Archivi tag: coscienza di sè

considerazione esterna

La considerazione esterna: vedere gli altri

La considerazione esterna si basa su una forma particolare di relazione verso le persone, grazie alla quale sviluppiamo la capacità di adattarci agli altri, di comprenderli e di porre attenzione alle loro esigenze. Lungi dall’essere una falsa compiacenza degli altri, la considerazione esterna è una importante tappa del lavoro su noi stessi…

Il lavoro su se stessi ha molte sfaccettature e la strada verso la consapevolezza e verso un’evoluzione del proprio Essere passa anche attraverso i rapporti che abbiamo con le altre persone. Nella condizione ordinaria tendiamo “naturalmente” verso un egotismo di base: per noi vale il nostro punto di vista, le nostre ragioni, i nostri sentimenti, etc. Insomma i nostri Io la fanno da padroni e diventano il metro con cui entriamo in contatto con gli altri. Ma questa condizione “spontanea”, ovvero meccanica, del modo con cui funziona la nostra “macchina” comporta non solo che gli altri in quanto diversi da noi scompaiono, ma anche la messa in moto di tutte quelle lamentele, recriminazioni, situazioni di “conti in sospeso” che inquinano la nostra vita emotiva e i rapporti interpersonali. A questa modalità di funzionamento della nostra psiche abbiamo dato, in precedenza, il nome di considerazione interiore. La considerazione esterna è, invece, una modalità diversa da tutto ciò di entrare in contatto e in relazione con gli altri, usando i principi del lavoro su noi stessi per comprendere le altre persone e, nello stesso tempo, per continuare a lavorare su noi stessi e sull’auto controllo. In questo senso la considerazione esterna è del tutto differente dalla considerazione interna: se quest’ultima ci tiene ancorati all’esclusiva centralità di ciò che pensiamo di noi stessi e, di conseguenza, di ciò che ci aspettiamo dagli altri, la considerazione esterna ci richiede di metterci nei panni degli altri, valutando il fatto che questi sono delle “macchine” come noi e che il loro agire, fare o sentire proviene da un punto di vista differente dal nostro. La considerazione esterna  vuol dire adattarci agli altri, alle loro esigenze, comprenderli.

Facciamo un esempio: siamo seduti su una panchina di un giardino pubblico mentre nostro figlio gioca liberamente insieme ad un altro bambino; ad un certo punto la mamma di questo bambino lo rimprovera perché non vuole che si sporchi i vestiti con l’erba del prato e noi ci accorgiamo che nostro figlio rimane anche lui colpito da quel rimprovero. Se durante tutta questa scena noi fossimo sufficientemente presenti a noi stessi, ci saremmo potuti accorgere che internamente, via via, abbiamo cominciato a provare un certo fastidio. Infatti la “nostra idea” è che i bambini al parco vanno lasciati giocare in libertà e che non è educativo “mortificarli” con dei rimproveri che inibiscono la loro spontaneità. Per cui, facendo attenzione alle nostre emozioni faremmo caso che si è affacciata in noi una certa antipatia per quella mamma. A tutto questo diamo il nome di considerazione interiore: siamo centrati sul nostro Io del momento, vediamo solo noi stessi e i nostri giudizi. Ora se per caso interagissimo con la mamma in questione sulla scorta della nostra considerazione interiore, ne potrebbe nascere un piccolo conflitto perché, per esempio, le potremmo esprimere tutta la nostra disapprovazione per il modo in cui tratta suo figlio e sicuramente le mostreremmo anche la nostra emozione negativa nei suoi confronti. Cosa dovremmo fare, invece, se applicassimo la considerazione esterna? Per prima cosa ricordare di non dare corso alle nostre emozioni negative; quindi riflettere sul fatto che il comportamento di quella mamma è il frutto dei suoi automatismi e non deriva da una scelta volontaria e consapevole sia nei suoi contenuti sia nelle emozioni che esprimeva; e ancora, che esiste un punto di vista differente dal nostro che, seppur noi non condividiamo, può essere considerato valido da altre persone. E quali sarebbero le conseguenze di tale considerazione esterna? Sul piano dei rapporti eviterebbe l’insorgenza di conflittualità emotive (generatrice, per esempio, di relazioni basate sull’antipatia) e ci metterebbe nella condizione di capire meglio il nostro interlocutore proprio osservandolo come facciamo con noi stessi. Ciò non vuol dire condividerne le idee o le modalità di comportamento ma ci permetterebbe di esprimere il nostro punto di vista con meno emotività e rendendo, di fatto, più leggera l’interazione in questione.

Inoltre, imparare a considerare esternamente ci consente di continuare a lavorare su di noi dal momento che essa esige da parte nostra un grande potere e dominio su se stessi, una capacità di osservazione di sé, consapevolezza della nostra vita interiore e coscienza di ciò che pensiamo e sentiamo, oltre che una capacità di gestire le emozioni negative. La considerazione esterna è qualcosa che spesso sperimentiamo “spontaneamente” nella nostra vita ordinaria, tant’è che talvolta ci capita di voler non esprimere o mostrare ad un nostro interlocutore ciò che realmente pensiamo di lui o proviamo nei suoi confronti. Tuttavia, tale proponimento non sempre è possibile mantenerlo sia perché si presenta in maniera casuale e, quindi, non è il frutto di uno sforzo cosciente, sia perché in genere siamo molto deboli da questo punto di vista. Così può accadere di cedere rispetto a tale proponimento, e in questo modo finiremo per “spiattellare” al nostro interlocutore ciò che pensiamo di lui. Giustificheremmo il tutto dicendo di aver “deciso” di fare così perché non volevamo mentire o fingere, bensì essere sinceri fino in fondo. In realtà siffatta sincerità (così come la tanto elogiata spontaneità) è solo una scusa per nascondere la nostra incapacità all’auto controllo. L’evitamento della conflittualità emotiva con gli altri, così come lo sforzo di mettersi nei loro panni, non significa fingere di voler fare del bene mentre in realtà vorremmo, in taluni casi, il male dell’altro. Ai fini del lavoro su noi stessi non serve sforzarsi ad essere gradevoli agli altri quando invece li detestiamo. La considerazione esterna se correttamente compresa e praticata si basa sulla nostra sincerità interiore. Ma questo è un punto di arrivo in cui riusciamo veramente a capire la “posizione esistenziale” dell’altro (ciò, ripetiamo, non comporta la condivisione del suo agire) per cui il nostro atteggiamento di disponibilità non è frutto dell’ipocrisia, e tanto meno “un’opera buona”, ma il risultato di una sincera disposizione interiore.

