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il processo di individuazione

Il processo di individuazione per Jung

Il processo di individuazione è funzionale alla persona perché grazie ad esso diventa realmente un individuo, con una propria personalità. In altri termini, il processo di individuazione si struttura come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi.

“Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”

COMMENTO – Il processo di individuazione è un percorso di progressiva capacità da parte dell’individuo di essere sempre più se stesso, esprimendo le proprie caratteristiche e divenendo così un Essere distinto e separato dalla collettività in cui vive. Al tempo stesso l’individuazione di sé non pone la persona contro o al di fuori dalle norme collettive; il processo di individuazione non si realizza contro qualcosa ma attraverso il riconoscimento della nostra più pura interiorità. Come individui fin dalla nascita siamo raggiunti da un enorme numero di richieste, impressioni dall’esterno che, per via dei processi di adattamento e di educazione, facciamo nostri. Se da una parte tutte queste influenze contribuiscono a formare ciò che noi siamo, dall’altra per le esigenze della vita quotidiana ci spingono a conformarci alla collettività in cui viviamo. Così nel tempo perdiamo il contatto con ciò che realmente noi siamo e finiamo per ritenere di essere la nostra esteriorità. La possibilità di recuperare un rapporto con la nostra interiorità, conscia o inconscia, ci può mettere in grado di riscoprire noi stessi e di ascoltare e realizzare ciò che noi siamo. In questo consiste il processo di individuazione, nel percepire e valorizzare la nostra unicità nelle scelte che compiamo e nei pensieri che facciamo.

Chiaramente come sottolinea Jung  “la piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Questo per sottolineare come il processo di individuazione sia un percorso difficile (è molto più facile conformarsi acriticamente), la cui durata è pari alla vita di un individuo e giammai completo. Ma non per questo dobbiamo desistere dall’impegnarci in esso. Una delle difficoltà che segnala Jung a proposito è il prezzo che esso richiede, individuabile in una certa dose di isolamento: “la sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Sentirsi individui vuol dire a volte avvertire il senso della propria solitudine. Un esempio di ciò potrebbe essere la consapevolezza di sapere che le risposte importanti che cerchiamo per la nostra esistenza non si trovano già pronte in ciò che la società suggerisce ma vanno cercate in noi stessi per essere valide individualmente. Avere la forza di fare ciò vuol dire essere fedeli a se stessi.

Il contatto con la propria interiorità che il processo di individuazione chiede, comporta la piena accettazione di tutti gli aspetti psicologici che ci appartengono e solo questo riconoscimento di noi stessi può permetterci di trovare il nostro giusto posto nella collettività. Come sottolinea Jolande Jacobi: “studio e realizzazione di sé stessi sono perciò (o dovrebbero essere) la premessa indispensabile per l’assunzione di doveri superiori, non fosse altro che di quello di realizzare il senso della vita individuale nella forma migliore e nella massima possibile ampiezza”. “ Infine, una ultima precisazione: il processo di individuazione non significa individualismo ed egocentrico perché grazie ad esso l’individuo non diventa “egoista” ma apprende solo a conoscere ciò che realmente è contribuendo così a costruire la propria identità

Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

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tormento

Il tormento dell’individuazione

Il tormento dell’individuazione sono quelli causati dal senso di colpa che si accompagna sempre, secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung, al processo di individuazione. Sia che assecondiamo la nostra personale realizzazione sia che veniamo meno ad essa, il tormento del senso di colpa rimane un sottofondo che attraversa la nostra esistenza…

