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sentimento della gelosia

Il sentimento della gelosia

Il sentimento della gelosia non è una reazione emotiva semplice e banale come si potrebbe credere dal momento che spesso tendiamo a considerarla una risposta ovvia e naturale. In realtà essa sottende complesse dinamiche mentali e arcaici meccanismi psichici…

“Una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione che invariabilmente l’accompagna per aver danneggiato la fiducia in se stessi e il senso di sicurezza. La perdita della fiducia in se stessi spesso non è sentita consciamente da una persona gelosa. Quanto più il geloso è furioso e aggressivo, tanto meno si sente umiliato e viceversa, meno si sente aggressivo e arrabbiato e più è miserabile e depresso. La persona gelosa inevitabilmente si sente umiliata e inferiore e, meno consciamente, indegna, depressa e colpevole. Questo vuol dire che non essere amata, o credere di non esserlo, significa per lei inconsciamente che non è da amare, che è odiosa, e piena di odio. Essa sente, inconsciamente o no, che è stata abbandonata e negletta dalla persona che ama perché non è abbastanza buona per lei. La depressione e la sensazione di essere indifesa di fronte al pericolo che questo pensiero di essere non-amabile fa sorgere in lei (insieme a tutte le paure di solitudine che lo accompagnano) sono insopportabili. Questo spiega l’acutezza  e la torturante amarezza della gelosia, che tuti noi ci sforziamo di mitigare condannando e odiando qualcun altro, in questo caso il rivale. (…) Ora, l’uomo che ha perduto, o pensa di perdere, la donna che ama, reagisce non solo alla perdita del possesso e dell’amore di lei, ma anche alla perdita di questo amore e possesso come prove di fronte a se stesso del proprio valore e quindi della sicurezza nel proprio mondo mentale, per non parlare del mondo esterno. Il suo valore di fronte a se stesso può essere rappresentato dalla forza, dall’intelligenza, dalla potenza sessuale, dalle virtù morali, dalla salute, per citare solo alcuni tra i molteplici simboli di bontà che variano per ciascuno individuo; ma in ogni caso il simbolo rappresenta le rassicurazioni scelte dall’individuo, le sue risorse per proteggersi e contrapporsi ai pericoli delle forze malvage dentro di lui. Un partner sessuale è sentito (specialmente nella relazione stabile del matrimonio dove esiste una certa responsabilità e impegno da ambo le parti), come un importante riconoscimento e perciò come una prova di quella preponderanza del bene sul male in noi stessi che tutti noi cerchiamo e da cui dipende la nostra pace mentale.”

COMMENTO: Il sentimento della gelosia può essere sperimentato in tante circostanze e in differenti situazioni interpersonali ma non c’è dubbio che la tipica sua manifestazione la ritroviamo nella rivalità in amore. Il sentimento della gelosia nella sua più struttura di base è una reazione aggressiva verso il/la rivale e al tempo stesso verso il proprio oggetto d’amore. La ragione profonda di tutto questo non sta solo nel sentimento di possesso che viene messo in discussine ma nel vissuto emotivo che questa minaccia mette in moto. Si tratta della percezione che abbiamo di noi stessi di poter essere amati, di avere un valore, che l’eventuale perdita dell’oggetto d’amore mette in discussione dando spazio a vissuti di autosvilimento e disistima. Come ben sottolinea la psicoanalista Melania Klein tali vissuti si collegano e riattivano analoghe emozioni provate originariamente nell’infanzia e riattivano le primitive reazioni di rabbia e depressione con cui reagimmo ad esse. I percorsi evolutivi e le esperienze che contraddistinguono la nostra storia, il passaggio dall’infanzia alla vita adulta dovrebbe essere contraddistinto dalla possibilità di arginare questi vissuti (apprendere a contenerli) di pari passo con la maturazione di una salda autostima e amor proprio in grado di non sgretolarsi qualora si verifichi la perdita dell’oggetto d’amore in età adulta. Ma spesso, nei casi estremi, quando ciò non accade e l’immaturità emotiva la fa da padrona, il sentimento della gelosia diventa intollerabile e, nella vita adulta, si tende a ripetere in maniera stereotipata le infantili reazioni alla perdita dell’oggetto amato. Dobbiamo tenere conto che, anche da adulti, permangono comunque dentro di noi ben nascosti e contenuti dei vissuti negativi relativi a noi stessi: un dubbio di non poter essere amati perché indegni alberga sempre nella nostra vita interiore, pronto a irrompere nella nostra coscienza quando la nostra amabilità viene messa in discussione dalla rottura di legami affettivi.

