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La responsabilità delle parole dette

La responsabilità è una questione scomoda specie quando investe l’argomento della valutazione delle parole che diciamo o scriviamo, così come delle parole che non vengono dette ma che avremmo potuto proferire. La responsabilità in questo ambito ci chiede di prevedere gli effetti del nostro parlare, al fine di modificare le parole rivolte agli altri e di correggerle basandoci proprio sulla previsione , in base a tale previsione di ciò che potrebbero procurare al nostro interlocutore. La riflessione su questo tema prende spunto proprio da una considerazione di Eugenio Borgna…

“Le risonanze emozionali alle parole che diciamo si rispecchiano nei volti e negli occhi, negli sguardi e nelle lacrime, di chi le ascolti; e questo aiuta le parole a essere più umane, e più luminose. Essere responsabili di questo, in famiglia, nella scuola, nelle quotidiane relazioni sociali, alla radio, alla televisione, nei social network, è dovere, e nondimeno quante volte ci si dimentica di pensare alle parole che si dicono: al peso umano e psicologico che anche una sola parola può avere. Certo, il mio non è un invito a selezionare le parole, a scegliere parola per parola, nella articolazione di un discorso, perché ovviamente verrebbero meno spontaneità e naturalezza, chiarezza e comunicatività. Sí, basterebbe tenere presenti questi problemi, e, se il nostro cuore è limpido e aperto all’ascolto, non correremmo questi pericoli, e saremmo testimoni di accoglienza e di comprensione del dolore dell’anima, e della gioia, che vivano nelle relazioni che dovremmo costruire ogni giorno: nel segno della speranza. Ovviamente, non illudiamoci sulla possibilità che questa esigenza di parole aperte alla accoglienza e alla speranza possa di solito ritrovare una qualche risonanza nelle parole della televisione, o dei social network. O almeno temo che sia così in molte circostanze della comunicazione televisiva e digitale.”

COMMENTO: In genere pensiamo che la responsabilità sia più attinente alle nostre azioni: il nostro materialismo imperante lega la nostra responsabilità al fare concretamente qualcosa verso qualcuno, trascurando la potenza e la forza della parola nel determinare in chi la riceve conseguenze a volte distruttive così come, per fortuna, anche di tipo rigenerativo. Spesso parliamo e basta, incuranti delle ripercussioni che il nostro “discorso” può avere sugli altri. Facciamo fatica ad avere cura e attenzione nella scelte delle parole che siano in grado di esprimere realmente ciò che pensiamo o sentiamo. Così come facciamo fatica a scegliere quelle parole in grado di corrispondere alle aspettative di chi ci ascolta, e di chi ci parla. Eppure come sottolinea Eugenio Borgna: “dovremmo sentirci responsabili di questo. Prendere coscienza di questi problemi è premessa alla ricerca di parole gentili e umane che aprano ponti fra noi e gli altri, fra gli altri e noi.”

La responsabilità che ci riguarda va, dunque, ben oltre le nostre azioni fino a comprendere ciò che diciamo in forma scritta o parlata. “(…) E allora come conoscere, e come scegliere, le parole che fanno del bene, e quelle che fanno del male, quelle che sono donatrici di speranza, e sono di aiuto agli altri, e quelle che non lo sono?” Sicuramente imparando per prima cosa ad ascoltare noi stessi e la nostra “umanità” perché è da lì, come in uno specchio, che possiamo trovare le parole adatte agli altri. Sono quelle che ci piacerebbe sentire per noi, quelle con cui ci piacerebbe essere accolti e ascoltati. Poi, in secondo luogo, dobbiamo apprendere a “vedere” il nostro interlocutore per cogliere le conseguenze del nostro “discorso” su di lui, per poter correggere le nostre parole e vederne i reali effetti. In entrambi i casi la responsabilità delle nostre parole si conquista con la sensibilità.

Eugenio Borgna, Responsabilità e speranza. Einaudi

Leggi altre frasi e pensieri di Eugenio Borgna: La fragilità come tessuto dell’essere umano

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Le relazioni come sono costruite?