“Quando parliamo di individuazione, parliamo di qualcosa che ha a che fare con la pienezza di sé: dunque, di qualcosa che va al di là di ogni traguardo sociale, di ogni dovere morale. Di ogni desiderio, proposito, volontà. Non c’è bisogno allora di addentrarsi più di tanto nel tema per comprendere quale scacco possa rappresentare per un’intera esistenza mancare la propria individuazione. (…) Detto altrimenti, mancare il compito fondamentale è la colpa più grande che potremmo commettere verso noi stessi e, di conseguenza, verso il mondo. Davanti al tribunale della natura, sosteneva ancora Jung, non giungere a comprendere chi siamo, e ancora più non diventarlo. non è mai giustificabile. Nella maggior parte di questi casi, succede che alla fine ci si accorge di essere diventati qualcun altro: abbiamo preso un modello, un esempio, l’abbiamo preso per attrazione, oppure per invidia, ne abbiamo peraltro tratto dei vantaggi. Noi stessi ce ne siamo vantati. Insomma, abbiamo preso una vita in prestito che, prima o poi, saremo chiamati a restituire. In vicende come queste, non c’è beneficio che potremmo aver tratto, capace di far tacere il senso di colpa, che prima o poi si farà sentire. (…) Se al contrario daremo credito all’appello interiore, e ci disporremo a interrogarci sulla nostra individuazione, se eviteremo la finzione, l’imitazione, la maschera, e ogni altro travestimento, ebbene sperimenteremo da subito quanto tutto ciò ci esponga inevitabilmente proprio al sentimento di colpa. Ogni passo verso la comprensione di noi stessi, e ancor più verso il nostro compimento, ogni tappa di questo percorso, ogni gradino di questa scala comporteranno infatti, inevitabilmente, quasi fosse una maledizione, di dover compiere qualche “peccato”. Ci sarà sempre qualcuno che, non volendo noi sacrificare nulla della nostra verità, finiremo per deludere, o per offendere, per tradire o per ferire, per abbandonare o per umiliare. L’individuazione è dunque una brutta storia, perché da qualunque parte la si prenda ha nel sentimento di colpa la sua “segreta simmetria”. Sospinti dall’appello individuativo, chi non faremo patire? A chi non procureremo un piccolo o grande dolore?

COMMENTO: Il tormento psicologico generato dal senso di colpa è un vissuto che si presenta inevitabilmente ogni volta che ci separiamo da qualcosa venendo meno ad aspettative, sensi di appartenenza, comodi modelli preformati, per seguire la strada del proprio sviluppo. Quando scegliamo di realizzare noi stessi, il tormento del senso di colpa è un prezzo da pagare  richiesto a ognuno di noi per portare avanti il processo di individuazione. Del resto è impossibile sfuggire da questo tipo di sofferenza perché il tormento del senso di colpa lo sperimenteremmo comunque, anche se cercassimo di sfuggire e di bloccare il nostro processo di individuazione. Infatti, anche la rinuncia a se stessi viene pagata con un caro prezzo, anch’esso rappresentato dal tormento di non avere avuto il coraggio di vivere la nostra vita, costruendola secondo le nostre aspirazioni e desideri. Come ricordano Quaglino e Roma: “Dunque, dovremmo dire, la colpa è un sentimento dal quale non potremo mai separarci, anzi, si potrebbe ora aggiungere, non dovremmo mai separarci. Tutte le psicologie che includono, tra le molte cose da cui vogliono salvarci, liberarci, riscattarci, anche il senso di colpa non fanno così realmente il nostro interesse. Semmai, il loro. Si mettono il cuore in pace, illudendosi di averci risanato da questo “disturbo”, illudendoci (illudendosi) di averci messo in salvo da questo ospite indesiderato.” In questa luce il tormento del senso di colpa non è da considerarsi come una punizione e, quindi, come qualcosa di cui sbarazzarsi, bensì come qualcosa che ci istruisce rispetto al percorso che stiamo per la nostra vita

Quaglino G.P., Romano A., “Nel giardino di Jung. Raffaello Cortina Editore

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età adulta

Età adulta e conoscenza di sé

L’ età adulta è il tema che tocca Carl Gustav Jung rispondendo ad una domanda nel corso di una intervista sui valori della vita. La sua risposta è un invito, semplice e chiaro, a vivere una età adulta in maniera piena e significativa, cercando fino in fondo di essere noi stessi, e diventando consapevoli delle nostre più intime tendenze .

“Che cosa consiglia, dunque, (…), una volta oltrepassata la soglia fatale dei quarant’anni? Jung : Una conoscenza di sé sempre più approfondita è, temo, indispensabile per una vera continuazione della vita nella vecchiaia, per quanto impopolare possa essere la conoscenza di sé. Non c’è niente di più ridicolo o di stolto di un vecchio che finge di essere giovane: si perde anche la dignità, che è l’unica prerogativa della vecchiaia. Lo sguardo deve volgersi dall’esterno verso l’interno, dentro di noi. La scoperta di noi stessi ci mette a disposizione tutto ciò che siamo, ciò che era nostro compito diventare, le basi e lo scopo della nostra vita. La totalità del nostro essere è certamente un’entità irrazionale, ma è questo appunto ciò che siamo, ciò che è destinato a esistere come esperienza unica e irripetibile. Perciò, qualunque cosa scopriamo nel temperamento che ci è stato dato, è un fattore vitale a cui dobbiamo tutta la nostra considerazione. Se dovessimo scoprire in noi, per esempio, un’inestirpabile tendenza a credere in Dio o nell’immortalità, non lasciamoci turbare dalle chiacchiere dei cosiddetti liberi pensatori. E se scopriamo invece una tendenza, altrettanto radicata, a rifiutare ogni idea religiosa, ebbene non esitiamo: rifiutiamola e stiamo a vedere quali effetti ha questo sul nostro benessere generale e sul nostro stato di nutrizione mentale o spirituale. Ma attenti agli infantilismi: chiamare l’ignoto ultimo «Dio» o chiamarlo «Materia» è altrettanto futile, dal momento che non conosciamo né l’uno né l’altra, benché indubbiamente abbiamo esperienza di entrambi. Ma, al di là di questo, noi non sappiamo nulla, e non possiamo crearli noi, né l’uno né l’altra. (…)”