Come rileva Melania Klein: “gli individui variano anche in questo; effettivamente non ripetiamo le nostre esperienze infantili per puro divertimento. Questa ripetizione avviene per la stessa ragione per cui ci siamo comportati in quel modo la prima volta, e perché, anche se siamo cresciuti, non abbiamo trovato ancora una strada migliore.” Queste riflessioni sul sentimento della gelosia aprono poi la strada a considerazioni più ampie sulla natura e il senso dell’amore inteso anche come difesa contro quel sentimento che è “la possibilità di non essere degni d’amore” insito sempre in ognuno di noi. I legami d’amore sono allora una fonte di benessere anche perché arginano questo vissuto, rappresentando un baluardo contro il dolore, la distruttività e la povertà interna che potremmo sperimentare. Si comprende così il perché il sentimento della gelosia non è solo una risposta alla perdita del possesso ma un’esperienza conseguente alla paura più o meno consapevole di non essere degni d’amore.

Melania Klein e Joan Riviere, “Amore, odio e riparazione”. Astrolabio

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ansia di base

Ansia di base e le modalità di affrontarla

L’ ansia di base è una condizione esistenziale per ogni essere umano: lo è fin dalla nascita e continua ad accompagnarci lungo tutta la nostra vita. Non sempre ne siamo consapevoli dal momento che per far fronte ad essa abbiamo sviluppato particolari atteggiamenti. Così l’individuo mediamente “normale” può non avere coscienza di questa ansia di base attraverso proprio il ricorso, di volta in volta, ad una di queste tre strategie di cui ci parla Karen Horney. Esse sono funzionali come soluzioni al fine di fronteggiare adeguatamente il nostro ambiente, impedendo all’ansia di diventare troppo invasiva.

“Al principio può presentarsi un quadro piuttosto caotico, ma in seguito si cristallizzano tre linee principali: il bambino può muoversi verso la gente, contro di essa, o allontanarsi da essa. Andando verso la gente egli accetta la propria debolezza, e malgrado la sua alienazione e le sue paure, cerca di conquistare l’affetto degli altri e ad appoggiarsi ad essi. Solo in questo modo può sentirsi sicuro con loro. Se in famiglia ci sono dissensi, si unirà alla persona o al gruppo più potente. Uniformandosi ad essi, acquista una sensazione di appartenenza e di appoggio che lo fa sentire ·meno debole e meno isolato. Quando va contro la gente, accetta e prende per vera l’ostilità intorno a lui, e decide, consciamente o inconsciamente, di combattere. Diffida implicitamente dei sentimenti e delle intenzioni degli altri nei suoi riguardi. Si ribella in qualunque modo a lui accessibile. Vuole essere il più forte e sconfiggerli, in parte per propria difesa, in parte per vendetta. Quando si allontana dalla gente, non desidera né farne parte né combattere, ma tenersi in disparte. Sente di non avere molto in comune con loro, e che loro non lo capiscono in nessun modo. Si costruisce un suo mondo personale con la natura, con i suoi giocattoli, i suoi libri, i suoi sogni. In ognuno di questi tre atteggiamenti, uno degli elementi implicati nell’ansietà di base viene ultra-accentuato: la debolezza, nel primo, l’ostilità nel secondo, e l’isolamento nel terzo. Ma il fatto è che il bambino non può prendere spontaneamente nessuna di queste direzioni, perché nelle condizioni in cui si sviluppano, questi atteggiamenti sono obbligati ad essere tutti presenti.”

