Archivi tag: Pietro Trabucchi

il talento

Il talento e la crescita personale

Il talento è un concetto che indica la presenza di certe qualità in una persona. Tuttavia l’abuso di questa etichetta ha fatto sì che il talento diventasse un comodo alibi sminuendo il valore dell’impegno nel raggiungimento dei propri obiettivi.

“(…) Credere che le cose dipendano da noi anziché dal destino, non è una semplice scelta intellettuale: le credenze, infatti, modellano i comportamenti. Chi è convinto che tutto sia già scritto nelle stelle sarà passivo e immobile: non potrà fare nulla di meglio che vivere aspettando che il destino si compia. A che pro darsi da fare, faticare, scaldarsi? La prospettiva dell’impegno non fa parte dell’orizzonte esistenziale di queste persone. Al contrario, vedere la raggiungibilità di un obiettivo come qualcosa che è in stretta relazione con fattori e stimoli che dipendono soltanto da noi, spinge a impegnarsi. (…)Io ho la netta impressione che esista una pressione culturale fortissima a far credere che a determinarci siano per lo più i fattori esterni. Uno dei sintomi di questa tendenza può essere riscontrato nell’aria di venerazione che circonda da parecchi anni il concetto di «talento», inteso come abilità innata, o come «dono». Si noti che il termine «talento» può assumere parecchie sfumature: può indicare propensione o attitudine verso qualcosa, potenzialità da realizzare. Questo è anche il significato evangelico del termine, nel senso di capitale da mettere a frutto. E in questo senso l’esistenza del talento nella vita degli esseri umani è indubitabile. Tuttavia, nelle pratiche attuali, il termine assume troppo spesso un altro significato, molto più riduttivo: quello di «dono gratuito», di abilità che si possiede compiutamente in modo innato. (…)Oggi, in tutti i campi, le prestazioni di eccellenza – siano esse sportive, aziendali, artistiche o scolastiche – vengono immediatamente collegate al possesso di abilità innate. Cioè, all’avere «talento». L’effetto di questa convinzione sui comportamenti reali è devastante. Tutto pare deciso in anticipo alla lotteria del destino: se uno nasce «poco portato per la musica» oppure per la vendita, per la corsa o le relazioni interpersonali, c’è poco da fare. Ci si rassegna. Con un inconfessabile moto di sollievo. Perché così scansiamo le fatiche che l’impegno comporta. E ci togliamo ogni responsabilità dai piedi. Se c’è una responsabile, questa è Madre Natura che, quanto a «doni», è stata un po’ spilorcia con noi. Et voilà, l’alibi è servito. Pancia all’aria, ci si adagia tranquilli e si può perfino indulgere in un legittimo vittimismo. Capito? Il pensare in termini di avere o non avere il talento determina già di per sé un certo tipo di destino.”

COMMENTO – Quando parliamo di raggiungere i propri obiettivi, in qualunque campo essi siano, è sempre facile cadere nell’errore di pensare che “se per quella cosa si è portati” allora si potrà avere successo. Questo vale nella vita quotidiana di ognuno di noi così come nel caso delle eccellenze, ossia il raggiungimento di mete straordinarie. Se sapessimo che “bisogna essere tagliati” per il successo, ossia avere talento altrimenti tutto è inutile, la nostra passività e tendenza a non impegnarci sarebbero giustificate e noi saremmo liberati da tutti i sensi di colpa per assumere un atteggiamento rinunciatario. Tuttavia, molte ricerche mostrano esattamente il contrario: il talento c’è ed è sicuramente un fattore favorevole al successo, ma il peso dell’impegno è di gran lunga superiore sia per non dissipare il talento sia nel sopperire ad una sua mancanza. Come ricorda Trabucchi: “i vertici dell’eccellenza non si raggiungono grazie al determinismo genetico, ma attraverso un processo volontario: le prestazioni assolute, in qualsiasi campo, da quello artistico agli scacchi, dallo sport alla ricerca scientifica, sono frutto in maniera preponderante dell’esercizio piuttosto che delle capacità innate.” Mettiamo da parte il raggiungimento di livelli eccezionali e straordinari e consideriamo la vita quotidiana di un individuo comune e al posto di ambiziose mete “da campione” mettiamo gli obiettivi che lo possono riguardare ordinariamente. Per esempio, prendiamo un obiettivo che potrebbe riguardare tutte le persone, quello di crescere e migliorarsi. La maggior parte delle persone credono che questo percorso di crescita personale sia ad appannaggio solo per chi “ci è portato”, altri ritengono che tale processo possa avvenire “naturalmente” perché è la vita che ti fa crescere. In realtà, senza uno sforzo e un impegno questa crescita personale non può avvenire ed è assolutamente falso ritenere che questa possibilità non sia per tutti. Se è vero, come ricorda Trabucchi che “senza impegno e dedizione, senza fatica e allenamento, si può essere bravi, ma non si diventa straordinari” è altrettanto vero che senza tale fatica non si può diventare persone migliori. Questa fatica necessaria alla nostra crescita non ha niente a che fare con la “fatica di vivere”, ossia quegli affanni che spesso ci impegnano nel corso dell’esistenza. Lo sforzo necessario deve essere il frutto di un «esercizio intenzionale», ossia di uno impegno consapevole a crescere e a migliorare il nostro essere.