COMMENTO: La vita dell’essere umano si è oggi profondamente allungata e, soprattutto, le migliori condizioni di salute rendono l’ età adulta e la vecchiaia molto diverse da quelle di altre generazioni. Ci scordiamo, tuttavia, che la seconda metà della nostra vita ha una struttura del tutto diversa dalla prima metà. Questo aspetto rimane spesso fuori dalla nostra consapevolezza. Facciamo fatica ad avere presente che il flusso della vita trascina la persona nella sua giovinezza in avanti fino a certi livelli di sicurezza, di realizzazione di sé e di successo. Mentre si è in questa corrente, se la vita non ci riserva troppe durezze, possiamo anche ignorare le esperienze negative. Infatti al giovane la vita appare ancora tutta davanti, si nutre una certa speranza e c’è ancora spazio per pensare che le cose desiderate potranno essere raggiunte. Ma quando si entra nell’ età adulta e poi nella maturità le cose cambiano: si comincia a guardare indietro, al passato che ci siamo lasciati alle spalle e iniziamo a porci più o meno consapevolmente molte domande. “A che punto sono? Si sono avverati i miei sogni? Ho realizzato le aspettative di una vita felice e riuscita che nutrivo vent’anni fa? (…) E poi arriva la domanda ultima: Qual è la probabilità che io venga meno nel cercare di realizzare ciò che ovviamente non sono riuscito a fare nei primi quarant’anni di vita?” Anche le conquiste che abbiamo realizzato nel corso della vita non ci sembra più uguali a prima, quando ancora le desideravamo o le avevamo appena raggiunte. Hanno perso con il tempo un po’ del loro fascino e della loro attrazione. Come sottolinea Jung: “Ciò che un tempo era avventura, adesso è diventato routine. Guardare al passato a poco a poco diventa un’abitudine, per quanto lo detestiamo e cerchiamo di rimuoverlo.”

L’abitudine di guardare al passato ci porterà a farci considerare aspetti di noi che avevamo dimenticato, così come ci porterà a rivalutare altri possibili modi di vivere che non avevamo considerato. Tuttavia, più la nostra vita in età adulta si farà rigida e abitudinaria, tanto meno sarà fonte di soddisfazione. E allora accadrà che prenderanno sempre di più corpo le fantasie inconsce con le quali cominceremo a trastullarci perdendo il contatto con la realtà dei fatti. Non accorgersi di queste fantasie significa trascurare un fattore di turbamento per il nostro equilibrio mentale, fino ad assumere atteggiamenti sintomo di una regressione all’infanzia, “che non ci aiuta certo ad affrontare il difficile compito di costruirci un nuovo scopo per la vecchiaia.” Senza un sano realismo in età adulta ci si troverà ad aspettarsi solo cose abituali dalla vita e questo non permetterà alla nostra esistenza di rinnovarsi; condannandola ad essere stantia e pietrificata. La soluzione che prospetta Jung è quella di “vivere al passo con i tempi, nella consapevolezza che il tempo fornirà tutte le novità necessarie. Ma è un consiglio troppo semplicistico, dà per scontato che una persona anziana sia capace di percepire e di trovarsi in consonanza con le cose nuove, con le nuove abitudini e i nuovi strumenti. Invece è proprio questo il problema: nuove finalità richiedono occhi nuovi capaci di vederle e un cuore nuovo capace di desiderarle.”