COMMENTO – Andare verso, andare contro e allontanarsi da, sono le tre soluzioni che ognuno di noi può adottare rispetto all’ ansia di base. Ognuno di queste soluzioni è di per sé sana, tuttavia quando una di  queste soluzioni all’ ansia di base si struttura in modo troppo rigido da essere applicata a prescindere dalla situazione in cui ci si trova, allora possono originarsi delle situazioni conflittuali dentro di noi. Proviamo ad osservare le persone adulte intorno a noi: noteremo che spesso in alcune di loro tende a predominare uno degli atteggiamenti descritti dalla psicoanalista Karen Horney. Tuttavia nonostante questa predominanza, potremo comunque constatare che le altre loro tendenze non sono del tutto scomparse, ma vengono agite in situazioni differenti. Come osserva la Horney: “in un tipo dominante e in un tipo conciliante, possiamo osservare inclinazioni aggressive insieme a qualche esigenza di distacco. Un individuo ostile in forma predominante ha tratti di compiacenza, ed anche bisogni di distacco. E una personalità distaccata non manca di ostilità o di desiderio di affetto.”

Quando parliamo di atteggiamento preponderante è perché facciamo riferimento a quello che più fortemente influenza il comportamento abituale. Esso è rappresentato da quelle strategie e da quei mezzi con cui cerchiamo di adattarci agli altri proprio perché ci sentiamo più a nostro agio. “Così una persona distaccata userà, abitualmente, ogni tecnica inconscia per tenere gli altri a rispettosa distanza, perché si sente imbarazzato in ogni situazione che richieda uno stretto rapporto. Inoltre, l’atteggiamento dominante è spesso, ma non sempre, il più accettabile alla mente cosciente della persona.” (…) Come già sottolineato nella persona normale, non c’è motivo per cui questi tre atteggiamenti debbano escludersi l’un l’altro. Come acutamente ci fa riflettere Karen Horney: “ognuno dovrebbe essere capace di confidare negli altri, di lottare, e rimanere se stesso. I tre atteggiamenti possono completarsi a vicenda, e formare un tutto armonico. Se uno predomina, ciò denota semplicemente un eccessivo sviluppo unilaterale.” Gli individui che invece presentano una qualche forma di nevrosi vivono questi tre atteggiamenti come inconciliabili tra di loro. Viene a mancare la flessibilità del loro impiego a seconda del contesto in cui si è inseriti. A prescindere dalla situazione queste persone sono portate a compiacere, a controbattere, a starsene in disparte, senza chiedersi se la scelta fatta tra una di queste tre strategie sia o meno appropriata alle circostanza. Questo perché queste persone riescono a sentirsi a proprio agio agendo solo una di queste strategie e il ricorso alle altre scatena in loro profonde conflittualità interiori.

Karen Horney, I nostri conflitti interni. Martinelli Editore

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scopo della vita

Qual è lo scopo della vita umana?

Secondo Sigmund Freud lo scopo della vita umana sarebbe regolato dal principio del piacere, ponendosi dunque come ricerca della felicità. Tuttavia, la domanda che intende indagare lo scopo della vita umana è probabilmente mal posta e allora con maggiore concretezza, quella che solitamente contraddistingue la lucidità del pensiero freudiano, occorre chiedersi cosa intendono raggiungere gli individui nella loro vita.

“Ci chiederemo quindi, meno ambiziosamente, che cosa, attraverso il loro comportamento, gli uomini stessi ci facciano riconoscere come scopo della vita e intenzione della loro esistenza, che cosa pretendano da essa, che cosa desiderino ottenere in essa. Mancare la risposta è quasi impossibile: tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all’assenza del dolore e del dispiacere, dall’altro all’accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Nella sua accezione più stretta la parola “felicità” viene riferita solo al secondo aspetto. Conformemente a questa bipartizione delle mete l’attività degli uomini si sviluppa in due direzioni, secondo che cerchi di raggiungere – in misura prevalente o addirittura esclusiva – l’uno o l’altro obiettivo. Come si vede, molto semplicemente, il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo dell’esistenza umana. Questo principio domina il funzionamento dell’apparato psichico fin dall’inizio; non può sussistere dubbio sulla sua efficacia, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. È assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell’universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l’intento che l’uomo sia “felice”. Quel che nell’accezione più stretta ha nome felicità, scaturisce dal soddisfacimento, perlopiù improvviso, di bisogni fortemente compressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico. Qualsiasi perdurare di una situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un sentimento di moderato benessere; siamo così fatti da poter godere intensamente soltanto dei contrasti, mentre godiamo pochissimo di uno stato di cose in quanto tale. Le nostre possibilità di essere felici sono dunque già limitate dalla nostra costituzione. Provare infelicità è assai meno difficile. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra; propendiamo a considerarla in certo qual modo un ingrediente superfluo, quantunque possa essere non meno fatalmente inevitabile della sofferenza di provenienza diversa.”