Pietro Trabucchi, “Tecniche di resistenza interiore”, Mondadori

Leggi altri pensieri di Pietro Trabucchi: DEmotivazione come autosabotaggio

Leggi articolo: Come migliorare se stessi

la resilienza

La resilienza ovvero la forza contro le avversità

La resilienza è una capacità psicologica di affrontare gli ostacoli grandi o piccoli che la vita inevitabilmente ci pone. È una competenza cognitiva che si può sviluppare e potenziare a patto che ciascuno di noi abbia la volontà di farlo senza abbandonarsi a vittimismi deresponsabilizzanti o a soluzioni arrendevoli.

“A quanto pare, chi, di fronte a eventi stressanti, chiede un aiuto terapeutico o manifesta gravi forme di disagio rappresenta l’anomalia, non la regola. La regola, per gli esseri umani, è rappresentata dalla resilienza. Il termine «resilienza» proviene dalla metallurgia: indica, nella tecnologia metallurgica, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Così anche in campo psicologico: la persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile. (…) Desidero però dare fin d’ora la mia definizione personale di resilienza: la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo «persistere» indica l’idea di una motivazione che rimane salda. Di fatto l’individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e tende a «leggere» gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la speranza. (…) La buona notizia iniziale («siamo progettati per affrontare problemi e difficoltà») non è sola. Ce n’è un’altra: la resilienza può essere potenziata, possiamo imparare a migliorarla. Anche se venendo al mondo siamo già in possesso di una dotazione di base in termini di resilienza, possiamo accrescerla. Diventare psicologicamente più resistenti è possibile. Si può imparare a gestire lo stress. Generalmente non c’è molta consapevolezza di queste possibilità. In parte lo si deve a ragioni esterne a noi stessi. Per esempio è senz’altro più redditizio per la fiorente industria degli antidepressivi puntare sugli effetti delle molecole che ci «aiutano» ad affrontare la vita, piuttosto che favorire lo sviluppo della resilienza nelle persone. Ma non è soltanto, come al solito, colpa dell’«esterno», della società o delle «cattive lobby industriali». Fa comodo anche a noi condividere una visione di noi stessi deboli e inermi sotto i colpi della vita; perché questo ci permette di non impegnarci a fondo, di non prenderci fino in fondo tutte le responsabilità. E, alla fine, ci consente pure di lamentarci.”