L’attenzione alla considerazione esterna, per come un individuo è in grado di praticarla, deve vederci impegnati fin dalle fasi iniziali del lavoro su noi stessi. Questo perché se noi siamo troppo centrati su di noi non potremmo mai fare quel salto nello sviluppo del nostro Essere, riuscendo a disidentificarci dal nostro Io e divenendo capaci di guardarci intorno cogliendo la realtà e gli altri per quello che sono e non come vorremmo che fossero. Se la tazza da cui bevo il mio tè non ha un manico per afferrarla (e quindi devo usare entrambe le mani per berne il contenuto) non posso arrabbiarmi con essa perché è scomoda per me da prendere; dovrò adattare il mio bere alle sue caratteristiche e questo mi permetterà di “interagire” con lei; dovrò evitare di continuare a ripetere tra me e me che quella è una “stupida tazza” o che “il destino mi è contrario perché mi è capitata una simile tazza”.

Sicuramente ognuno di noi ha una modalità più o meno standard di rapportarsi con gli altri, frutto di abitudini e dei nostri specifici limiti. Attraverso questi “occhiali” vediamo gli altri e spesso, per tali motivi, non ci piacciono. Il lavoro su noi stessi non ci chiede di fingere che gli altri ci siano simpatici ma di cercare di lavorare sull’antipatia perché non si può considerare esternamente qualcuno se proviamo nei suoi confronti tale sentimento. Nelle relazioni con gli altri dobbiamo evitare la crescita “spontanea” e meccanica dell’antipatia. Tra l’altro, spesso, l’antipatia per qualcuno non è un sentimento stabile. Osservandosi con sincerità potremmo, infatti, accorgerci che quando siamo in uno stato negativo ci ricordiamo di una certa persona solo delle cose sgradevoli; quando, invece, ci troviamo in uno stato d’animo positivo tendiamo a dimenticarle lasciando più spazio a ricordi piacevoli. Quando lasciamo che sia l’antipatia a governare la nostra vita emotiva consentiamo volontariamente a pensieri e sentimenti sgradevoli sugli altri di occupare la nostra coscienza. Osservandoci noteremo che siamo noi a richiamare alla mente tali pensieri negativi per cui è importante apprendere a neutralizzarli. La considerazione esterna serve appunto a questo, a purificare la nostra vita emotiva da simile emozioni negative. Purtroppo la vita ordinaria non ci richiede di considerare esternamente gli altri, ed è per tale motivo che la sua pratica richiede uno sforzo cosciente. Facciamo un esempio per comprendere questo punto.

Un buon esempio di una persona che utilizza nella sua vita la considerazione esterna è il maggiordomo. Per praticare il suo lavoro egli deve essere un individuo molto intelligente: è necessario che sappia osservare ciò le persone gradiscono, essere attento alle loro peculiarità, a ciò che si aspettano che lui faccia, finanche comprendere ciò cosa le contraria. Deve essere dotato di una intelligenza che gli consenta di adattarsi alle necessità degli altri e avere una propensione a  farsi in quattro sempre per gli altri. Deve avere tatto nei modi di fare e sapere annullare se stesso al servizio altrui. Tutto questo è un ottimo esempio della considerazione esterna, salvo per un particolare: il maggiordomo fa tutto questo perché sta ricoprendo un ruolo e quello che lui compie è uno sforzo richiesto, un dovere. Al contrario nel lavoro la considerazione esterna è diversa rispetto alla medesima agita nella vita ordinaria. Nel lavoro la considerazione esterna deve essere praticata tramite uno sforzo cosciente e volontario, non imposto o richiesto; inoltre, dovrebbe maturare da una reale considerazione rivolta agli altri e non da un agire a noi estraneo. Sicuramente una persona a cui nella vita ordinaria è richiesta la considerazione esterna e, dunque, ne conosce il senso e pertanto è abituata a usarla, potrà capirne meglio il significato quando sarà impegnata nel lavoro su se stessa.

Potremmo comprendere l’importanza della considerazione esterna nel lavoro anche da un altro punto di vista: come pensiamo di poter far evolvere il nostro Essere tramite la consapevolezza di sé se continuiamo nel rapporto con gli altri a fare sempre “i conti” con il dare e l’avere, oppure ad usare un sottile disprezzo o parole che intenzionalmente desiderano ferire l’altro. Si capisce come, allora, la nostra crescita personale non è fatta solo di attenzione a noi stessi ma anche verso gli altri. Nel processo di acquisizione della coscienza, una cosa dipende dall’altra. Proviamo a fare un esercizio utile a lavorare su questo aspetto: per una settimana proviamo a considerare esternamente una persona a noi vicina. Osserviamo quelle che sono le nostre reazioni negative meccaniche nei suoi confronti; proviamo ogni volta che sentiamo nascere in noi un qualche fastidio verso di lei a considerare che ciò che sta facendo o dicendo è il frutto di quegli automatismi che spesso guidano anche il nostro comportamento; cerchiamo di non identificarci e facciamo attenzione al nostro parlare interiore riferito a questa persona e su che cosa esso verte. Cerchiamo di accorgerci che spesso pensiamo che questa persona debba fare cose in base alle nostre aspettative che si basano sul fatto che assimiliamo gli altri a noi. Impariamo così a comprendere che l’altro è realmente diverso da noi e che, quindi, si comporta in modo differente e che affronta la vita non come facciamo noi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 39: LA considerazione interiore

Leggi su: Come mostrare attenzione verso gli altri

impressioni

Impressioni dalla vita: come gestirle

Le impressioni sono tutto ciò che dalla vita arriva a noi e che determinano le nostre reazioni all’esistenza stessa. Esse sono una specie di nutrimento per il nostro essere ma al tempo stesso possono in taluni casi anche intossicarlo. Imparare a fare attenzioni a tali impressioni non solo può aiutarci a “raffinare” le nostre esperienza. Al tempo stesso può anche darci modo di gestire tali impressioni evitando reazioni meccaniche e la nascita di emozioni negative.

La prima cosa che va compresa, come significato profondo del lavoro su di sé, è che ciò che intendiamo con il termine ”vita” è qualcosa che ci arriva sotto forma di impressioni. Ciò che noi percepiamo di “una determinata cosa” ci arriva dalla “vita esterna” come impressione e ciò accade per tutto, in ogni momento. Se vediamo una persona che ci sta antipatica, è perché abbiamo ricevuto per noi impressioni di questo genere. La vita è, dunque, una successione di impressioni, e non come si crede qualcosa di solido e oggettivo. La realtà della vita è che essa è costituita di impressioni. Vivere ci richiede continuamente una reazione a tali impressioni e la totalità di queste reazioni formano la nostra vita individuale. Modificare la nostra esistenza non significa solo modificare le circostanze esterne; talvolta ciò non è possibile e quindi è necessario cambiare le proprie reazioni. Tuttavia, se non siamo coscienti del modo in cui la vita esterna ci sottopone a impressioni rispetto alle quali, per abitudini acquisite, reagiamo in maniera stereotipata, allora non saremo in grado di capire quale sia la questione che rende possibile il cambiamento. Per prima cosa, dunque, è importante acquisire la consapevolezza, ossia conoscere, quali sono le nostre reazioni stereotipate alle impressioni dall’esterno e, soprattutto, metterle in collegamento con specifiche impressioni. Questo, come ricordato in precedenza, è la parte fondamentale del lavoro su di sé, ovvero l’acquisizione di una maggiore auto coscienza, senza la quale nessun vero cambiamento è possibile. Infatti, se le nostre reazioni alle impressioni a cui la vita ci sottopone ricevono spesso reazioni negative, allora tale sarà anche la nostra vita. Quindi il nostro compito consiste nel modificare le impressioni (ossia il modo con cui ci arrivano i fatti e le cose della vita) in modo tale che non diano origine a reazioni negative. Questo occorre fare se si desidera lavorare su di sé.