COMMENTO – Seguendo le osservazioni di Freud, ciò che regola il principale scopo della vita degli individui, ossia la felicità, è il principio di piacere, una tendenza biologicamente innata nell’essere umano. É questa tendenza a guidare il nostro agire, anche se essa entra spesso in conflitto con le condizioni del mondo esterno, sia inteso come società in cui viviamo sia come ambiente naturale in cui siamo nati. Infatti, seppure l’individuo naturalmente tenderebbe al piacere, la “natura” è totalmente indifferente a questo suo bisogno, non curandosi minimamente di favorirlo. Stando così le cose, la felicità non può essere altro che un fenomeno episodico e breve, che viene goduto solo nel contrasto con la sua assenza, all’interno di una condizione esistenziale dell’essere umano fatta prevalentemente di infelicità, consistente in uno stato dell’essere che ci minaccia da più parti. Spesso così accade che lo scopo della vita possa essere quello per cui lo stato di felicità è dato solo dalla scampata infelicità. La sopportazione della sofferenza e l’evitamento il dolore relegano in secondo piano il perseguimento del piacere. Secondo Freud la vita è per sua costituzione così piena di affanni e dura che diventa impossibile sopportarla senza trovare qualche tipo di strategia per sostenerne il peso. “sopportare la vita: questo è pur sempre il primo dovere d’ogni vivente. (…) Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte”. Pur restando il perseguimento del piacere e della felicità l’impulso base che muoverebbe lo scopo della vita degli esseri umani, è pur vero che l’individuo ha bisogno di alcuni aggiustamenti mentali per riuscire a far fronte all’esistenza, laddove le circostanze impediscano il perseguimento dello scopo originario. Freud elenca alcune di queste modalità con cui l’essere umano cerca di alleviare la sofferenza o almeno l’impossibilità, talvolta, di essere felice-

La prima di queste è l’intossicazione, un metodo per certi versi “semplicistico” di influire chimicamente sulle persone. In questo modo ogni sostanza, a partire dall’alcol’ capace di alterare la percezione del dolore o delle difficoltà diventa uno scaccia affanni. In questo modo Freud ipotizza molto tempo prima della loro scoperta il ruolo degli psicofarmaci e la loro funzione nell’alleviare il disagio psichico e nel creare dipendenza e abuso.

La seconda strategia, considerato il carattere frustrante della realtà e il suo essere fonte di continua e non evitabile sofferenza, sta nell’agire sui moti pulsionali interni rivolti alla ricerca del piacere. Lo scopo della vita diventa allora la mortificazione delle pulsioni per cui così facendo ci si risparmierebbe il dolore del loro mancato soddisfacimento. In questa strategia l’individuo farebbe prevalere il principio di realtà secondo cui l’importanza delle condizioni esterne alla persona avrebbe sempre la meglio rispetto alla ricerca del piacere e della felicità (vale come esempio il motto “prima il dovere poi il piacere”, dove tutto diventa un dovere con buona pace del piacere). Così facendo la coloritura dell’esistenza è fortemente sacrificata preferendo ad essa la quiete come condizione di felicità.

Altra tecnica per evitare il dolore consiste nel cambiare nel mondo esterno le mete originarie delle nostre pulsioni al piacere, indirizzandole verso obiettivi che di per sé possono fornire un piacere o una felicità sostitutiva. Questo metodo è chiamato da Freud sublimazione e si sostanzia, per esempio, nella capacità di provare gioia e piacere attraverso attività quali  il proprio lavoro o, tramite attività creative grazie alle quali dare forma alle immagini della propria fantasia, oppure attività centrate nel risolvere problemi e nella ricerca della verità. Questa tecnica, applicata nella vita di un individuo, acquista un’importanza particolare in quanto permette di legare la persona profondamente al proprio contesto sociale, rinsaldando i legami all’interno della comunità. A questo proposito risulta interessante e fa riflettere un’osservazione di Freud a proposito del lavoro e della felicità: “il lavoro come cammino verso la felicità è stimato poco dagli uomini. Non ci si rivolge ad esso come alle altre possibilità di soddisfacimento. La grande maggioranza degli uomini lavora solo se spinta dalla necessità, e da questa naturale avversione degli uomini al lavoro scaturiscono i più difficili problemi sociali.”