COMMENTO – Nel nostro piccolo siamo tutti un po’ resilienti e lo possiamo verificare notando come nella nostra vita, chi più chi meno, siamo stati capaci di apprendere dalle le avversità incontrate durante il percorso e di superarle senza soccombere ad esse. Spesso lo abbiamo fatto senza sapere di starlo facendo. Quindi, tale capacità ci è sconosciuta e, ignorando di utilizzarla, non possiamo farla diventare uno strumento per la nostra esistenza. Molto più spesso, tuttavia, davanti alle difficoltà tendiamo ad autocommiserarci e questo è il frutto di alcune caratteristiche che hanno gli individui nella nostra cultura: siamo egocentrici, auto-indulgenti, tendenti all’auto-commiserazione e, soprattutto, avvezzi ad un consumismo che ci ha tolto l’abitudine allo sforzo e alla fatica. Allora proviamo a riflettere e a chiederci come ci comportiamo davanti ad una difficoltò, e ad osservare quali strategie usiamo. È chiaro che ogni difficoltà e ogni problema generano uno stress ma il punto è porre l’attenzione su quanto forte sia tale stress. Il senso comune tende ad attribuire ad ogni evento stressante un valore stabile per ogni individuo, trascurando in realtà un elemento molto importante: la sensibilità individuale ossia il modo in cui facciamo entrare l’evento problematico nella nostra mente. Proprio quest’ultima frase mette in crisi un’altra credenza comune riguardante lo stress e le reazioni ad esso: in genere si crede che sia la difficoltà ad “impattare” sulla nostra mente e non il contrario ossia che è la nostra mente a fare proprio l’evento stressante. Questa prospettiva apre ad un’altra visione di come dovrebbero essere affrontate le difficoltà. Come ricorda Trabucchi: “anche se è comodo credere il contrario, la sensibilità allo stress è in gran parte prodotta da noi stessi: essa dipende da come interpretiamo gli eventi. E da quanto ci pensiamo «forti»: cioè in grado di fare fronte a quel determinato problema. Per farla breve, la sensibilità allo stress dipende strettamente da quella che gli psicologi chiamano «valutazione cognitiva».”

Valutare cognitivamente qualcosa cambia completamente il suo valore in base a chi compie la valutazione. I fatti del mondo esistono oggettivamente ma quello che conta è il modo in cui li “viviamo” e li “costruiamo” e il modo in cui interpretiamo i fatti ha conseguenze concrete sul modo in cui reagiremo ad essi. Così, sottolinea Trabucchi, per comprende appieno il peso di questa valutazione cognitiva nel generare la resilienza, dobbiamo mettere da parte il vecchio modello intuitivo di stress per cui un dato evento produce lo stesso stress in ogni individuo e che vede le persone come bersagli passivi. “Se gli stressor fossero qualcosa di oggettivo, un certo evento negativo «X» produrrebbe un quantitativo «Y» di stress uguale in tutti gli individui. Sappiamo bene che le cose non stanno così. Ci sono persone che vengono distrutte da piccoli contrattempi mentre altri individui sopravvivono egregiamente a catastrofi planetarie.” Abbracciare questo modo di rapportarci alle difficoltà è sicuramente scomodo perché rimette alla nostra responsabilità la reazione che manifestiamo ai problemi della vita dal momento che non sono gli eventi in sé a generare lo stress ma il modo in cui «leggiamo» le criticità. Ragionare in questo modo non vuol dire negare o minimizzare le difficoltà ma sottolinea che il modo di affrontarle dipende da noi e non dai problemi. Da questa valutazione cognitiva nascono poi gli atteggiamenti, i comportamenti e le strategie che adotteremo per affrontare le difficoltà. Come ricorda Trabucchi: “lo stesso evento, a seconda del modo in cui «decidiamo» di vederlo, porterà a stati d’animo, reazioni fisiche e comportamenti del tutto diversi. In fondo, si tratta pur sempre del vecchissimo e arcinoto principio del bicchiere: posso scegliere di vederlo come mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda delle mie inclinazioni personali e del mio stato d’animo. In ogni caso, qualsiasi cosa scelga, mezzo vuoto o mezzo pieno, alla fine si tratta dello stesso bicchiere. Ma il pessimista tende a concentrarsi sul vuoto e sulle emozioni relative”

Pietro Trabucchi, “Resisto dunque sono”, Corbaccio

Leggi altro pensiero di Pietro Trabucchi: Demotivazione come autosabotaggio

Leggi articolo: Come sviluppare la resilienza psicologica

autoefficacia 2

L’ autoefficacia e i suoi sabotatori

L’ autoefficacia è la percezione della consapevolezza di essere capaci di saper gestire specifiche attività o situazioni. Scopriamo insieme quali sono i suoi peggior nemici… Pietro Trabucchi, “Perseverare è umano”, Corbaccio