Dunque, una parte molto importante del lavoro sono le impressioni che riceviamo e queste sono direttamente collegate alla faccenda dell’attenzione. Riceviamo sempre impressioni ma è la loro qualità ad essere determinante. La qualità non si riferisce solo al contenuto di tali impressioni, cosa questa che incide sul loro valore di nutrimento o di intossicazione per la nostra mente, ma anche alla loro intenzionalità. In quest’ultimo caso possiamo ricevere impressioni semplicemente come stimoli che attivano il nostro sistema di reazione meccanico ad essi (impressioni per niente o scarsamente intenzionali), oppure possiamo utilizzare impressioni che sono mediate dalla consapevolezza interiore che abbiamo di noi stessi e, quindi, in grado di produrre un vero “fare intenzionale”. In questo sistema psicologico le impressioni sono un importante strumento di lavoro su noi stessi a patto di essere ricevute in maniera intenzionale, costituendo così una grande fonte di consapevolezza. Un basilare aspetto del lavoro sull’attenzione è finalizzato a maturare una maggiore intenzionalità nei confronti delle impressioni che riceviamo: ciò significa sapere, ad esempio, che cosa sto guardando in televisione, o in che situazione mi trovo, oppure che persona ho davanti e così via.

Osservare una cosa con attenzione o meno produce effetti del tutto differenti: provate a sperimentare questa cosa rispetto ad una strada che percorrete tutti i giorni senza fare caso a ciò che incontrate, alle cose a cui passiamo davanti senza mai vederle. Già questo produrrà una diversa esperienza del luogo, e se a questo aggiungete la consapevolezza di stare facendo attenzione a tutto ciò intenzionalmente, la vostra esperienza muterà ancora. Fino ad arrivare alle consapevolezza delle impressioni che tutto ciò che osservate suscitano in voi. A questo punto appare chiaro che per ricevere impressioni in modo intenzionale è necessario sviluppare la nostra attenzione. Tale attenzione rivolta alle impressioni  esterne deve essere arricchita nel corso del tempo anche con una attenzione rivolta verso noi stessi, al nostro mondo interiore, attraverso lo sviluppo dell’osservazione. Quindi dobbiamo apprendere ad osservarci, concentrandoci sulle nostre reazioni alle situazioni che viviamo allo steso modo in cui osserveremmo un “oggetto” esterno che vogliamo “guardare”, con attenzione. L’attenzione verso noi stessi, che nel lavoro viene più semplicemente chiamata “osservazione”, tende a svilupparsi attraverso la creazione di “Io” che si assumono il compito di portare avanti tale attenzione, ponendosi questo come scopo e obiettivo. Se l’attenzione verso la realtà esterna ci conduce a conoscere meglio il “fuori” di noi, quella interna, l’osservazione ci consente il contatto e la conoscenza del nostro mondo interiore fatto di pensieri, sensazioni ed emozioni.

L’osservazione, ossia l’attenzione a noi stessi, non costituisce un’attività che si esaurisce in se stessa. Infatti, essa è uno strumento utile per fare esperienza dei diversi gruppi di Io presenti nella nostra “individualità” e per evitare di identificarci di volta in volta con gli Io che si attivano. L’osservazione di sé contiene il rischio di creare in noi un distacco da noi stessi, quasi un senso di spersonalizzazione: tuttavia il fine del lavoro, tramite la conoscenza di sé, è quello di giungere ad una unificazione del nostro Essere, attraverso la creazione di un individuo che sia “padrone di sé” e partecipe di tutti suoi diversi aspetti e elementi costitutivi. Ricordiamo che l’attenzione è uno strumento che può essere usato come un nostro prezioso alleato. Per esempio, se sentiamo di essere in balia di una emozione negativa, proviamo a dirigere l’attenzione verso un oggetto intorno a noi al fine di affievolire l’onda emozionale che stiamo provando, per poi ritornarvi con più consapevolezza e lucidità in un momento successivo. Così facendo ci  distogliamo per un certo lasso di tempo da noi, per consentirci  di recuperare il controllo di noi stessi. Inoltre, l’uso dell’attenzione ci aiuta ad uscire anche dallo stato di immaginazione: nel momento in cui ci stiamo “perdendo” in noi stessi seguendo un film immaginario, l’attenzione portata su di noi o verso l’esterno riesce a distoglierci dalle inutili fantasticherie. In questo senso l’immaginazione, intesa come sterile fantasticheria, è inversamente proporzionale all’attenzione.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 25: Esercizi per sviluppare l’attenzione divisa

Leggi sull’attenzione

ricordo di se stessi

Il Ricordo di se stessi

Il Ricordo di se stessi è uno stato mentale che consente di avere sempre ben chiaro che ogni azione, pensiero o emozione che proviamo, c’è sempre in gioco il nostro Essere. Sapere questo nel momento stesso in cui viviamo una esperienza ci permette di rafforzare la nostra consapevolezza, ma soprattutto di mantenere ben orientato il nostro sforzo verso lo scopo di una maggiore coscienza di noi stessi.

Grazie all’esercizio nel corso del tempo dell’auto osservazione, utilizzando lo strumento dell’attenzionedivisa, riusciremo a tornare allo stato di essere nel presente con più facilità e ad estendere le nostre osservazioni anche a quanto ci sta intorno. In questo percorso di osservazione di noi bisogna arrivare a riconoscere che tutte le nostre manifestazioni sono risposte a stimoli che lasciano in noi impressione in grado di evocare nostre reazione. Tutte queste osservazioni impariamo a registrarle e a conoscerle bene, dal momento che esse conducono alla conoscenza di noi stessi, il primo vero passo verso il cambiamento. Tale cambiamento è lento, rifugge dalla fretta che porterebbe ad annullare o accorciare la conoscenza di noi. Spesso in terapia le persone chiedono di cambiare e solo perché lo desiderano vogliono farlo subito. Ma come si fa ad aggiustare una “macchina” se prima non si conosce il suo motore? Ed anche quei cambiamenti fatti su suggerimento, senza una reale presa di conoscenza, finiscono per essere solo cure momentanee e non veri mutamenti di sé. Alcune persone capiscono questo, altre si accontentano di rimedi momentanei perché la vita così come viene vissuta in una dimensione “ordinaria” può richiedere anche solo questo. Il vero lavoro su se stessi è una lenta trasformazione di sé che avviene durante la ricerca; è nell’essere in una condizione di ricerca che prende forma e si attua il processo che ci trasforma. Così in questo percorso più si diventa consapevoli delle proprie manifestazioni, della loro natura e origine, tanto più si determina la possibilità di modificarle in rapporto alla comprensione del momento, tanto più ci trasformiamo.