Le relazioni umani vengono costruite dagli scambi comunicativi tra gli individui. Mentre le persone comunicano, partecipano alla strutturazione delle proprie relazioni anche se questo avviene inconsapevolmente e al di là della propria volontà. Jay Haley, Le strategie della psicoterapia. Sansoni

Dire che la persona con un sintomo si comporta in modo diverso dalla norma implica che ci sia un modo normale di comportarsi. Analizzare questo problema in modo approfondito richiederebbe l’analisi di una particolare cultura e il grado di variazione individuale prima di considerare un soggetto fuori dalla norma. Piuttosto che affrontare il problema in questo modo, premettiamo che gli individui a cui ci riferiamo fanno parte della cultura occidentale e diamo rilievo teorico ad alcuni pattern formali di comportamento. Il comportamento eccessivo di un soggetto con una sintomo sarà confrontato con quello che in una relazione viene comunemente considerato comportamento normale. Questo tipo di approccio implica una descrizione generale delle modalità secondo cui le persone normalmente strutturano e mantengono le relazioni e di alcuni parametri per differenziare i vari tipi di relazioni. Quando due persone qualsiasi si incontrano per la prima volta e stabiliscono una relazione, hanno di fronte a sé una vasta gamma di possibili comportamenti. Possono farsi dei complimenti o scambiarsi insulti o fare delle avances sessuali o definire che uno è superiore all’altro e così via. Man mano che due soggetti definiscono la loro relazione essi elaborano insieme quale tipo di comportamento comunicativo è opportuno per quella relazione. Da tutti i possibili messaggi ne selezionano alcuni e successivamente raggiungono un accordo su quelli da inserire nel rapporto. Questa linea che essi tracciano, linea che definisce ciò che può e ciò che non può accadere in quella relazione, si può chiamare la definizione reciproca della relazione.

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Riprova sociale : manipolare la mente

La riprova sociale è un potente meccanismo utilizzato nelle tecniche di persuasione. Il principio della riprova sociale suona così: quanto maggiore è il numero di persone che trova giusta una qualunque idea, tanto più giusta è quell’idea. Un automatismo mentale che se sapientemente usato diventa un potente strumento di persuasione occulta.
Roberto Cialdini, Le armi della persuasione. Giunti

Non conosco nessuno che apprezzi le risate registrate di cui sono infarciti i programmi televisivi. Ho condotto una piccola inchiesta informale e le risposte erano uniformi: l’allegria artificiale della TV, con gli scrosci di risa di un pubblico inesistente, irritava tutti come un espediente stupido, fasullo, ovvio e monotono. Il mio era un piccolo campione, ma scommetterei che rispecchia l’atteggiamento della maggior parte del pubblico.
Perché allora questa pratica è tanto popolare fra i dirigenti televisivi? Sono persone che hanno fatto carriera proprio perché sanno dare al pubblico quello che vuole, eppure usano sistematicamente queste colonne sonore che gli spettatori trovano sgradevolissime. E lo fanno vincendo le resistenze di molti autori, registi e attori, che pretendono l’eliminazione delle risate finte dal programma registrato; richiesta che solo di rado, e non senza lotte, vedono accolta.
Che cosa c’è allora che attrae tanto i funzionari delle reti TV? Perché mai questi uomini d’affari accorti e sperimentati difendono a spada tratta una pratica che il pubblico trova sgradevole e gli autori offensiva? La risposta è semplice e insieme preoccupante: conoscono i risultati in proposito della ricerca scientifica. Vari esperimenti dimostrano che l’uso di risate preregistrate induce gli spettatori o ascoltatori a ridere più spesso e più a lungo; anche i giudizi complessivi sulle trasmissioni presentate risultano più positivi, nel senso che sono considerate più divertenti e spiritose. Non solo, alcuni dati indicano che l’effetto suggestivo è massimo quando le battute sono di pessima lega.

Alla luce di questi dati, il comportamento dei produttori televisivi diventa perfettamente logico. L’inserimento di risate fasulle nella colonna sonora stimola la risposta desiderata del pubblico a programmi che vogliono essere spiritosi e divertenti, soprattutto quando non riescono a esserlo. Non c’è davvero da meravigliarsi che le penose commediole di certe serie televisive siano continuamente sottolineate da risate omeriche. Quei produttori sanno molto bene quello che fanno.

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situazione paradossale 1

Situazione paradossale come uscirne

Una situazione paradossale crea in chi la vive un profondo disagio. Paul Watzlawich ci spiega in cosa consista una situazione paradossale in cui ognuna delle alternative possibili sembra, in realtà, essere una soluzione sbagliata. Ciò accade perché l’unico modo di porre fine ad una situazione paradossale è quelo di violare le regole del gioco che la sostengono.
Paul Watzlawich e altri, Pragmatica della comunicazione umana. Astrolabio