Infine un ulteriore modo di “sfuggire” o attenuare le conseguenze dolorose nel rapporto con la realtà ottenendo un soddisfacimento per mezzo di illusioni riconosciute come tali, è quello realizzabile attraverso il ricorso alla vita fantastica, specie nel suo miglior impiego nell’arte e il suo relativo godimento. L’arte in questo senso, sia per chi la realizza  sia per chi ne fruisce, rappresenta un regno intermedio tra la realtà esterna e le richieste derivanti dal principio del piacere, divenendo una rilevante fonte di grande piacere in grado di dare consolazione agli individui.

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Opere Complete, Boringhieri

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Erich Fromm

Erich Fromm e l’arte d’amare

Cosa vuol dire amare? Erich Fromm psicoanalista e con la sua profonda analisi del fenomeno amoroso, ci fa comprendere con le sue argomentazioni che la capacità di amare non è innata negli individui ma la sua maturazione richiede prima di tutto una crescita personale

“È l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza. Oppure l’amore è una piacevole sensazione, qualcosa in cui imbattersi è questione di fortuna? Questo volumetto contempla la prima ipotesi, mentre è fuor di dubbio che oggi si crede alla seconda. La gente non pensa che l’amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere serie interminabili di film d’amore, felice o infelice, ascolta canzoni d’amore; eppure nessuno crede che ci sia qualcosa da imparare in materia d’amore. Questo atteggiamento si basa su parecchie premesse: la maggior parte della gente ritiene che amore significhi “essere amati”, anziché amare; di conseguenza, per loro il problema è come farsi amare, come rendersi amabili, e per raggiungere questo scopo seguono parecchie strade. (…) Il primo passo è di convincersi che l’amore è un’arte così come la vita è un’arte: se vogliamo sapere come amare dobbiamo procedere allo stesso modo come se volessimo imparare qualsiasi altra arte, come la musica, la pittura, oppure la medicina o l’ingegneria.”

COMMENTO: Secondo Erich Fromm la costante ricerca d’amore da parte dell’individuo è un bisogno che nasce dalla consapevolezza della propria solitudine esistenziale, dalla percezione della nostra separatezza da tutti gli altri esseri umani. Da qui nasce la motivazione a ricercare quell’unione con l’altro di cui abbiamo bisogno per annullare quel vissuto congenito della distanza tra noi e il mondo. Tuttavia, in virtù della natura di tale bisogno, l’interpretazione che ne viene data ci porta ad una concezione e ad una pratica dell’amore in termini egoistici ed egocentrici. Così accade che le persone, per lo più, pensano inconsapevolmente all’amore declinandolo come personale bisogno di essere amato? Infatti, quando cerchiamo l’amore siamo portati a compensare il nostro bisogno di essere amati e non di amare qualcuno. Di conseguenza una siffatta interpretazione egoistica dell’amore, secondo Erich Fromm, ci porta a contaminare l’amore stesso e il nostro porci in rapporto con l’altra persona con gli aspetti della possessività e del controllo. L’altro è, dunque, percepito in termini di possesso e solo in relazione a ciò di cui noi abbiamo bisogno.

Secondo Erich Fromm esistono fondamentalmente due possibilità di vivere l’amore e il rapporto con l’altro. Il primo modo è rappresentato dell’amore simbiotico: nonostante la coppia sia formata da due persone con due corpi separati e due diverse individualità, la relazione che viene creata è di profonda interdipendenza. Nessuno dei due partner si sente mai solo dal momento che nessuno dei due è in grado di esserlo, dal momento che non sono dotati di una propria autonomia. Viene così a crearsi secondo Erich Fromm un rapporto di dannosa dipendenza. Il contrario della simbiosi sta nell’amore maturo che sa costruire una relazione in cui nonostante l’unione i due partner mantengono la propria individualità. Questo è possibile solo se entrambi i membri della coppia hanno raggiunto una vera indipendenza individuale, ossia quando i due partner sono capaci di camminare nel mondo da soli senza l’aiuto di altri e senza avere il bisogno di dominarli.

