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la profondità

La profondità come atteggiamento per la vita

La profondità è atteggiamento mentale che, al giorno d’oggi sembra essere in disuso: la velocità, la moltitudine di stimoli a cui siamo esposti genera, infatti, uno stare al mondo più superficiale. Ma tutto questo ci rende infinitamente più deboli nell’affrontare le sfide che la vita ci sottopone…

“La profondità, è una forza. Perché per essere profondi dobbiamo resistere a seduzioni, intimidazioni e distrazioni. Dobbiamo attraversare la noia e l’incertezza, conservare la memoria, tollerare il nulla. Senza lasciarci distrarre o scoraggiare. Solo allora la relazione in cui siamo ci rivelerà tutta la sua bellezza; solo allora il soggetto che stiamo studiando ci mostrerà tutta la ricchezza del suo significato; o il progetto che abbiamo iniziato, sia esso preparare una vacanza o scrivere una sinfonia, incomincerà a dare i suoi frutti. (…)  Dunque la via della profondità è costellata (anche) di noia, di frustrazioni, di difficoltà. È un cammino arduo. Però è anche pieno di sorprese e capovolgimenti. Davanti agli ostacoli possiamo rinunciare o cambiar rotta, ma allora tutto ciò che raccogliamo è rimpianto e insoddisfazione. Invece proprio là dove ci verrebbe di lasciar perdere, possiamo imparare e crescere. (…) C’è, nel concetto di profondità, un elemento di forza che non si arrende, di combattività pronta ad affrontare mille ostacoli. A un certo punto si incontra la morte: nel senso di sconfitta, fallimento, disintegrazione, confusione, o vicolo cieco. Allora vacilliamo. Ci sentiamo scoraggiati. Ci vengono pensieri del tipo: “Non ce la faccio”, “Così non si va avanti”, “Questo non fa per me”, “Meglio gettare la spugna”. Ma questo avviene in ogni avventura degna di questo nome. È solo dopo che c’è stata una ‘morte’ che si può capire davvero la natura di una relazione, di un soggetto che si studia, di un’impresa in cui ci si impegna. Allora le nostre emozioni sono state evocate in profondità, le nostre risorse sono state stimolate e allenate. Solo allora abbiamo davvero avuto l’opportunità di capire. E abbiamo raggiunto la profondità.”

Commento – La profondità è una disposizione della nostra mente e del nostro animo che potremmo accostare alla resistenza: per essere profondi dobbiamo apprendere a “stare fermi”, a non cedere alle distrazioni, a concentrarci, a saper aspettare osservando e dando tempo alle cose di emergere o manifestarsi. Per fare questo ci vuole forza perché le tentazioni e le distrazioni che inducono un atteggiamento diverso dall’esser profondi sono molte. Ci vuole forza per coltivare la profondità ma da essa sarà possibile trarre forza interiore per affrontare ogni cosa nella vita. Amica della profondità è, infatti,  la volontà che ne è sia supporto sia emanazione. Per sviluppare un atteggiamento profondo occorre la forza della volontà ma a sua volta essa stessa ne uscirà rafforzata. La persona profonda è anche volitiva perché capace di persistere nei propri intenti e di resistere al “canto” delle tante sirene capaci di distrarre.

La profondità per essere esercitata ha bisogno del tempo, come per un pane che deve lievitare. Essa deve portarci al di là delle apparenze di ciò con cui entriamo in contatto e di ciò che ci accade e per fare questo ci vuole tempo perché le risposte o le reazioni veloci non ci danno l’opportunità di accedere ad altri aspetti della vita e molto spesso sono dettate dalla regola “fai la cosa più facile”. E la cosa più facile è per lo più l’evitamento della fatica, delle difficoltà, della possibile frustrazione. La profondità è un impegno con noi stessi perché è con se stesso che un individuo deve, in primis, essere profondo, cercando di essere sincero con se stesso nell’osservarsi per capire “chi è”, “cosa desidera”, “dove sta andando”. Se non si accede a questa conoscenza profonda non è possibile neppure sviluppare un atteggiamento-guida rispetto alle migliaia di stimolazioni che si ricevono, finendo così per comportarsi come una bandiera al vento, reagendo solo a quanto accade, incapace di resistere per perseverare nella direzione che ci si è dati. Come ricorda Piero Fanucci: “l’atteggiamento consumistico è una delle peggiori cose che lo spirito della modernità, pur così dinamico e variegato, ha portato con sé. Il grande ostacolo in tutto questo risiede proprio nel nostro strumento più prezioso: la nostra mente, che non solo è capace di approfondire, ma si distrae con grande facilità, e di continuo si sdoppia e accoglie parassiti di ogni sorta. (…) Per ovviare alla superficialità e alla distrazione il rimedio è uno solo: sviluppare la perseveranza e la concentrazione.”