In The Wife of Bath’s Tale ( Il racconto della comare di Bath) Chaucer narra la storia di un cavaliere di Re Artù che  “a spron battuto cavalcando un giorno verso casa di ritorno dalla caccia col falcone “s’imbatte per strada in una fanciulla a cui usa violenza”. Il crimine,  “che suscitò vivissimo scalpore“, quasi gli costa la vita, se non fosse per la regina e le sue dame che vogliono risparmiarlo, dal momento che Artù lascia decidere alla regina la sorte del cavaliere. La regina dice al cavaliere che gli concederà la vita se riuscirà a rispondere alla domanda  “Che cosa desiderano di più le donne?” Il cavaliere, che ha come unica alternativa una sentenza di morte, s’impegna di trovare la risposta e di ritornare al castello dopo un anno e un giorno (il tempo che la regina gli ha dato). Come si può immaginare, l’anno passa, arriva l’ultimo giorno, e il cavaliere è sulla strada del ritorno al castello senza aver trovato la risposta. Questa volta s’imbatte in una vecchia (“una strega tanto orrenda quanto può esserlo una invenzione della fantasia“) che sta seduta in un prato e gli dice una frase che suona come una profezia:  “Signor cavaliere, qui non c’è strada che passi “. Quando conosce la difficile situazione paradossale in cui il cavaliere si trova, gli dice di sapere la risposta e di essere pronta a svelargliela se egli giura che  “qualunque cosa io poi vi chieda, la farete se potrete farla”. Posto di nuovo di fronte a una scelta tra due alternative (essere decapitato o accondiscendere al desiderio della strega, qualunque possa essere), naturalmente il cavaliere sceglie questa seconda alternativa e la strega gli rivela il segreto (“Più di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle cose d’amore“). La risposta soddisfa pienamente le dame di corte e la strega chiede al cavaliere di sposarla. Ha mantenuto la sua promessa e· il patto esige che il cavaliere mantenga la sua. Giunge la notte del matrimonio e il cavaliere giace al fianco della strega disperato e incapace di sopraffare la repulsione per la sua bruttezza. Alla fine la strega gli offre ancora due alternative tra cui scegliere: o lui l’accetta orrenda com’è (e lei  per tutta la vita sarà una moglie sottomessa e esemplare) oppure si trasformerà in una fanciulla giovanissima e bellissima, ma non gli sarà mai fedele. A lungo il cavaliere pondera le due alternative e alla fine non sceglie nessuna delle due, ma rifiuta la scelta stessa. Il culmine del racconto è tutto in una sola riga:  “I do not fors the whether of the two  “ (Non scelgo nessuna delle due). A questo punto la strega diventa una fanciulla bellissima che sarà la più fedele e obbediente delle mogli.

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Leggi articolo di Paul Watzlawich: “Passato, istruzioni per rendersi infelici”

Parole che curano e cambiano la vita

Le parole si modulano, cambiano, si modificano continuamente nelle situazioni in cui ci veniamo a trovare, e negli incontri che abbiamo in vita. Esse non sono mai inerti e mute ma comunicano sempre qualcosa. Sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, cambiano di significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo, e non è facile coglierne fino in fondo le risonanze.
Eugenio Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta. Einaudi

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Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a se stante, ma sono anche creature viventi, e di questo non sempre siamo consapevoli nelle nostre giornate divorate dalla fretta e dalla distrazione, dalla noncuranza e dalla indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come modi aridi e interscambiabili di comunicare i nostri pensieri. Ma le parole che ci salvano non sono facili da rintracciare; e, come diceva Marina Cvetaeva, la grande scrittrice russa, dalla vita dilaniata dalla solitudine e dal dolore (le lettere meravigliose che ha scambiato con Rilke si leggono ancora oggi con stupore nel cuore), faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene. Ma, come trovare, e come rivivere, le parole che salvano, e creano relazione? La salvezza non può venire se non dall’ascolto, dall’ascolto del dicibile e dell’indicibile, che ci dovrebbe accompagnare in ogni momento della giornata, e in ogni situazione della vita.
La prodigiosa avanzata delle tecnologie consente di giungere alla conoscenza delle malattie, somatiche in particolare, alla diagnosi e alla indicazione delle cure, con una rapidità inimmaginabile nel passato; ma questo avviene, o rischia di avvenire, senza tenere presente la persona malata, le sue risonanze psicologiche e umane al dolore, e alla malattia, che sono cosí importanti nella evoluzione clinica, e nella cura. Ma come non ribadire ancora la significazione umana, e in fondo terapeutica, delle parole e dei gesti con cui ci incontriamo con chi sta male? Se le parole non nascono dal cuore, se non sono leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, fanno del male, e fanno del male i gesti che non sanno testimoniare attenzione e partecipazione.