Uno dei principali ostacoli alla motivazione è rappresentato da un debole senso di autoefficacia. Chi pensa che difficilmente ce la farà, chi nutre forti dubbi sulle sue possibilità di riuscita non si impegnerà per raggiungere un obiettivo. Chi ha un basso senso di autoefficacia appare spesso demotivato. Ma cos’è il senso di autoefficacia? È un processo cognitivo che riguarda ambiti specifici: attiene alla mia convinzione di riuscita in contesti molto delimitati. Per esempio, posso avere un basso senso di autoefficacia in cucina; e allo stesso tempo – e senza che questo venga vissuto come una contraddizione – avere un elevato senso di autoefficacia come nuotatore. L’autostima invece è una cosa diversa: è la percezione generale del mio valore come persona. Non riguarda le mie capacità, riguarda il mio valore. È un po’ il bilancio generale di noi stessi in termini di «mi piaccio», «non mi piaccio». Il senso di autoefficacia non ha invece una connessione immediata con il senso generale del nostro valore. Come spiega Albert Bandura, «una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo patire una qualsiasi perdita di autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale». Il senso di autoefficacia si sviluppa attraverso le esperienze di successo: più successi ottengo, più mi sento bravo e capace, più sono motivato a fare.

Continua a leggere su: Pietro Trabucchi, “Perseverare è umano”, Corbaccio

Leggi altro articolo: Autostima, i segreti per vivere bene

Leggi articolo su: Come acquisire fiducia in se stessi

demotivazione 2

Demotivazione come autosabotaggio

La demotivazione è alla base di molte difficoltà a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. Essa non è un fenomeno unico ma può apparire sotto due differenti forme… Pietro Trabucchi, “Perseverare è umano”, Corbaccio

La resilienza ha due anime. Quando diciamo che una persona è «demotivata», con questo termine indichiamo di volta in volta due fenomeni molto diversi tra loro, ognuno dei quali ci rivela un diverso aspetto della resilienza. Vediamo il primo caso di «demotivazione». È la situazione di qualcuno che non si impegna per ottenere un obiettivo, non perché non vi aspiri, ma perché ritiene di non poterlo raggiungere. La frase tipica che riassume la situazione è: «Tanto non ce la farò mai, quindi meglio lasciar perdere!» Per esempio potrebbe attirarmi molto l’idea di scalare una certa montagna; ma poiché (a torto o a ragione) penso di non averne le capacità, non mi impegno minimamente per realizzare il mio desiderio. In questo primo caso di «demotivazione» la persona rinuncia e non si impegna a causa di un basso senso di autoefficacia. Uso l’espressione «senso di autoefficacia» come equivalente a senso di competenza: sentirsi autoefficace significa sentirsi adeguato o capace di raggiungere un dato obiettivo. Un basso senso di autoefficacia verso un traguardo da raggiungere genera immobilità e rassegnazione. Il «senso di autoefficacia» è uno dei due principali componenti della resilienza. Quando manca la convinzione di potercela fare, di poter superare gli ostacoli, la motivazione risulta debole e crolla alle prime difficoltà. Tuttavia il nostro linguaggio utilizza il termine «demotivazione» anche per indicare una situazione completamente diversa.

Continua a leggere su: Pietro Trabucchi, “Perseverare è umano”, Corbaccio

Leggi altro articolo: Impegno e successo

Leggi sulla resilienza

talento 1

Talento o allenamento per il successo?

Il talento è un termine ampiamente abusato nella nostra società e che ha sostituito nelle discussioni la vecchia idea, legata alla genetica, della predisposizione. È possibile raggiungere l’eccellenza in qualcosa senza impegnarsi, solo con il talento? Talvolta il talento finisce per diventare un alibi che porta alla negazione del valore dell’impegno. Per contro ha senso chiederci se è sufficiente l’impegno a garantirci l’eccellenza o una componente deve essere attribuita anche al talento. Forse peò in definitiva talento significa solo che si può fare di meglio. Pietro Trabucchi, “Tecniche di resistenza interiore”, Mondadori