Se l’essere presenti a se stessi nel “qui ed ora” è lo strumento per realizzare questo sviluppo, il Ricordo di se stessi è il risultato dello sforzo di essere presenti a sé stessi. Ciò significa che il Ricordo di se stessi si verifica nel momento in cui riusciamo ad essere totalmente nel presente, per cui siamo in grado di osservare simultaneamente ogni manifestazione del nostro essere in rapporto al “qui ed ora”. L’accumulo di queste esperienze produce a sua volta una esperienza di rigenerazione con cui alla fine è possibile stabilire un rapporto più diretto con la nostra Essenza. Ogni esperienza del Ricordo di se stessi diventa parte di noi e questa stratificazione di esperienze nutritive ed illuminanti si arricchisce ogni volta che torniamo ad uno stato di Ricordo di se stessi. Dunque il Ricordo di se stessi non è solo il pieno ricordo di noi nel momento presente, ma è anche un ricordo di queste nostre esperienze in grado di favorire il ripresentarsi di altri stati di Ricordo di se stessi e quindi nuova ricchezza a profondità per quanto viviamo. Infatti, una peculiarità del Ricordo di se stessi è l’essere portatore di una memoria reale di un’esperienza, per cui quando ci ritroviamo a riviverla, avremo  una maggiore capacità di riconoscerne gli elementi che la costituiscono e di poter così ampliare nel verso della consapevolezza l’esperienza in corso.

Facciamo un esempio: prendiamo un individuo che ha appreso, grazie all’osservazione di sé, che davanti ad un appunto che gli viene fatto reagisce mostrando rabbia. Trovandosi in circostanze analoghe, in un momento di Ricordo di se stessi, sarà in grado di vedere che la sua è una risposta meccanica e che vivendo tale esperienza con una visione diversa scoprirà che sono possibili anche altre reazioni. Questo gli consentirà di essere padrone di sé e quindi di scegliere una risposta differente. Non è possibile evocare a comando il Ricordo di se stessi fintanto che la persona non abbia sviluppato un certo livello del proprio Essere. Dunque, l’unico percorso che può aiutarci è quello di compiere lo sforzo di  presenti alle nostre vite perché è grazie a questa presenza che creeremo diversi momenti di Ricordo di se stessi che, via via nel tempo, arriveranno in maniera inaspettata e in misura sempre maggiore. Tra gli ostacoli al Ricordo di se stessi, come già detto in precedenza, troviamo i processi di identificazione. Questi non sono soltanto stimolati dall’esterno come quando è la situazione che ci “assorbe” totalmente come nel caso dello svolgimento di un compito, ma provengono anche da noi stessi. Per esempio, il costante turbinio di pensieri in cui ci sentiamo talvolta persi e così rumorosi rispetto a qualunque voce di altri Io che ci richiamerebbero ai principi del lavoro. Fermare tale turbinio è già uno spunto in grado di portarci al Ricordo di se stessi, per cui se seguissimo tale volontà otterremmo al tempo stesso la fine di quella confusione mentale e un benefico contatto con noi stessi grazie alla coscienza di sé.

La maggiore o minore conoscenza e consapevolezza degli ostacoli presenti in noi rispetto al lavoro fornisce la possibilità o meno di svolgerlo con profondità. Se conosciamo le nostre caratteristiche, i comportamenti abituali, a quali ammortizzatori (difese psicologiche) facciamo ricorso e, in generale, le altre componenti del nostro mondo interiore, potremo orientare il nostro impegno e scegliere i nostri scopi in modo intenzionale e mirato, lavorando su specifici aspetti di noi e intensificando in certe circostanze l’azione del Ricordo di se stessi. Naturalmente queste condizioni si strutturano con il tempo perché non basta desiderare che tutto ciò avvenga, ma è necessaria la volontà di attuare il lavoro. Ovviamente tale percorso è auspicabile seguirlo con l’aiuto e l’esperienza di chi già conosce questo metodo.

Tramite il lavoro si comincerà a “sentire” la presenza di nuovi elementi nella nostra esperienza e a vederli in ciò che facciamo e nelle situazioni che viviamo. Gli eventi che ci coinvolgono assumeranno per noi differenti significati e li potremo osservare da nuovi punti di vista; saremo in grado di considerare ipotesi precedentemente non immaginabili. Tutti questi risultati sono un effetto del Ricordo di se stessi e del risveglio della consapevolezza.
Restiamo su quest’ultimo punto, quello della scoperta di alternative nei punti di vista sulla realtà e nelle ipotesi. Nel lavoro su se stessi c’è una considerazione che è bene tenere a mente: non è possibile fare qualcosa se prima non ne abbiamo conoscenza o esperienza. Esistono per ciò che riguarda il nostro essere delle esperienze che non abbiamo mai vissuto e delle idee di cui non sappiamo nulla. Inoltre, siamo abituati ad avere comportamento conosciuti e a compiere azioni basate su un limitato numero di possibilità automatiche. Talvolta non sappiamo e, molto più spesso, non accettiamo che possa esistere un altro modo di agire anche se a noi sconosciuto. Tramite il lavoro su di noi e al conseguente uso del Ricordo di se stessi iniziamo a fare esperienza e a percepire l’esistenza di nuove realtà, aprendoci a possibilità fino ad allora considerate irreali o impossibili. Attraverso il riconoscimento sincero del nostro essere limitati annulliamo la forza degli ammortizzatori ed iniziamo a sostituire le usuali giustificazioni con gli apprendimenti delle nuove esperienze, espandendo così la percezione delle nuove possibilità.
Anche la percezione del tempo cambia con il Ricordo di se stessi dal momento che il vissuto delle esperienze si fa più intenso e ricco. Quello del Ricordo di se stessi è un percorso che non ha fineperché la possibilità di allargare le proprie conoscenze e percezioni non si arresta mai, visto che possiamo continuare ad arricchire tale consapevolezza nel tempo.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 19: Essere presenti a se stessi

Leggi come vivere nel presente

identificazione 1

L’identificazione e la perdita della coscienza

Lo stato di identificazione si concretizza quando, troppo presi in una azione che stiamo compiendo, restringiamo la nostra attenzione ad un unico focus.  In genere riteniamo normale questo modo di funzionare della nostra mente che invece ci allontana dalla consapevolezza di noi stessi e di quanto accade intorno a noi.