Erich Fromm, L’arte di amare. Mondadori

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La resistenza in terapia e nella vita quotidiana

La resistenza è un potente meccanismo di difesa che, manifestandosi in svariate modalità, ci mette al riparo dall’affrontare aspetti cruciali della nostra esistenza. Se da una parte essa è un potente strumento di equilibrio, d’altra parte ci impedisce di superare problematiche con maturità e coraggio. Erich Fromm, “L’arte di ascoltare”, Mondadori

La resistenza è una questione molto complessa, non solo in psicoanalisi, ma anche nella vita di quanti aspirano a crescere e a vivere. Nell’essere umano sembrano coesistere due tendenze molto forti. Una lo spinge in avanti; inizia con la nascita del bambino, con l’impulso ad abbandonare il grembo materno. L’altra è la grande paura di fronte a ogni novità, soprattutto a ciò che è diverso; è la paura della libertà e del rischio; emerge come tendenza a lasciarsi intimorire, a ritornare indietro, a non avanzare. Questa paura del nuovo, di ciò che non rientra nelle nostre abitudini, di ciò che non è sicuro in quanto non ancora sperimentato, si manifesta nelle resistenze, nelle manovre più diverse messe in atto per evitare di avanzare e di compiere un atto coraggioso. La resistenza è una questione che non riguarda solo la psicoanalisi. La maggior parte dei problemi che emerge nell’analisi – come la resistenza o il transfert – è ancora più importante sul piano umano in generale. Ai fini dell’analisi questi problemi hanno un’importanza relativa, non fosse altro perché solo un numero limitato di persone fa questo tipo di esperienza. In termini generali la resistenza e il transfert sono tra le forze emozionali più intense dell’individuo. In nulla siamo tanto abili come nel razionalizzare le nostre resistenze. E il fatto di star meglio non implica che la resistenza sia minore. Ogni miglioramento è da considerare non con gioia e soddisfazione, ma con grande sospetto.

Continua a leggere su: Erich Fromm, “L’arte di ascoltare”, Mondadori

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Sessualità: tra istinti e fantasmi

La sessualità è, in genere, ritenuta essere sotto il dominio dell’istinto. In realtà, la sessualità umana è governata dal nostro inconscio e dai suoi fantasmi. Per questo la sessualità non si realizza come “bere un bicchiere d’acqua” ma mette in gioco una ben più profonda complessità… Massimo Recalcati, “Esiste il rapporto sessuale?”, Raffaello Cortina Editore

La pulsione sessuale è sempre mediata e orientata da un fantasma singolare. Definiamo “fantasma” il modo inconscio attraverso il quale le esperienze infantili della sessualità si sono organizzate in ciascuno di noi dando luogo a uno scenario indispensabile per inquadrare e rendere possibile l’eccitazione e il soddisfacimento sessuale. Ogni parte del corpo può così assumere, senza rispondere ad alcuna gerarchia o normativa genitale, il potere di mettere in moto il desiderio sessuale. È solo a partire dall’organizzazione fantasmatica del desiderio che diviene possibile spiegare certe predilezioni e comportamenti sessuali o la presenza di determinate pratiche erotiche piuttosto di altre. Mentre l’istinto non è guidato da nessun fantasma inconscio – l’istinto è per definizione privo di fantasma –, ma dalla semplice legge della natura, il desiderio sessuale è invece sempre orientato dal fantasma inconscio. Il primo implica comportamenti e reazioni comuni, ricorrenti, mentre il secondo definisce il modo singolare di ciascuno di entrare in rapporto al proprio corpo sessuale e a quello del suo partner. Il piacere sessuale non sorge spontaneamente dalla natura dei corpi, dalla loro anatomia oggettiva, ma dalla mediazione necessaria del fantasma inconscio che organizza il desiderio di ciascuno. Questo fantasma dà forma al desiderio singolare convertendo i corpi in strumenti di piacere e di godimento.