Carl Gustav Jung, Jung parla. Interviste e incontri. Adelphi

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i problemi 2

I problemi come effetto dell’essere coscienti

I problemi quando si affacciano alla nostra consapevolezza sono spesso considerati come fastidiosi. Eppure essi sono la chiara manifestazione del nostro essere coscienti e del fatto che ci siamo distaccati da una vita infantile e puramente istintuale…Carl Gustav Jung, “Gli stadi della vita”, In Opere vol. 8, Bollati Boringhieri

Parlare dei problemi psichici delle diverse età dell’uomo è un compito assai complesso, poiché consiste nientemeno che nello svolgere un quadro di tutta la vita psichica, dalla culla fino alla tomba. Un tale compito non potrà essere svolto, nei limiti concessi da una conferenza, che nelle sue linee generali; naturalmente non si tratta di fare qui una descrizione della psicologia normale delle differenti età; dobbiamo invece trattare dei “problemi”, cioè dobbiamo trattare questioni piene di difficoltà, di dubbi, di ambiguità, in breve questioni alle quali si può dare più di una risposta, e per di più, risposte che non sono mai sufficientemente sicure e fuori di dubbio. Dovremo quindi, sovente, pensare in forma interrogativa, e quel che è peggio, accettare alcune cose senza discuterle, teorizzando quando sarà necessario.Se la vita psichica consistesse soltanto di dati di fatto, come è il caso ancora per chi si trova allo stadio primitivo, potremmo accontentarci di un solido empirismo. Ma la vita psichica dell’uomo civile è ricca di problemi: non solo, ma non la si potrebbe concepire senza di essi. I nostri processi psichici sono per la maggior parte riflessioni, dubbi, esperienze; fenomeni tutti che la psiche istintiva inconscia del primitivo, si può dire, non conosce affatto. Dobbiamo l’esistenza di questi problemi all’allargamento del campo della coscienza; tali sono i doni funesti della civiltà. L’allontanarsi dall’istinto,о l’erigersi contro di esso, crea la coscienza.

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La fine della vita come parte dell’esistenza

La fine della vita è parte stessa del fluire della vita, ne è un elemento costituzionale. Eppure quanta fatica facciamo a considerare questa parte della vita, valutandola priva di senso e significato. Al suo solito Carl Gustav Jung ribalta completamente l’approccio a questa fase dell’esistenza… Carl Gustav Jung, “Anima e morte”, In Opere vol. 8, Boringhieri

Più di una volta mi è stato chiesto che cosa io pensi della morte, di questa non dubbia fine della singola esistenza umana. La morte ci è nota senz’altro come una fine. È un punto fermo che viene posto talora prima che la frase sia compiuta: e oltre di essa non resta che il ricordo о una postuma influenza sugli altri, ma per l’individuo la clessidra si è vuotata e il sasso che rotola è giunto alla posizione di riposo. Rispetto alla morte la vita ci appare come un fluire, come il cammino di un orologio caricato, il cui arresto finale è evidente. Non siamo mai tanto convinti del “fluire” della vita come quando una vita umana giunge al suo termine dinanzi ai nostri occhi; e mai s’impone in modo più stringente e penoso il problema del significato e del valore della vita come quando assistiamo all’ultimo respiro che abbandona un corpo, vivo fino a un attimo prima. Quanto ci appare diverso il senso della vita, quando vediamo un uomo giovane affannarsi per mete lontane e crearsi il proprio avvenire, e quando guardiamo invece un ammalato già condannato о un vegliardo che senza più forze s’avvia fatalmente verso la tomba! La gioventù – così ci sembra – ha scopo, avvenire, senso e valore; mentre l’arrivare alla fine ci appare solo come una cessazione senza significato. (…)

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processo di individuazione 1

Processo di individuazione e sviluppo umano

Nel processo di individuazione il conscio e inconscio si integrano imparando a completarsi a vicenda. Così l’essere umano affronta la strada per la realizzazione personale. È grazie al processo di individuazione che l’uomo, diviene realmente individuo, con una propria peculiare personalità. Il processo di individuazione si caratterizza come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi. Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