L’identificazione è un particolare stato dell’individuo in cui in un dato momento la sua identità è associata ad una cosa sola. Ad esempio, quando siamo intensamente presi da un evento o da un pensiero, tendiamo a dimenticarci di tutto ciò che abbiamo intorno e che dovrebbe comporre l’insieme degli elementi che formano il nostro “qui ed ora”. Tale mancanza di contatto con la realtà più vasta è lo stato naturale dell’uomo ordinario. Potremmo, per descrivere lo stato di identificazione, paragonare il presente in cui vive un individuo ad una torta che si compone di più fette: ogni fetta è una porzione della realtà, compresa la nostra individualità del momento. Chi si trova in uno stato di identificazione vive come se la singola fetta di torta fosse tutta la torta, dimenticandosi di sé e degli altri aspetti del reale. In base a quale meccanismo avviene questo processo? Sicuramente una parte in causa ce l’ha quanto abbiamo appreso nel corso della vita, per cui ogni sollecitazione che ci arriva stimola in noi una risposta predeterminata che cattura tutto il nostro essere, stimolando così una identificazione con lo stimolo. Così diventiamo un tutt’uno con lo stimolo e in questo stato siamo in suo potere. Chiaramente laddove c’è identificazione non c’è consapevolezza perché i due processi sono tra loro antagonisti.

Per capire lo stato di identificazione è necessario farne esperienza: alcuni esempi possono essere lo stato di totale assorbimento nel mentre che svolgiamo un compito impegnativo, per cui ci astraiamo da tutto il resto e quanto è intorno a noi ”smette di esistere”; oppure quando siamo stimolati dal comportamento di una persona che suscita in noi rabbia, per cui siamo talmente presi nel manifestare questa emozione negativa che perdiamo il contatto con noi stessi (urliamo senza accorgercene) e con chi è intorno a noi. L’identificazione è quindi una sorta di incantesimo in cui finiamo per smarrirci. È molto importante, inoltre, per capire l’identificazione fare caso a quando riusciamo a interrompere tale stato, perché solo allora saremo in grado di renderci conto dello stato di poca consapevolezza in cui versavamo. Per riprendere l’esempio di prima: se stiamo urlando la nostra rabbia verso qualcuno e ci fanno notare il tono alto e sguaiato della nostra voce allora siamo in grado di ritornare in noi stessi, abbassando i toni e forse interrompendo l’esternazione della rabbia. In questo stesso caso è facile fare esperienza anche di quelle persone che pur sollecitate da altri ad abbassare il volume della propria voce, continuano imperterriti ad essere arrabbiati: in questi casi l’identificazione è talmente forte e totalizzante che neanche uno shock riesce a farle tornare in se stesse.

I gradi di identificazione sono differenti: da quelli più leggeri e superficiali da cui è possibile separarsi con facilità a quelli più profondi di cui non siamo neppure consapevoli come ad esempio l’identificazione con il nostro Io immaginario. Come iniziare a lavorare per apprendere a contrastare le identificazioni in cui possiamo cadere? Naturalmente per disidentificarci è necessario uno sforzo intenzionale di consapevolezza. Così per esempio un utile esercizio potrebbe essere quello di espandere la nostra consapevolezza a quanto ci circonda, interrompendo così volontariamente il coinvolgimento in una attività che ci assorbiva completamente.  Ciò significa impegnarsi nel compiere lo sforzo di dirigere l’attenzione verso altri elementi presenti intorno a noi in un dato momento. Le prime volte queste interruzioni dell’attenzione ed espansione della consapevolezza devono essere programmate e ce le dobbiamo imporre (sforzo cosciente). Facendo questo riusciremo a comprendere nell’esperienza cosa voglia dire essere identificati e come questo meccanismo faccia scomparire il resto della realtà e soprattutto noi stessi.

Ad esempio, mentre stiamo vedendo un film alla televisione programmiamo di interrompere lo stato di identificazione in cui finiamo quando ci coinvolgiamo con le scene del film, iniziando a guardarci intorno e distogliendo l’attenzione da ciò che ci cattura. Osserviamo la stanza in cui siamo, facciamo attenzione ai rumori che ci arrivano; quindi ritorniamo a guardare il film riproponendoci di riconoscere il momento in cui torneremo ad identificarci nuovamente con il film, con l’intenzione di frenare tale identificazione. Contrariamente a quello che si possa pensare, lo stato di identificazione con qualcosa è costante nella nostra giornata, dal momento che siamo soliti passare da un’identificazione all’altra. Dunque l’identificazione è una condizione in cui versa l’individuo nel suo stato ordinario, completamente assorbito da ciò che sta facendo in un dato momento, privo della consapevolezza di sé o di quello che lo circonda, e incapace di interrompere questo stato (perché non se ne rende conto).

In tale stato di identificazione vertono le vite delle persone: mentre lavorano, parlano con qualcuno, leggono un libro  o ascoltano della musica. In tutte queste situazioni esse sono identificate con qualcosa e non riescono ad avere una visione più ampia di quanto accade ad un livello più ampio. A sostenere questo stato di cose c’è la convinzione che per fare bene una certa azione (assolvere ad un compito, godere di qualcosa, etc.) bisogna essere identificati con essa. Proprio per queste ragioni il lavoro per disinnescare l’identificazione richiede uno sforzo particolare ed tanto difficile. In realtà, l’idea che rende necessaria l’identificazione per compiere un lavoro è errata e l’esperienza insegna che in realtà in uno stato di attenzione divisa è possibile compiere qualsiasi lavoro più accuratamente e consapevolmente rispetto a qualunque altra condizione meccanica. Ogni volta che ci rendiamo conto di esserci identificati in qualcosa dobbiamo iniziare nuovamente a dividere l’attenzione, rendendoci conto che esistono in quel momento anche altre. L’identificazione è quindi solo una visione parziale della realtà e capire questo può aiutarci ad avere coscienza della necessità di interromperla.

La forza dell’identificazione sta nell’elemento emozionale di cui essa ha bisogno. Tutto nasce dal fatto che c’è, qualcosa che ci attrae o che ci respinge, tanto da farci precipitare in uno stato di fascinazione o di repulsione. Gli effetti esperienziali  dell’identificazione sono quelli del sentirci svuotati, al contrario della vita emotiva sana che invece porta energia.  Per fermare l’identificazione attuando lo sforzo necessario bisogna introdurre il ricordo di sé, capace di strapparci dal nostro sonno e ricordarci dell’urgenza del lavoro su noi stessi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione n. 12

Leggi sull’ identificazione

immaginazione

L’ immaginazione come fuga da se stessi

L’ immaginazione è il primo degli ostacoli che si frappongono fra noi ed una piena consapevolezza di noi stessi. Essa agisce ogni volta che il nostro pensiero in modo automatico, anziché centrarsi sull’osservazione della realtà, slitta su fantasie, desideri e “invenzioni”. L’abitudine a questo tipo di stato mentale finisce per farci perdere il contatto con ciò che noi siamo realmente, contribuendo alla costruzione di una falsa personalità.