Continua a leggere su: Massimo Recalcati, “Esiste il rapporto sessuale?”, Raffaello Cortina Editore

Leggi altro articolo di Massimo Recalcati: La fedeltà nell’amore

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I problemi come effetto dell’essere coscienti

I problemi quando si affacciano alla nostra consapevolezza sono spesso considerati come fastidiosi. Eppure essi sono la chiara manifestazione del nostro essere coscienti e del fatto che ci siamo distaccati da una vita infantile e puramente istintuale…Carl Gustav Jung, “Gli stadi della vita”, In Opere vol. 8, Bollati Boringhieri

Parlare dei problemi psichici delle diverse età dell’uomo è un compito assai complesso, poiché consiste nientemeno che nello svolgere un quadro di tutta la vita psichica, dalla culla fino alla tomba. Un tale compito non potrà essere svolto, nei limiti concessi da una conferenza, che nelle sue linee generali; naturalmente non si tratta di fare qui una descrizione della psicologia normale delle differenti età; dobbiamo invece trattare dei “problemi”, cioè dobbiamo trattare questioni piene di difficoltà, di dubbi, di ambiguità, in breve questioni alle quali si può dare più di una risposta, e per di più, risposte che non sono mai sufficientemente sicure e fuori di dubbio. Dovremo quindi, sovente, pensare in forma interrogativa, e quel che è peggio, accettare alcune cose senza discuterle, teorizzando quando sarà necessario.Se la vita psichica consistesse soltanto di dati di fatto, come è il caso ancora per chi si trova allo stadio primitivo, potremmo accontentarci di un solido empirismo. Ma la vita psichica dell’uomo civile è ricca di problemi: non solo, ma non la si potrebbe concepire senza di essi. I nostri processi psichici sono per la maggior parte riflessioni, dubbi, esperienze; fenomeni tutti che la psiche istintiva inconscia del primitivo, si può dire, non conosce affatto. Dobbiamo l’esistenza di questi problemi all’allargamento del campo della coscienza; tali sono i doni funesti della civiltà. L’allontanarsi dall’istinto,о l’erigersi contro di esso, crea la coscienza.

Continua a leggere su: Carl Gustav Jung, “Gli stadi della vita”, In Opere vol. 8, Bollati Boringhieri

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Il tipo aggressivo e la sua psicologia

Quali sono le caratteristiche del tipo aggressivo? Su quali credenze si basa la sua psicologia? Una attenta analisi dei principali tratti che contraddistinguono la persona aggressiva, condotta con la sua solita chiarezza dalla psicoanalista Karen Horney. Karen Horney, “I nostri conflitti interni”, Marinelli Editore

Proprio come il tipo conciliante rimane attaccato alla credenza che la gente sia “simpatica”, ed è continuamente sconcertato dall’evidenza del contrario, così il tipo aggressivo dà per scontato che tutti siano nemici e si rifiuta di ammettere che non lo siano. La vita, per lui, è una lotta di tutti contro tutti. Si salvi chi può. Se ammette delle eccezioni, lo fa con riluttanza e con riserva. Il suo atteggiamento è, talvolta, del tutto chiaro, ma più spesso è mascherato sotto una vernice di soave cortesia, equanimità e socievolezza. Questa “facciata” può rappresentare una concessione machiavellica all’opportunismo. Di regola, comunque, è un insieme di pretese, sentimenti genuini e bisogni nevrotici. Il desiderio di far credere agli altri di essere una brava persona può andare unito ad una certa dose di effettiva benevolenza, purché gli altri non abbiano alcun dubbio che è lui al comando. (…) Per apprezzare il fatto che i bisogni del tipo aggressivo sono altrettanto coatti di quelli del tipo conciliante, dobbiamo capire che i secondi sono dettati dall’ansietà di base quanto i primi. Questo fatto deve essere messo bene in rilievo perché la componente di paura, così evidente nel tipo precedente, non viene mai ammessa o manifestata nel tipo che stiamo ora esaminando. In lui tutto è disposto per essere, diventare, o almeno apparire, inflessibile. I suoi bisogni derivano principalmente dalla sua sensazione che il mondo è un’arena dove, nel senso darwiniano, sopravvive soltanto il più capace, ed il forte sconfigge il debole. Ciò che è sentito contribuire di più alla sopravvivenza dipende molto dal tipo di civiltà in cui la persona vive; ma in ogni caso la legge dominante è la ricerca spietata del proprio interesse. Quindi il suo bisogno primario è quello del controllo sugli altri. Le varietà nel significato di controllo sono infinite. Vi può essere un aperto esercizio di potere, vi può essere una manipolazione indiretta attraverso una ipersollecitudine o mettendo la gente in condizione di sentirsi obbligata. Egli può preferire di esseri il “potere all’ombra del trono”. L’approccio può essere di tipo intellettuale, nell’implicita convinzione che con il ragionamento e la preveggenza si arriva a tutto.