La totalità della personalità è raggiunta quando tutte le principali coppie di contrasti sono relativamente differenziate, quando dunque le due parti della psiche totale, la coscienza e l’inconscio, sono collegate insieme in una vitale relazione. La conservazione di una certa differenza di potenziale energetico e l’indisturbato corso della vita psichica sono garantiti dal fatto che l’inconscio non può mai esser reso del tutto conscio e conserva sempre la maggior quantità di energia. La totalità resta dunque sempre relativa, e a noi resta per tutta la vita il compito di continuare a lavorarvi. “La personalità, intesa come piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Lo sviluppo della personalità è insieme una grazia e una maledizione. Bisogna acquistarla a caro prezzo, perché significa isolamento. “La sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Ma, oltre che solitudine, essa significa pure fedeltà alla propria legge. “Solo chi sa consciamente accettare la potenza della propria destinazione interiore diventa una personalità” e solo questa può trovare il giusto posto anche nella collettività, solo questa possiede vera forza sociale, ossia la capacità di esser parte integrante di un gruppo umano e non un numero nella massa, che è sempre una semplice addizione di individui e non può divenir mai, come la comunità, un organismo vitale, che dà vita e vita riceve. Cosi la realizzazione di sé diventa, tanto sotto l’aspetto personale che sotto quello collettivo, una decisione morale, ed è questa che conferisce le sue forze a quel processo del diventare sé stessi, che Jung chiama via del processo di individuazione.

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La relazione psicologica nel matrimonio

La relazione psicologica indica il rapporto diretta tra i due individui che compongono una coppia. Si tratta di una situazione relazionale che presuppone che i due partner abbiano raggiunto un certo grado di consapevolezza di sé e che siano capaci di affrancarsi il più possibile dai vincoli imposti dal proprio inconscio. Carl Gustav Jung, Il matrimonio come relazione psicologica. In Opere vol. 17. Bollati Boringhieri

Sempre, quando parliamo di relazione psicologica, presupponiamo la coscienza. Non esiste relazione psicologica tra due persone che siano entrambe in una condizione di inconsapevolezza. Dal punto di vista psicologico, esse sarebbero totalmente prive di rapporto. Potrebbero essere in rapporto da qualsiasi altro punto di vista, quello fisiologico per esempio; quella relazione tuttavia non si potrebbe definire psicologica. Certo, la totale inconsapevolezza che abbiamo ipotizzato non si riscontra mai in questa misura, esistono tuttavia condizioni di parziale inconsapevolezza di dimensioni non trascurabili. La relazione psicologica è limitata nella misura in cui esistono tali zone di inconsapevolezza. Nel bambino la coscienza emerge dalle profondità della vita psichica inconscia: dapprima non affiorano che singole isole, le quali solo lentamente si uniscono a formare un “continente”, una coscienza coerente. Il progressivo processo di evoluzione spirituale è un ampliamento della coscienza. Nel momento stesso in cui nasce una coscienza unitaria è data la possibilità di una relazione psicologica. La coscienza, fin dove giunge la nostra comprensione, è sempre coscienza dell’Io. Per essere conscio di me stesso devo potermi differenziare dall’altro. Solo dove esista questa differenziazione può esserci rapporto. Benché in genere si operi questa differenziazione, di norma essa è lacunosa, essendo inconsci ambiti magari molto vasti della vita psichica. Rispetto ai contenuti inconsci non ha luogo alcuna differenziazione, e quindi in queste regioni non può neppure crearsi alcuna relazione; qui domina ancora la condizione inconscia originaria di una primitiva identità tra l’Io e l’altro, dunque una totale assenza di relazione.

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funzioni 4

Le funzioni della coscienza

Cosa è la coscienza, quali rapporti ha con l’inconscio e quali sono le sue funzioni? Carl Gustav Jung con la sua solita chiarezza e semplicità ci parla delle quattro funzioni della nostra vita psichica… Carl Gustav Jung, Fondamenti della psicologia analitica. In Opere complete, Bollati Boringhieri