L’essere umano, come anche la psicologia scientifica ha dimostrato, funziona di fondo secondo uno schema meccanico stimolo-risposta, per cui ad ogni stimolo che riceve viene evocata in lui una certa risposta automatica. L’origine di queste risposte, diverse da individuo a individuo provengono da un accumulo di esperienze maturate nella vita. Dall’infanzia all’età adulta ognuno di noi accumula informazioni, matura atteggiamenti ed idee, elabora concetti che vengono registrati nella nostra mente. Stiamo parlando di risposte che attengono sia al nostro comportamento motorio, sia di tipo emotivo, sia riguardanti il nostro pensiero. Chiaramente tutto ciò che viene immagazzinato sotto forma di schema è collegato a certe situazioni e avvenimenti, per cui tali schemi di risposte vengono “riprodotti” nel momento in cui un determinato stimolo è uguale, simile o in relazione con l’evento in cui abbiamo appreso quella risposta. Dunque tutto funziona per catene associative. Facciamo un esempio: mentre siamo impegnati a guidare la nostra automobile, se vediamo una mamma con il suo bambino, attraverso una associazione di pensiero, potrebbe venirci di pensare a nostro figlio, oppure potremmo immergerci in considerazioni più ampie relative a come è stata bella per noi l’infanzia di nostro figlio. Dunque, ogni stimolo che ci giunge evoca in noi una risposta. Nel sistema psicologico della Quarta Via, l’insieme delle risposte, soprattutto emotive o di pensiero, prodotte da uno stimolo generano ciò che si chiama immaginazione. Essa è un fantasticare indotto da stimoli esterni o interni all’individuo, quindi meccanico perché basato su di un automatismo associativo dei pensieri, condotto senza.  Si tratta di un sognare ad occhi aperti, nel farsi un “film mentale”, senza che noi ne possiamo avere consapevolezza. Gran parte del nostro tempo lo trascorriamo in preda di questa condizione che è, comunque, ben diversa dall’azione creativa del nostro pensiero, che invece è il frutto dell’intenzionalità ed è rivolta ad un fine. Il pensiero associativo dell’immaginazione, invece, semplicemente accade.

Questa tendenza automatica all’immaginazione costituisce il primo ostacolo verso una piena consapevolezza di sé. Quando cominciamo ad osservarci, ben presto è possibile renderci conto che l’impedimento principale a tale osservazione è proprio l’immaginazione. Quando desideriamo osservare realmente qualcosa di noi, interviene l’immaginazione che si impadronisce del nostro sforzo mentale, lo dirotta verso un fantasticare, un figurarsi cose riguardo noi stessi e così facendo finiamo per dimenticarci di “guardare”. In questo contesto alla parola “ immaginazione” viene dato un senso artificioso e negativo, lontano dal significato di facoltà creatrice.  Ma quest’ultima è ben altra cosa, mentre l’immaginazione come automatismo che ci porta su un piano irreale rispetto alla conoscenza di noi stessi, è una facoltà distruttrice. Essa non può essere controllare proprio perché meccanica e ci allontana sistematicamente dal prendere decisioni più coscienti, portandoci verso direzioni dove non avevamo intenzione di andare. L’immaginazione meccanica è, quindi, paragonabile ad una menzogna verso se stessi. L’individuo comincia ad immaginare qualcosa su di sé per far piacere a se stesso e così finisce per credere a quanto immagina, perdendo contatto con il suo reale essere.  L’immaginazione si fonda sull’assenza di confronto reale con il mondo che ci circonda. Un’altra differenza rispetto al pensiero creativo sta nel fatto che l’immaginazione non lascia traccia dal momento che spesso difficilmente ricorderemo i pensieri che abbiamo avuto.

L’immaginazione non conduce a nessun risultato reale, invece consuma molta energia mentale e tempo, nutrendo per di più un uso errato del pensiero. Infatti, spesso l’immaginazione si fonda su pensieri illusori o totalmente irreali che, tuttavia, finiscono per essere considerati reali. Facciamo un esempio: spesso quando abbiamo una difficoltà o un problema con una persona ci capita di costruire fantasie e pensieri in cui immaginiamo l’assenza del problema o in cui risolviamo “magicamente” la questione; talvolta inventiamo situazioni in cui “costruiamo” addirittura discorsi immaginari con gli interlocutori in questione. Tutte queste immaginazioni sono una fuga dalla realtà anche se momentaneamente ricompensatrici e purtroppo una volta che il loro effetto svanisce si ripiomba nella “vera” realtà dei fatti più stanchi e più fiacchi, più inclini alla delusione vista la discrepanza che questa ha rispetto alla fantasia. Talvolta, se l’immaginazione è così potente può comportare anche come risultato una distorsione della realtà, portandoci a maturare delle convinzioni poco utili ad affrontare le vere questioni. L’uso dell’immaginazione può arrivare ad essere così pervasivo da far sì che le persone scambino i suoi prodotti come reali. Basti pensare al caso del disturbo psichico della paranoia in cui chi ne è afflitto finisce per vedere nemici a causa di continue fantasie in cui si immaginano irrazionalmente pericoli dovunque a causa dell’assenza di confronto con la realtà esterna. Un altro esempio di un a tipologia di immaginazione molto diffusa è quella caratterizzata da contenuti negativi: in questo caso i pensieri e le fantasie indugiano su disgrazie e sciagure, mettendoci nella condizione emotiva di vivere nell’attesa che esse accadano.

Preoccuparsi per qualcosa non equivale a pensare. In questo caso la mente è mossa verso la preoccupazione sulla spinta dello stato emozionale, con la conseguenza di offuscare se stessa. Prestare attenzione a qualcosa è sempre di aiuto, perché l’attenzione ci conduce ad essere più coscienti di noi. Al contrario, preoccuparsi equivale a pensare ad altro. In ogni caso, non si deve pensare che lo stato d’animo opposto alla preoccupazione sia l’indifferenza. È giusto e ci si deve  sentirsi in ansia per una persona che non sta bene  –  un miscuglio di speranza e timore – ma la preoccupazione è molto diversa, perché in essa entra in gioco l’immaginazione. Così strutturato e così vissuto questo stato d’animo si trasforma in abitudine, come accade con molti altri stati emotivi negativi, e le persone finiscono con il credere che, sotto questa forma,  sia una cosa meritevole preoccuparsi per gli altri. La gente arriva a ritenere che in questa modalità sia giusto preoccuparsi di tutto, nel passato e nel futuro, per se stessi e per gli altri. E così facendo l’immaginazione prende sempre più piede nei nostri processi mentali.

