Il talento è un concetto che indica la presenza di certe qualità in una persona. Tuttavia l’abuso di questa etichetta ha fatto sì che il talento diventasse un comodo alibi sminuendo il valore dell’impegno nel raggiungimento dei propri obiettivi.
“(…) Credere che le cose dipendano da noi anziché dal destino, non è una semplice scelta intellettuale: le credenze, infatti, modellano i comportamenti. Chi è convinto che tutto sia già scritto nelle stelle sarà passivo e immobile: non potrà fare nulla di meglio che vivere aspettando che il destino si compia. A che pro darsi da fare, faticare, scaldarsi? La prospettiva dell’impegno non fa parte dell’orizzonte esistenziale di queste persone. Al contrario, vedere la raggiungibilità di un obiettivo come qualcosa che è in stretta relazione con fattori e stimoli che dipendono soltanto da noi, spinge a impegnarsi. (…)Io ho la netta impressione che esista una pressione culturale fortissima a far credere che a determinarci siano per lo più i fattori esterni. Uno dei sintomi di questa tendenza può essere riscontrato nell’aria di venerazione che circonda da parecchi anni il concetto di «talento», inteso come abilità innata, o come «dono». Si noti che il termine «talento» può assumere parecchie sfumature: può indicare propensione o attitudine verso qualcosa, potenzialità da realizzare. Questo è anche il significato evangelico del termine, nel senso di capitale da mettere a frutto. E in questo senso l’esistenza del talento nella vita degli esseri umani è indubitabile. Tuttavia, nelle pratiche attuali, il termine assume troppo spesso un altro significato, molto più riduttivo: quello di «dono gratuito», di abilità che si possiede compiutamente in modo innato. (…)Oggi, in tutti i campi, le prestazioni di eccellenza – siano esse sportive, aziendali, artistiche o scolastiche – vengono immediatamente collegate al possesso di abilità innate. Cioè, all’avere «talento». L’effetto di questa convinzione sui comportamenti reali è devastante. Tutto pare deciso in anticipo alla lotteria del destino: se uno nasce «poco portato per la musica» oppure per la vendita, per la corsa o le relazioni interpersonali, c’è poco da fare. Ci si rassegna. Con un inconfessabile moto di sollievo. Perché così scansiamo le fatiche che l’impegno comporta. E ci togliamo ogni responsabilità dai piedi. Se c’è una responsabile, questa è Madre Natura che, quanto a «doni», è stata un po’ spilorcia con noi. Et voilà, l’alibi è servito. Pancia all’aria, ci si adagia tranquilli e si può perfino indulgere in un legittimo vittimismo. Capito? Il pensare in termini di avere o non avere il talento determina già di per sé un certo tipo di destino.”
COMMENTO – Quando parliamo di raggiungere i propri obiettivi, in qualunque campo essi siano, è sempre facile cadere nell’errore di pensare che “se per quella cosa si è portati” allora si potrà avere successo. Questo vale nella vita quotidiana di ognuno di noi così come nel caso delle eccellenze, ossia il raggiungimento di mete straordinarie. Se sapessimo che “bisogna essere tagliati” per il successo, ossia avere talento altrimenti tutto è inutile, la nostra passività e tendenza a non impegnarci sarebbero giustificate e noi saremmo liberati da tutti i sensi di colpa per assumere un atteggiamento rinunciatario. Tuttavia, molte ricerche mostrano esattamente il contrario: il talento c’è ed è sicuramente un fattore favorevole al successo, ma il peso dell’impegno è di gran lunga superiore sia per non dissipare il talento sia nel sopperire ad una sua mancanza. Come ricorda Trabucchi: “i vertici dell’eccellenza non si raggiungono grazie al determinismo genetico, ma attraverso un processo volontario: le prestazioni assolute, in qualsiasi campo, da quello artistico agli scacchi, dallo sport alla ricerca scientifica, sono frutto in maniera preponderante dell’esercizio piuttosto che delle capacità innate.” Mettiamo da parte il raggiungimento di livelli eccezionali e straordinari e consideriamo la vita quotidiana di un individuo comune e al posto di ambiziose mete “da campione” mettiamo gli obiettivi che lo possono riguardare ordinariamente. Per esempio, prendiamo un obiettivo che potrebbe riguardare tutte le persone, quello di crescere e migliorarsi. La maggior parte delle persone credono che questo percorso di crescita personale sia ad appannaggio solo per chi “ci è portato”, altri ritengono che tale processo possa avvenire “naturalmente” perché è la vita che ti fa crescere. In realtà, senza uno sforzo e un impegno questa crescita personale non può avvenire ed è assolutamente falso ritenere che questa possibilità non sia per tutti. Se è vero, come ricorda Trabucchi che “senza impegno e dedizione, senza fatica e allenamento, si può essere bravi, ma non si diventa straordinari” è altrettanto vero che senza tale fatica non si può diventare persone migliori. Questa fatica necessaria alla nostra crescita non ha niente a che fare con la “fatica di vivere”, ossia quegli affanni che spesso ci impegnano nel corso dell’esistenza. Lo sforzo necessario deve essere il frutto di un «esercizio intenzionale», ossia di uno impegno consapevole a crescere e a migliorare il nostro essere.
Pietro Trabucchi, “Tecniche di resistenza interiore”, Mondadori
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