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Sadismo e masochismo: in cosa consistono

Il sadismo e il masochismo sono due differenti modi di perdere la nostra libertà legandoci, in maniera diversa, agli altri. Così il sadismo e il masochismo sono impulsi irrazionali alimentati da un senso di inferiorità o da un desiderio di potere che “sottomettono” l’individuo a rapporti rigidi con gli altri. Con il suo solito linguaggio “quotidiano” e attento alle sfumature Fromm traccia con maestria le caratteristiche salienti del sadismo e del masochismo Erich Fromm, “Fuga dalla libertà”, Mondadori

Il primo meccanismo di fuga dalla libertà che tratterò è la tendenza a rinunciare all’indipendenza del proprio essere individuale, e a fondersi con qualcuno o qualcosa al di fuori di se stessi per acquistare la forza che manca al proprio essere. (…) Le forme più chiare di questo meccanismo si riscontrano nella brama di sottomissione (masochismo) e di dominio (sadismo), o, come forse è preferibile dire, nelle tendenze masochistiche e sadiche che esistono in vari gradi tanto nell’individuo normale che in quello nevrotico. Dapprima descriveremo queste tendenze, e poi cercheremo di dimostrare che sono entrambe una fuga da una solitudine intollerabile. Le forme più frequenti in cui si manifestano le “tendenze masochistiche” sono i sentimenti di inferiorità, di impotenza, di insignificanza personale. L’analisi di persone che sono ossessionate da questi sentimenti dimostra che, mentre al livello di coscienza esse si rammaricano di questi sentimenti e vorrebbero liberarsene, qualche forza inconscia dentro di loro le spinge a sentirsi inferiori o insignificanti. Questi sentimenti sono qualcosa di più che la consapevolezza di reali manchevolezze o debolezze (benché di solito vengano razionalizzate come se lo fossero); queste persone mostrano la tendenza a diminuirsi, ad indebolirsi, e a non padroneggiare le cose.

Continuate a leggere su: Erich Fromm, “Fuga dalla libertà”, Mondadori

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individuo distaccato 2

L’individuo distaccato e la sua psicologia

Quali sono le caratteristiche dell’individuo distaccato? La psicoanalista Karen Honey traccia il profilo psicologico dell’ individuo distaccato sottolineando quelle che sono le sue nevrosi. Dall’alienazione di sé al senso di superiorità: questi sono i tipici tratti dell’individuo distaccato insieme ad altre caratteristiche che ne evidenziano la difficoltà al contatto con gli altri. Karen Horney, “I nostri conflitti interni”, Marinelli Editore

Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori, ed anzi, l’incapacità di una solitudine costruttiva è per se stessa un segno di nevrosi. Il desiderio di star soli è un sintomo di distacco nevrotico soltanto quando l’associarsi alla gente richiede uno sforzo insopportabile, per evitare il quale la solitudine diviene l’unico mezzo valido. (…)Un’altra caratteristica che è spesso considerata peculiare al distacco è l’alienazione da sé, cioè l’insensibilità all’esperienza emotiva, l’incertezza di che cosa uno sia, che cosa uno ami, detesti, desideri, speri, tema, risenta, creda. Anche questa alienazione – ora – è comune a tutte le nevrosi. Ogni persona, secondo il suo grado di nevrosi, è come un aeroplano teleguidato da un remoto centro di controllo, e perciò privo di autocontrollo. Le persone distaccate possono essere proprio come i morti risuscitati delle tradizioni di Haiti – morti, ma risuscitati dalla stregoneria; possono lavorare ed agire come persone vive, ma non c’è vita in loro. Altri, possono avere una vita emotiva relativamente ricca. Dal momento che esistono simili variazioni, non possiamo considerare l’alienazione-da-sé una caratteristica esclusiva del distacco. Ciò che tutte le persone distaccate hanno in comune è qualcosa di completamente diverso. È la loro capacità di guardare a sé stesse con una specie di interesse obbiettivo, come si guarda un’opera d’arte. Forse il miglior modo di descrivere questo fatto sarebbe di dire che hanno verso sé stesse il medesimo atteggiamento di “spettatore” che hanno nei riguardi della vita in generale. Possono essere spesso, perciò, eccellenti osservatori dei processi che si svolgono dentro di loro.

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