Nella società in cui viviamo gran parte dei processi che avvengono sono uno stimolo al ricorso all’immaginazione. Spesso le persone sognano per sé una moglie o un uomo ideale. Oggigiorno sono molti gli stimoli esterni che stimolano e intensificano tale esigenze tipiche delle persone “addormentate”: il cinema, le telenovele, ecc. Tuttavia queste fantasie formate da una immaginazione errata, finiscono poi per essere alimentate delle nostre energie, dato che hanno bisogno di queste per continuare a mantenersi vive. Tutte queste forme d’immaginazioni prendono la loro forza da noi stessi. Tutto questo succede nella maggior parte delle persone, durando a volte per tutta la loro vita ed esaurendole così  in molti modi diversi, fino a renderle incapaci di instaurare vere relazioni con gli altri o un corretto contatto con la gente vera. Del resto l’immaginazione è una delle disposizioni dell’uomo a cui fa riferimento il lavoro su di sé affermando che è fondamentale lottare e combattere con determinazione.

Come già detto, l’immaginazione non è assoggettata al nostro controllo, come il pensiero creativo, per cui essa non è utile al lavoro su noi stessi, dal momento che spesso ci porta a immaginare ciò che non siamo e quindi a costruirci una immagine irreale di noi stessi.  In generale, comunque, l’ immaginazione è ben distinta dal pensiero e la ragione di ciò sta ancora una volta nel controllo: quando pensiamo noi lo esercitiamo e i contenuti che si susseguono non accadono semplicemente. Per  lavorare al fine di neutralizzare l’ostacolo rappresentato dall’immaginazione dobbiamo per prima cosa saperla riconoscerla nel ostro agire quotidiano. Quindi dobbiamo imparare a fermarla, riportando il pensiero sulle cose reali e interrompendo il flusso di associazioni incontrollate alla base dell’immaginazione. Tutto ciò è difficile a farsi perché quando siamo catturati dall’immaginazione, come in un incantesimo, vediamo solo ciò che vogliamo, e spesso i fatti sono presi in maniera superficiale ed incompleta. Dunque per riuscire ad arrestare l’immaginazione dobbiamo sforzarci di essere più oggettivi e realistici, di avere il coraggio di considerare quanti più elementi possibile della situazione, sia interiore che esteriore. Questo ci porterà ad ancorarci maggiormente alla realtà intorno a noi,  togliendo così terreno all’immaginazione. Per fare questo, come accade nel lavoro di smantellamento degli ostacoli, dobbiamo avere degli scopi (essere consapevoli e coscienti di noi stessi )e la conoscenza di come funziona l’essere umano, in grado di sostenerci nelle sperimentazioni nella nostra vita quotidiana.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi la lezione numero 9

Leggi sull’immaginazione

centri

I centri della mente: come funziona l’essere umano

La macchina Umana si suddivide in quattro centri – istintivo, motorio, emozionale e intellettuale – ognuno con uno specifico funzionamento. Chiunque voglia svolgere un lavoro su se stesso deve apprendere a conoscersi attraverso la percezione di come funzionano queste parti del proprio essere.

La possibilità di sviluppare un livello di consapevolezza di sé poggia su un attento studio della propria persona e per far questo bisogna sapere cosa osservare in maniera ordinata. Così lo studio di sé deve partire dall’osservazione delle quattro funzioni principali in cui si sostanzia il funzionamento del nostro organismo/mente. La prima cosa che si deve fare riguardo al lavoro pratico su di sé è osservare le differenze nei  quattro centri che esistono nell’uomo e come stanno lavorando questi centri in un dato momento. Ma partiamo dall’individuazione di queste quattro funzioni. La macchina umana è composta da quattro parti che, nel sistema della psicologia basata sulla Quarta Via, sono definite come centri. Esse hanno a che fare con  differenti funzioni rispetto alla vita interiore ed esteriore dell’individuo. Questi centri sono:

  • il centro istintivo, da cui dipende il funzionamento biologico dell’organismo. Tale centro agisce automaticamente nel mantenere in uno stato di equilibrio fisiologico l’essere vivente.
  • il centro motorio, che si occupa della gestione delle funzioni motorie esteriori volontarie. La differenza tra le funzioni istintive e motorie è chiara e facile da comprendere: le prime sono innate e non dobbiamo impararle per poterle utilizzare; le seconde devono essere acquisite tutte quante, così come un bambino deve apprendere a camminare.
  • il centro emozionale, che gestisce la vita emotiva dell’individuo. Nel suo funzionamento tale centro, rispetto agli altri tre, è il più veloce.
  • il centro intellettuale, che ha a che fare con il pensiero. Esso è il più lento di tutti i centri ed è il primo con cui iniziare a lavorare su noi stessi. Tutti gli uomini compiono un qualche tipo di lavoro intellettuale. Ogni “pensiero” che richiede una dose di attenzione ci colloca nella parte cosciente del centro intellettuale; così accade quando cerchiamo di pensare a qualcosa che abbiamo ascoltato e cerchiamo di ricordarlo, quando leggiamo un libro, quando scriviamo una lettera e facciamo dei conti, ecc. Nel lavoro su di sé è importante far funzionare il proprio “cervello” tutti i giorni. Il pensare genuinamente è una cosa che richiede uno sforzo e, purtroppo, le persone fanno ciò raramente.  Quando si consiglia, durante il lavoro su se stessi, di far “funzionare il cervello” una volta al giorno, vuol dire compiere un vero sforzo di pensiero. Infatti, ciò che comunemente chiamiamo pensiero è un semplice pensare automatico, un fluire di associazioni, un’accozzaglia di idee vaghe e ricordi che si susseguono, solo occasionalmente interrotti per usare consapevolmente il pensiero.

Come si può dedurre da queste brevi descrizioni dei centri, ognuno di essi ha una propria sfera di azione anche se tutti quanti insieme partecipano ad ogni nostro comportamento; inoltre, ogni centro ha modalità proprie di sviluppo che possono procedere anche differentemente. Così possiamo incontrare persone che hanno sviluppato molto la propria funzione emotiva mentre altre quella intellettiva. Rispetto alla consapevolezza, ad eccezione di quello istintivo, i centri possono funzionare in diverse maniere, più o meno coscientemente: così potremo avere pensieri, emozioni e compiere azioni in maniera consapevole, oppure in modo del tutto incosciente. Ciascun centro è poi diviso in una metà positiva e in una metà negativa, e tale accezione non è da intendersi in termini morali, ma solo come dicotomia funzionale nel senso di affermazione/negazione, si/no, azione/non azione. Per esempio, in riferimento al centro intellettuale la metà positiva è la parte che afferma, quella negativa è la parte che nega. La parte negativa del centro intellettuale entra in funzione quando pensiamo “no”, quando neghiamo. Al contrario la parte positiva del centro intellettuale si manifesta quando si pensa “sì”, quando si afferma. Per il corretto funzionamento del centro intellettuale sono necessarie entrambi i lati, per cui senza la parte negativa sarebbe impossibile pensare. Infatti pensare vuol dire confrontare una cosa con un’altra, dunque se avessimo come strumento di pensiero solo l’affermazione, non sarebbe possibile fare confronti. I problemi nascono quando tra questi due lati del centro intellettuale si viene a creare uno squilibrio. Per molte persone è facile dissentire, ossia usare abitualmente la parte negativa del centro. Usare abitualmente il dissentire, la disapprovazione, la denigrazione, lo screditare, ecc., vuol dire utilizzare il centro negativo senza fare confronti. Sicuramente un individuo che pensa così andrebbe evitato perché cerca di distruggere tutto ciò che gli viene detto. Questo funzionamento troppo spostato sul lato negativo equivale ad un uso sbagliato del centro. D’altra parte anche una persona che pensi solo utilizzando il lato positivo farà fatica a comprendere i principi del lavoro su di sé perché non avrà sperimentato il conflitto e la lotta fra le parti negative e positive e, quindi, non potrà lottare e impegnarsi per superare questi attriti.

