensiero laterale, la ragazza riuscì a risolvere assai vantaggiosamente per sé una situazione che sembrava senza scampo. La ragazza, in realtà, si salvò in un modo molto più brillante di quanto non le sarebbe riuscito se l’usuraio fosse stato onesto e avesse messo nella borsa un sassolino bianco e uno nero, perché in tal caso avrebbe avuto solo il cinquanta per cento delle probabilità in suo favore. Il trucco che escogitò le offrì invece la sicurezza di rimanere col padre e di ottenergli la remissione del debito.

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