Piero Fanucci, “La nuova volontà”, Astrolabio

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rabbia

RABBIA, CINQUE COSE CHE DOVRESTI SAPERE

La rabbia è uno stato d’animo negativo che esercita una grande influenza sul modo in cui trattiamo gli altri e affrontiamo le situazioni. A tal proposito esistono alcuni miti a proposito della sua gestione che andrebbero sfatati per avere con questa emozione negativa un rapporto migliore…

Albert Ellis, padre fondatore della terapia cognitivo-comportamentale, elenca cinque falsi miti a proposito della rabbia che di certo non aiutano a gestirla meglio e che, anzi, sono spesso fonte di errori e confusione. Vediamoli insieme in maniera critica.

“Esprimere attivamente la rabbia aiuta a ridurla” – Questa concezione deriva dall’idea che la rabbia sia una “sostanza” che si accumulerebbe nella nostra mente, creando una tensione tale che se non venisse sfogata (scaricata) esploderebbe in manifestazioni fisiche, malattie e disagi mentali. Chi sposa questa tesi è fautore della strategia espressiva di questa emozione che andrebbe prontamente manifestata per evitare accumuli e tensioni.  Queste persone consentono a se stesse ed esortano gli altri a sfogare i sentimenti di rabbia in modo tale da evitare l’accumulo nella nostra mente  di tensione repressa. Come suggerisce Albert Ellis: “questo falso mito contiene due errori importanti. Primo: che esprimere la rabbia riduce i rischi per la salute. Secondo: che liberarti dell’ostilità ti renderà meno rabbioso. Come abbiamo notato (…), molte prove dimostrano che la rabbia cronica è un reale fattore di rischio per le cardiopatie. Alcuni studi mostrano un legame fra la rabbia repressa e le malattie. Ma le persone che sfogano la rabbia stanno davvero meglio di quelle che non lo fanno? Assolutamente no! (…) E che dire del falso mito secondo cui chi esprime la rabbia apertamente e liberamente diventa meno soggetto alla rabbia? Davvero la catarsi fa ridurre la rabbia? Numerosi esperimenti psicologici hanno esaminato questo tema negli ultimi quarant’anni: tutti sono giunti alla conclusione che le espressioni di rabbia sia verbali sia fisiche portano più rabbia e violenza, e non meno. Sfogare la rabbia direttamente e indirettamente tende a rinforzarla e consolidarla.”

“Prendersi una pausa quando si prova rabbia”. Un altro atteggiamento nei confronti della rabbia, al contrario, muove dall’idea che provare e sfogare la rabbia sia nocivo per la nostra salute. In questo caso si cercherà di evitare assolutamente le situazioni in cui potrebbe capitare di arrabbiarsi, o di allontanarsi da esse qualora ci si trovasse dentro. Spesso questo tipo di atteggiamento evitante viene supportato da strategie quali ”prendersi cinque minuti” per cui se una persona sta lì lì per esplodere, si prende una pausa di riflessione staccando la spina per calmarsi. Secondo Albert Ellis anche questo atteggiamento alla fine può risultare problematico anche se sul momento potrebbe sembrare dare effetti positivi. Infatti: “alla lunga, evitare le situazioni che fanno arrabbiare è controproducente. I motivi sono due. Primo: non affronti dei problemi che sarebbe il caso di risolvere. (…) Secondo: evitare i tuoi sentimenti ti impedisce di scoprire come gestirli meglio. Pensaci. Se scappi da una situazione stressante, che cosa impari? Ben poco! La crescita personale può avvenire solo se affronti le difficoltà.” L’atteggiamento migliore è sicuramente quello di prendersi del tempo e di calmarsi per poi provare a gestire le cose in modo diverso (non a mettere tutto “sotto al tappeto”) e questa strategia consentirà di affrontare meglio in futuro situazioni simili. Questo modo di affrontare la rabbia è, inoltre, utile in tutti quei casi in cui per via della furia del momento si rischierebbe di esagerare nelle reazioni distruggendo tutto.