Per il centro motorio la suddivisione riguarda la lo stato di moto o di staticità del nostro organismo. Nel centro emozionale la divisione positivo/negativo è più particolare: infatti quelle che definiamo come emozioni negative (rabbia, odio, aggressività, etc.) non sono proprie di questo centro, ma si tratta di stati emotivi acquisiti tramite l’educazione e per imitazione (atteggiamenti appresi). Dedicheremo alle emozioni negative una apposita trattazione perché imparare a disinnescarle è una importante parte del lavoro su se stessi. Senza esagerare possiamo dire che il centro emozionale raramente funziona in forma corretta, a causa dell’azione delle emozioni negative, generate come una sorta di infezione dal nostro vivere. Possiamo assistere oggi al fenomeno per cui sono proprio le emozioni negative a governare la vita, e le persone si aggrappano sempre di più ad un immaginare negativo piuttosto che ad altre cose. La vera parte negativa del centro emozionale è quella che ha a che fare con il dolore che sperimentiamo in occasione di particolari sofferenza reale, come ad esempio il lutto per una persona cara. É utile sottolineare che quando iniziamo a studiare noi stessi attraverso l’osservazione di sé non osserveremo fisicamente e direttamente i centri, bensì le loro funzioni, ossia le loro particolari espressioni così come si manifestano nella nostra esistenza esteriore ed interiore. Più osservazioni saremo in grado di accumulare maggiore sarà la consapevolezza che avremo a disposizione e più grandi saranno le possibilità che avremo di controllare l’espressione di questi centri. Ogni manifestazione dei nostri centri (ad eccezione forse di quello istintuale) può essere gestita nel momento i cui avremo imparato a conoscerla, quando saremo in grado di riconoscere in che modo le varie funzioni si manifestano in risposta ad un certo stimolo ed a certe condizioni. Questo ci darà modo non solo di capire meglio il funzionamento della nostra macchina ma anche di saper “prevedere” quali condizioni esteriori generano certe nostre espressioni, dunque ad apprendere a gestire anche il nostro rapporto con le circostanze esterne a noi.

Qualche lettore potrebbe trovare “noiose” queste descrizioni di come funziona l’essere umano ad un livello ordinario e, soprattutto, potrebbe essere portato a intravedere poco l’utilità di un lavoro centrato sull’osservazione di “cose così ovvie”. Tuttavia ogni grande impresa richiede dei preparativi che si basano su azioni apparentemente noiose ma che si rivelano prerequisiti indispensabili e in grado di portarci successivamente  al compimento dell’opera. Come spesso si ricorda nel lavoro su se stessi: la gente quando si ripropone di arrivare ad una meta, cerca di correre prima ancora di saper camminare. Dunque se avete manifestato a voi stessi l’intenzione di lavorare sulla vostra consapevolezza provate a seguire le indicazioni di queste lezioni, senza boicottare la vostra volontà con confortevoli obiezioni che però vi fiaccano.  Il lavoro su se stessi funziona solo se fatto volontariamente e non perché qualcuno impone di farlo. Lavorare su se stessi di mala voglia o per prestigio, è una cosa; lavorare su di sé perché c’è qualcosa che non va e si desidera cambiare, è un’altra cosa.

Per ciò che riguarda la parte pratica di questa settimana, ci rifacciamo direttamente alle parole di P.D. Ouspensky: “In determinati momenti della giornata, dobbiamo cercare di vedere in noi stessi cosa pensiamo, come sentiamo, come ci muoviamo e così via. In un certo momento vi potete concentrare sulla funzione intellettuale, in un altro su quella emozionale, poi sull’istintiva o sulla motoria. Per esempio cercate di scoprire cosa state pensando, perché lo pensate e come lo pensate. Cercate di osservare le sensazioni fisiche quali il calore, freddo, ciò che vedete, ciò che sentite. Allora, ogni volta che fate un movimento potete vedere come vi muovete, come sedete, come state ritti, come camminate e così di seguito. Non è facile separare le funzioni istintive, perché nella psicologia ordinaria essere sono confuse con quelle emozionali; ci vuole tempo per metterle a posto.”

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logicadegli argomenti.

Leggi lezione n. 1Lezione n. 2Lezione n. 3Lezione n. 4

Leggi sulla consapevolezza

Consapevolezza, responsabilità e libertà

Vivere con consapevolezza è una scelta che ogni individuo può compiere liberamente. Nathaniel Branden ci spiega come l’uso intenzionale della consapevolezza sia essenziale per consentire alla nostra mente di funzionare al massimo e raggiungere così i nostri obiettivi e il benessere.
Nathaniel Branden, L’arte di vivere consapevolmente. Corbaccio

Il problema di vivere consapevolmente non sorgerebbe se non avessimo il potere, entro certi limiti, di regolare le attività della nostra mente, cioè se la consapevolezza non fosse un atto di volontà. A un essere la cui coscienza opera automaticamente non occorre consigliare di vivere consapevolmente: questo essere non percepirebbe neppure l’esistenza di un’alternativa. Un cane, per esempio, è programmato dalla natura per usare i suoi sensi al massimo del loro potenziale. Noi non siamo programmati per usare la nostra mente al massimo del suo potenziale. Possiamo scegliere o meno di pensare quanto serve per raggiungere i nostri obiettivi e il benessere. La decisione spetta a noi. La capacità di concentrare o meno la nostra mente, di pensare o meno, di sforzarci di essere consapevoli o meno, di affrontare la realtà o meno, dipende dalla nostra volontà.
L’essenza della nostra libertà psicologica si può riassumere come segue:

  • Siamo liberi di essere attenti, oppure di essere distratti, oppure di evitare deliberatamente di essere attenti.
  • Siamo liberi di pensare, oppure di essere distratti, oppure di scegliere deliberatamente di non pensare.
  • Siamo liberi di sforzarci di guardare con chiarezza certe cose che ci succedono, oppure di guardarle distrattamente, oppure di scegliere attivamente il buio.
  • Siamo liberi di esaminare i fatti sgradevoli, oppure di sfuggirli.

Continua a leggere su: Nathaniel Branden, L’arte di vivere consapevolmente. Corbaccio

Leggi di più su cosa è la coscienza
Leggi articolo su Consapevolezza esterna e interna