Va per la maggiore l’idea che il nostro destino sia determinato più da fattori esterni (i geni, le capacità innate, il «talento») che dal proprio impegno. Tale concezione fa sorgere dei dubbi legittimi: davvero contano soltanto i fattori esterni nella vita di ciascuno di noi? È possibile raggiungere l’eccellenza in qualcosa senza impegnarsi? Esistono risposte convincenti a questi interrogativi che si fondano su dati scientifici? (…) I modelli dominanti che propone/impone la tv non si basano sull’impegno o sulle competenze, bensì sul possesso di qualità estemporanee e volatili (essere belli, «fichi», abbronzati e prevaricatori), sulle giuste frequentazioni, sul fatto di essersi trovati nel posto giusto al momento giusto. Chi studia è un secchione. Chi si allena è un fissato. Meglio affidarsi al caso, alla fortuna o ai doni di natura. La vita è un giro di ruota. E il merito individuale, per non creare malumori, va inesorabilmente scoraggiato. (…) Dagli anni Sessanta del secolo scorso, grazie al lavoro dello psicologo James Rotter, si è aggiunta una nuova possibilità di catalogazione: Rotter ha suggerito infatti che il genere umano potesse essere distinto anche per la posizione in cui situa il «locus of control» (letteralmente: luogo del controllo). Si tratta di una dimensione mentale. Corrisponde al modo in cui «leggiamo» gli eventi che ci capitano. Il locus of control è il timone della propria vita e può essere collocato all’interno o all’esterno di se stessi. Spiego meglio: coloro che pongono il luogo del controllo internamente, ritengono che gli eventi della loro vita dipendano in massima parte da loro stessi. E farcela o non farcela, raggiungere o meno un obiettivo dipende dalle proprie capacità e dal proprio impegno. L’individuo con il luogo del controllo esternoritiene invece che la propria vita sia determinata da fattori esterni, su cui non ha nessuna padronanza: dal fato, dal caso, dagli dei o dal segno zodiacale.

Continua a leggere su: Pietro Trabucchi, “Tecniche di resistenza interiore”, Mondadori

Leggi altro articolo di Pietro Trabucchi: Resilienza come arma contro lo stress

Leggi sul Talento

resilienza 3

Resilienza come arma contro lo stress

La resilienza è la capacità di saperci opporre alle avversità, piccole o grandi della vita, trovando la forza di risalire sulla nostra barca che si è rovesciata e di continuare a navigare verso i nostri obiettivi. Pietro Trabucchi, “Resisto dunque sono”, Corbaccio

C’è una buona notizia: ora sappiamo con certezza che gli esseri umani sono stati progettati per affrontare con successo difficoltà e stress. E in questo campo sono molto più forti di quanto comunemente si creda. Generazione dopo generazione, l’evoluzione ha modellato i nostri progenitori perché fronteggiassero efficacemente ogni sorta di ostacolo o di problema. Discendiamo da gente che è sopravvissuta a un’infinità di predatori, guerre, carestie, migrazioni, malattie e catastrofi naturali e che ci ha trasmesso i propri geni. Oggi, tra le tante promesse da rotocalco, c’è posto anche per chi parla di «eliminare lo stress». Non solo ciò è impossibile, ma sarebbe anche inutile: noi siamo costruiti per convivere quotidianamente con lo stress. A questo scopo possediamo dentro di noi, come un dono, un insieme di risorse che abbiamo ereditato dal passato. Questo insieme di risorse si chiama «resilienza» o resistenza psicologica. La maggior parte delle persone, fortunatamente, tende a essere resiliente: può adattarsi e apprendere a superare indenne le avversità più severe. (…) C’è chi si spinge addirittura oltre. Qualcuno sostiene che condizioni difficili possano aiutare la gente a ritrovare equilibrio psicologico e motivazioni. In effetti, esistono testimonianze eloquenti a proposito. Durante la seconda guerra mondiale Londra venne bombardata duramente. Si temevano gravi ripercussioni sull’equilibrio psichico degli abitanti. Avvenne il contrario. Diminuirono i ricoveri nei centri d’igiene mentale e i suicidi. La stessa cosa avvenne nelle fasi più acute del conflitto per l’autonomia dell’Irlanda del Nord o durante i tumulti razziali avvenuti negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70. A quanto pare, chi, di fronte a eventi stressanti, chiede un aiuto terapeutico o manifesta gravi forme di disagio rappresenta l’anomalia, non la regola. La regola, per gli esseri umani, è rappresentata dalla resilienza. Il termine «resilienza» proviene dalla metallurgia: indica, nella tecnologia metallurgica, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate.

Continua a leggere su: Pietro Trabucchi, “Resisto dunque sono”, Corbaccio

Leggi altro articolo: Impegno e successo

Leggi sulla resilienza