“La rabbia ti spinge a ottenere ciò che vuoi”. Molte persone ritengono che la rabbia rappresenti una forza capace di aiutarci a superare le avversità e ad ottenere ciò che vogliamo. Secondo questa credenza la rabbia spronerebbe a superare le difficoltà e le ingiustizie, funzionando un po’ da motivazione. Queste persone ritengono che non sarebbero ascoltate se non avessero scatti di ira, per cui gli altri darebbero loro attenzione perché “battono i pugni sul tavolo” o alzano la voce. Questo spesso accade perchè gli altri possono “piegarsi” alle nostre richieste assecondandole solo per via della nostra animosità. Come nota Albert Ellis: “la gente potrebbe realizzare i tuoi desideri quando scagli urla e minacce… ma solo a causa della pressione costante a cui è sottoposta. Con il tempo, molto probabilmente queste persone coveranno risentimento e amarezza, si allontaneranno.”

“Rivivere il passato riduce la rabbia” Un’altra falsa credenza sulla rabbia vuole che sia possibile riuscire a gestirla, ricordando e rivivendo mentalmente situazioni passate che l’hanno generata e che tutt’ora sono vive nella nostra psiche. Albert Ellis critica questo mito relativo alla rabbia ricorrendo ad un esempio. “Poniamo che tu sia un giocatore di tennis che desidera migliorare il proprio gioco. Per aiutarti, assumi un allenatore. Dopo varie lezioni e osservazioni, l’allenatore riesce a identificare, o diagnosticare, alcuni dei motivi che limitano il tuo gioco. Ti fa notare che tieni la racchetta a un’angolazione leggermente sbagliata. E poi la tua postura quando colpisci la palla è maldestra e scorretta. Quanto sarebbe propositivo l’allenatore, se passasse mesi e mesi a cercare di farti capire perché hai sviluppato il tuo stile di gioco maldestro? (…) Per migliorare, non ti serve scoprire dove o come hai sviluppato il tuo stile impreciso. Sarebbe molto più utile che tu e l’allenatore passaste del tempo a imparare ed esercitare una nuova impugnatura e postura.” Cosa vuol dire questo? Sicuramente alcune persone hanno avuto nel loro passato traumi e hanno vissuto situazioni che possono aver portato a strutturare un modo rabbioso di affrontare la vita. Tuttavia, non è concentrandosi su questi episodi passati che si può correggere un atteggiamento sbagliato che nel presente guida il nostro modo di stare al mondo. “Invece, imparare a ricontestualizzare quelle esperienze e sfidare alcune delle convinzioni che hai ancora adesso in merito e ti creano rabbia può aiutarti a ridurre la rabbia che provi oggi.”

“Sono gli eventi esterni a farti arrabbiare” Chi non ha mai pensato di essersi arrabbiato per colpa di qualcun altro o per via di una certa situazione? Forse questo mito relativo alla rabbia è il più diffuso, creando un atteggiamento di deresponsabilizzazione rispetto a questa emozione negativa. Così facendo è, però, come gettare la spugna rispetto alla rabbia che verrebbe così a trovarsi al di fuori del nostro controllo. Così facendo finiamo per sentirci vittime impotenti del mondo esterno, per cui le nostre emozioni si accenderebbero solo come reazione ai fatti esterni. In realtà se le cose stessero così e fossero realmente gli stimoli a gestire il nostro comportamento, reagiremmo tutti quanti allo stesso modo. Invece è facile constatare che persone diverse reagiscono in modo diverso al medesimo evento Come sottolinea Albert Ellis: “Che cosa produce queste reazioni emotive diverse? Il più delle volte, sono le tue convinzioni su quanto sta accadendo a determinare le tue risposte emotive. Nel caso della rabbia, quando sei frustrato le tue reazioni possono sembrarti quasi automatiche. Potresti avere l’impressione che la rabbia nasca da sola come reazione agli eventi esterni. Ma invece ci sono delle convinzioni, che puoi riconoscere abbastanza facilmente, che ti inducono a creare rabbia e a continuare a provarla.