La psicologia è, in primo luogo, la scienza della coscienza. In secondo luogo, è la scienza che studia i prodotti di quella che denominiamo la psiche inconscia. Non possiamo esplorare direttamente la psiche inconscia perché l’inconscio è inconscio e perciò inaccessibile. Possiamo solo avere a che fare con i prodotti consci che supponiamo essere scaturiti da quel campo che chiamiamo l’inconscio, il territorio delle “rappresentazioni oscure”, come le definisce nella sua Antropologia il filosofo Kant, secondo il quale costituiscono una metà del mondo. Sull’inconscio possiamo dire solo quel che ci suggerisce la coscienza. La psiche inconscia, la cui natura ci è totalmente ignota, si esprime sempre attraverso la coscienza e le sue modalità. Non abbiamo altra possibilità. Non possiamo spingerci oltre, e dobbiamo sempre tenerlo presente, come parametro ultimo del nostro giudizio. La coscienza e una cosa strana. È un fenomeno intermittente. Un quinto, o un terzo o forse persino la metà della nostra vita umana trascorre in condizione di incoscienza. La nostra prima infanzia è inconscia. Ogni notte sprofondiamo nell’inconscio, e soltanto nelle fasi tra la veglia e il sonno abbiamo una coscienza più o meno lucida. E fino a che punto lo sia, non è nemmeno del tutto chiaro. Per esempio presumiamo che un bambino o una bambina di dieci anni siano coscienti, ma si potrebbe facilmente dimostrare che si tratta di un tipo molto particolare di coscienza, presumibilmente una coscienza senza alcuna consapevolezza dell’Io. Conosco diversi casi di ragazzi che intorno agli undici, dodici, quattordici anni o anche oltre, esperiscono improvvisamente il proprio Io. Per la prima volta nella loro vita si rendono conto di essere loro a vivere determinate esperienze, e di poter riandare a un passato nel quale sono accadute certe cose, che ricordano, senza però rammentare di esserne stati attori. Dobbiamo riconoscere che, quando diciamo “io”, non disponiamo di un criterio assoluto per valutare se esperiamo pienamente questo “Io”. È possibile che la nostra esperienza dell’Io sia ancora frammentaria e che in futuro la gente saprà molto più di noi quel che esso significa. (…)

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C.G. Jung

C.G. Jung parla di sé e della sua vita

C.G. Jung è il padre fondatore della psicologia analitica ed è stato il primo grande eretico all’interno della psicoanalisi freudiana. In questo scritto Jung ci parla della sua vita condotta sotto la spinta della sua voglia di esplorare la natura umana e il suo inconscio. Jung racconta della sua voglia di andare al di là delle cose. Jung ha fatto della sua vita una costante ricerca. Jung parla di sé e della prolungata immersione nelle profondità dell’io, una turbolenta esplorazione dei luoghi più reconditi e inaccessibili della nostra interiorità. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni. BUR

Quando mi si dice che sono un sapiente, o un saggio, mi rifiuto di crederlo. Un uomo una volta immerse un cappello in un fiume e lo ritrasse colmo d’acqua. Che cosa vuol dire? Non sono quel fiume. Sono in riva al fiume, ma non faccio nulla. Altri si trovano sulla riva dello stesso fiume, ma molti di loro pensano di doverlo fare essi stessi. Io non faccio nulla. Non penso mai di essere colui che si debba preoccupare che le ciliegie abbiano gambi. Sto lì a guardare e ammiro ciò che la natura sa fare. C’è una bella antica leggenda di un rabbino. Uno studente andò da lui e disse: “Nei tempi passati vi furono uomini che videro Dio in faccia. Perché questo non succede più?” Il rabbino rispose: “Perché oggi nessuno sa chinarsi tanto.” Bisogna chinarsi un poco, per attingere l’acqua dal fiume. La differenza tra me e la maggior parte degli altri uomini è che per me i “muri divisori” sono trasparenti. È questa la mia caratteristica.

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Inconscio collettivo e individuazione di sé

L’ inconscio collettivo è una dimensione della vita psichica che, nella psicoanalisi junghiana, si aggiunge a quella dell’inconscio personale. L’ inconscio collettivo è quell’aspetto della vita psichica che accomuna tutti gli individui e da cui, paradossalmente, emergono anche le istanze più importanti del nostro Sé. Jung, in questo scritto, mette in relazione questi due aspetti della vita psichica: l’ inconscio collettivo e il processo di individuazione. Carl Gustav Jung, L’Io e l’inconscio, in Opere Complete, Bollati Boringhieri

Individuarsi significa diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, ultima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare sé stessi, attuare il proprio Sé. “Individuazione” potrebbe dunque essere tradotto anche con “attuazione del proprio Sé” o “realizzazione del Sé”. Le possibilità di sviluppo di cui abbiamo discorso nei capitoli precedenti sono, in sostanza, forme di alienazione del Sé, di rinuncia al Sé, a favore di una parte da sostenere o a favore di un significato immaginario. Nel primo caso, il Sé passa in seconda linea di fronte al riconoscimento sociale; nel secondo, di fronte al significato autosuggestivo di un’immagine primordiale. In entrambi i casi prevale dunque l’elemento collettivo. La rinuncia del Sé a favore del collettivo risponde a un ideale sociale; essa passa persino per un dovere o una virtù sociale, sebbene se ne possa fare anche un abuso egoistico. Naturalmente però l’egoismo non ha nulla a che fare col concetto del Sé come qui lo intendo.

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