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Leggi di Eugenio Borgna: Solitudine e isolamento

La psicologia della comunicazione

psicologia della comunicazione interpersonaleNella psicologia della comunicazione vige la regola per cui lo zero non esiste, o meglio anche lo zero ha un valore, un significato. Così una parola non detta, un gesto non fatto rappresentano, comunque, una comunicazione perché veicolano in ogni caso un messaggio. È sufficiente considerare il silenzio dopo una lite per capire che è impossibile non comunicare: l’ostentato comportamento dello stare zitti, del non parlare (comportamento spesso accompagnato da un linguaggio non-verbale evidente) costituisce un messaggio veicolato all’interlocutore. Una lettera non spedita, un appuntamento saltato, un invito a cui non si risponde, la non-partecipazione ad una riunione, sono soltanto alcuni esempi della vita quotidiana in cui il valore comunicativo del comportamento è elevato. Secondo la psicologia della comunicazione, l’uomo, qualunque cosa faccia, non può fare a meno di emettere comportamenti: in qualunque modo decidiamo di comportarci comunichiamo in ogni caso. Il tentativo di utilizzare in una relazione il silenzio presenta, tuttavia, un rischio. Questa forma di comunicazione è di per sé povera, nel senso che al di là del significato che è possibile attribuire al silenzio (rabbia, delusione, prostrazione), l’interlocutore non ha altri elementi a disposizione per “capire” il messaggio che gli giunge. Dovrà fare allora conto sulle proprie risorse interpretative per costruire un significato intorno alla situazione poco chiara. L’interpretazione, comunque, per quanto sia uno strumento utilissimo e a volte indispensabile, presenta a sua volta un rischio: la soggettività e quindi la possibilità di generare distorsioni nella comprensione. L’essere umano, infatti, deve sempre attribuire un significato e un valore alle cose che osserva o agli eventi che accadono; questo per poter comprendere e agire. Per la psicologia della comunicazione, si tratta di meccanismi cognitivi spontanei e a volte inconsapevoli. Una comunicazione povera di significati espliciti, come il silenzio, – povera soprattutto se non accompagnata da altre informazioni sul contesto – si presta, quindi, ad un’ampia gamma di interpretazioni. Esso, infatti, è spesso accompagnato dalla tacita e irrazionale pretesa che l’altro debba conoscerne i motivi e le ragioni. In queste condizioni, a volte la sensibilità dell’osservatore può essere uno strumento adeguato a capire il silenzio dell’altro, altre volte può invece rivelarsi inefficace

Considerazioni pratiche
Anche se la psicologia della comunicazione ci dice che è impossibile non-comunicare non va considerata come una sorta di “maledizione” per l’uomo, che lo condanna ad un’esistenza “di vetro”, trasparente al punto tale che tutto in lui viene conosciuto dagli altri perché comunque comunicato. Non sempre il nostro comportamento costituisce un’informazione per gli altri, ma lo è solo potenzialmente. Del resto, nella giornata non possiamo sempre essere attenti a tutto ciò che gli altri fanno, così come gli individui in genere non hanno la capacità di analizzare il comportamento altrui con tanta finezza. Il timore di un “Grande Fratello” rappresentato dalla paranoica paura di venire studiati dagli altri, costituisce più un mito che una reale possibilità.
Invece, prendere atto dell’impossibilità di non-comunicare significa dare un duro colpo alla pretesa, vagamente infantile, di neutralità espressa nell’atteggiamento “Ma io non ho fatto (detto) niente”. Tale giustificazione viene adottata con un duplice intento: rendere indipendente la risposta del nostro interlocutore da un nostro precedente comportamento e giustificare la propria azione comunicativa rispetto alle conseguenze indesiderate che ha prodotto.
La posta è spesso il luogo ideale dove osservare situazioni in cui le persone che fanno la fila danno dimostrazione di quanto siano poco attente al modo in cui comunicano. Un signore che ha diverse pratiche da sbrigare allo sportello e che richiedono un tempo più lungo del previsto, sente alle sue spalle una signora che per tutta la durata del suo turno sbuffa sonoramente e in continuazione si affaccia per veder a che punto sono le pratiche. Il signore terminato il suo turno se ne va lanciando occhiatacce alla signora e parlando da solo ad alta voce: “C’è gente veramente ignorante in giro.” La signora si rende conto che tutto ciò è rivolto a lei e girandosi verso il successivo cliente commenta: “Ma che cosa aveva quello, che gli ho detto mai”.
Non ci sentiamo di schierarci con nessuno dei due protagonisti dell’esempio, probabilmente avremmo usato nei loro panni comunicazioni diverse. L’esempio voleva solo evidenziare come, quotidianamente, capita di pensare di non aver comunicato e come quella illusione venga ogni volta contraddetta dai fatti che seguono.

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