Albert Ellis e Raymond Tafrate, “Che rabbia!”, Erickson

Leggi altro pensiero di Albert Ellis: Un metodo per sfidare le idee irrazionali

Leggi articolo su: Quattro modi di gestire la rabbia

le emozioni distruttive

Le emozioni distruttive

Le emozioni sono una parte fondamentale della vita di un essere umano, ma non tutte sono ugualmente utili o ci aiutano a conoscere la realtà che abbiamo intorno. Le emozioni distruttive, infatti,  inquinano la nostra mente impedendoci di “vedere” le cose con oggettività. Per questo motivo le emozioni distruttive sono negative e vanno combattute impedendo ad esse di guidare il nostro comportamento e i nostri pensieri.

“Per chiarire ulteriormente questa distinzione cruciale tra la concezione buddhista e quella occidentale delle emozioni, Matthieu offrì una panoramica estremamente concisa della questione, affrontandola dal punto di vista della psicologia buddhista. Cominciò descrivendo un parametro molto diverso da quello usato in Occidente per identificare un’emozione come distruttiva: essa è tale non tanto se provoca danni evidenti ma se ne provoca uno ben più sottile, e cioè se distorce la percezione della realtà. «Come si distinguono le emozioni costruttive da quelle distruttive in una prospettiva buddhista?» continuò. «In linea di massima, un’emozione distruttiva – alla quale ci si riferisce anche come a un fattore che “oscura” o “affligge” – è qualcosa che impedisce alla mente di riconoscere la realtà per quello che è. In presenza di un’emozione distruttiva, ci sarà sempre uno iato tra apparenza ed essenza delle cose. «Un attaccamento eccessivo, ad esempio il desiderio, ci impedirà di riconoscere l’equilibrio tra il piacevole e lo spiacevole, il costruttivo e il distruttivo o le qualità di qualcosa o di qualcuno, spingendoci per un certo periodo a cogliere nell’oggetto un fascino assoluto e dunque incitandoci a volerlo. L’avversione ci impedisce invece di vedere certe qualità positive dell’oggetto, rendendoci totalmente negativi nei suoi confronti e facendoci desiderare di ripudiarlo, di distruggerlo o di allontanarci da esso. «Tali stati emotivi compromettono la capacità di giudizio e una corretta valutazione della natura delle cose. Ecco perché diciamo che oscurano: oscurano il modo di essere delle cose.”

Commento: Le emozioni distruttive sono tali perché il loro manifestarsi oscura e limita la libertà dell’individuo. Infatti esse quando si impossessano della nostra mente agiscono nel determinare una concatenazione dei pensieri costringendoci a pensare e ad agire in maniera automatica. È esperienza comune che quando siamo arrabbiati la nostra mente comincia a ruminare una serie di pensieri e “immagini” su cui non abbiamo alcun controllo, che si susseguono nel nostro spazio mentale senza che noi possiamo gestirli. Semplicemente si “impossessano” di noi. Ed è altrettanto esperienza comune che spesso in quello stato affermiamo di non essere in noi o di essere scarsamente lucidi. Questo vuol dire che le emozioni distruttive inquinano la nostra mente e ci tolgono la libertà. Al contrario le emozioni definibili come costruttive comportano una valutazione più oggettiva di quanto viene percepito dal momento che esse, non offuscando la nostra mente, si fondano su un uso più sano della ragione.

Da quanto detto, dunque, le emozioni distruttive intese sono qualcosa che comporta un danno a noi stessi e agli altri. In questo discorso è utile aprire una parentesi a proposito delle valutazione delle azioni: queste non sono in sé buone o cattive in maniera assoluta. Anche se la morale (anzi, sarebbe più corretto dire le morali) prescrivono ciò che è giusto o sbagliato, buono o cattivo, in realtà tale valutazione dipende sempre da molti fattori contestuali. Come ci ricorda Daniel Goleman: “esiste soltanto il buono e il cattivo – il danno in termini di felicità o di sofferenza – che i nostri pensieri e le nostre azioni provocano in noi o in altri.” Le emozioni distruttive, in questo senso, hanno conseguenze che sono sempre indirizzate alla sofferenza nostra o degli altri. Quindi un buon criterio per valutare se una azione sia buona o cattiva è, per esempio, comprendere quale sia l’emozione sottostante che l’ha generata o che la sostiene.

Le emozioni costruttive rappresentano inoltre un buon antidoto contro le emozioni distruttive. Facciamo un esempio prendendo due emozioni opposte fra loro: l’odio e l’altruismo. L’odio muove da un desiderio di arrecare danno a qualcuno, di distruggere qualcosa; l’amore altruistico è, invece, l’emozione opposta a questa ed è facile comprendere come essa agisca come antidoto rispetto al desiderio di recare danno. L’amore altruistico si oppone all’animosità verso gli altri poiché come sottolinea Daniel Goleman: “sebbene sia possibile provare alternativamente amore e odio, non si può provare contemporaneamente questi due sentimenti nei confronti di una stessa persona o di uno stesso oggetto. Di conseguenza, più si coltivano l’affetto, la compassione e l’altruismo – più essi pervadono la nostra mente – e più il loro opposto, il desiderio di recare danno, è costretto a diminuire e forse a scomparire.”

Infine è utile ricordare che quando definiamo una emozione come negativa o distruttiva, non significa che noi non dobbiamo provare tale emozione (anche se questo potrebbe essere un punto di approdo dopo un profondo cammino di sviluppo personale) ma che dobbiamo apprendere a non cedere ad essa perché farlo vorrebbe dire andare incontro a una minore felicità, benessere, e perdere la nostra lucidità e libertà, distorcendo il nostro rapporto con la realtà.

Dalai Lama e Daniel Goleman, Emozioni distruttive, Oscar Mondadori

Leggi altri pensieri di Daniel Goleman: La consapevolezza delle emozioni

Leggi articolo su: Come liberarsi da emozioni negative

il senso di colpevolezza

Il senso di colpevolezza

Il senso di colpevolezza è un vissuto che tutte le persone provano anche se per alcune di loro esso diventa una condizione ripetitiva e cronica che accompagna molto tempo della propria giornata. Vediamo insieme come il senso di colpa si manifesta e quali potrebbero essere i modi di sbarazzarsene per provare a vivere una vita più felice.

“Il senso di colpevolezza viene a far parte della struttura emozionale di un individuo principalmente in due modi. Nel primo, il senso di colpevolezza viene appreso in tenerissima età e persiste nell’adulto come residua reazione infantile. Nel secondo, l’adulto si autoimpone il senso di colpa per una infrazione a un codice al quale professa di credere.

Senso di colpevolezza residuoÈ la reazione emotiva scatenata da ricordi dell’infanzia. Le frasi che la producono sono una quantità. Hanno inciso sul bambina, e questi, divenuto adulto, ancora se le porta dentro. Tra queste frasi si annoverano ammonizioni quali: “Se lo fai un’altra volta, papà si arrabbia”. “Dovresti vergognarti (quasi intendendo che gli farebbe bene). “Ah, va bene! Allora sono solo tua madre!”. Le implicazioni contenute in queste frasi possono ancora ferire l’adulto che deluda il capoufficio o persone nelle quali egli ravvisi quasi dei genitori. Persiste il tentativo di conquistarsi il loro appoggio, e persiste altresì il senso di colpa se i tentativi falliscono. (…)

Senso di colpevolezza autoimposto – Questa seconda categoria comprende reazioni di colpa assai più tormentose delle prime. L’individuo è immobilizzato da cose che ha fatto di recente, ma che non sono necessariamente collegate alla sua infanzia. Si tratta del senso di colpevolezza che ci si autoimpone allorché si viola una norma o un codice morale da adulti. (…) Puoi dunque considerare il tuo senso di colpevolezza come una reazione a certi standard che ti sono stati imposti, per cui cerchi tuttora di compiacere una persona anche assente investita di autorità su di te; oppure come il risultato del tentativo (fallito) di essere all’altezza di certi standard che ti sei autoimposto, ma che in realtà non hai fatto tuoi se non a parole.”

COMMENTO – Per ognuno di noi è possibile provare a modificare il proprio atteggiamento nei rispetto a ciò che genera il senso di colpevolezza. La maggior parte delle motivazioni che generano in noi il senso di colpa derivano dalla particolare mentalità che abbiamo sviluppato riguardo i fatti della vita e al sistema di valori che la sostengono. Si tratta di qualcosa che abbiamo appreso o che ci è stato insegnato a volte senza che ne noi ne fossimo direttamente consapevoli. Per esempio, possiamo aver appreso a non essere indulgenti con noi stessi, a comportarci in maniera inflessibile riguardo a certi aspetti della vita. Spesso il senso di colpa è collegato al piacere, nel senso di qualcosa che non dovremmo provare  o farlo solo “con discrezione” perché se ne ha una idea sbagliata. È possibile imparare a gustare il piacere senza sentirsi in colpa e a considerarsi persone che sono in grado e possono fare tutto ciò che rientra nel proprio sistema di valori a patto che non arrechi danno a qualcuno. Allo stesso modo possiamo lavorare per non sentire un senso di colpevolezza nei casi in cui facciamo qualcosa che non ci piace e proprio per questo ci ripromettiamo di non farla mai più. Scopriremo così che il senso di colpa non serve e che ci tiene solo immobilizzati impedendoci di vivere liberamente la nostra vita. Di seguito quattro piccoli ma preziosi consigli di Wayne Dyer su come lavorare per debellare il senso di colpa.

  • “Cominciare a guardare al passato come a qualcosa di immutabile, malgrado i penosi stati d’animo che può suscitare. È finito! Non c’è senso di colpa che possa cambiarlo.”
  • “Cominciare ad accettare certe cose di te stesso che tu hai scelto ma che ad altri possono non piacere. (…) Una volta che non avrai più bisogno di essere approvato, sparirà il senso di colpa derivante da un comportamento che non reca approvazione.”
  • “Insegnare alle persone che tentano di manipolarti col senso di colpa, che sei perfettamente capace di far fronte al loro disappunto o delusione.”
  • “Riconsiderare il tuo sistema di valori. A quali valori credi profondamente? Quali, invece, dai solo a vedere di accettare? Elenca questi valori fittizi, e decidi di vivere all’altezza di un codice di valori morali determinato da te, non imposto da altri.”

Wayne Dyer, Le vostre zone erronee, BUR Rizzoli

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la solitudine

La solitudine non è sempre isolamento…

In cosa la solitudine e l’isolamento differiscono? Mentre la solitudine può rappresentare una condizione umana in cui è possibile arricchire la nostra interiorità, la seconda condizione è uno stato di profonda aridità capace solo di togliere a chi la sperimenta la prospettiva del futuro.

La solitudine è una condizione che va ben distinta dall’isolamento, in quanto essa è una delle condizioni portanti dell’esistenza umana, utile e necessaria. Infatti la solitudine costituisce in sé una dimensione psicologica ricca di umanità, e non si struttura come chiusa in se stessa  ma ha una dimensione temporale, essendo essa rivolta al futuro, fatta di attesa e speranza. Come scriveva Seneca: “La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo”. Al contrario l’isolamento è vissuto nella sua aridità e relegato al solo nel tempo presente, distaccato dal passato e dal futuro, in una dimensione abbandonica. Le due condizioni, dunque, sono tra loro profondamente diverse per l’impatto e le conseguenza sul nostro animo, condividendo solo l’apparente allontanamento dalle altre persone e dal mondo, e l’allentamento dei rapporti con gli altri.

Molto spesso tali diversità tra la solitudine e l’isolamento non sono tenute in debita considerazione quando si affronta il difficile tema dell’essere-soli. Sicuramente una differenza tra le due condizioni è data dalla volontarietà con cui l’individuo vive l’esperienza dello stare solo: nella solitudine c’è un aspetto di ricerca volontaria di questo stato, quasi un ripiegarsi su se stessi per rigenerare il proprio animo e per riacquisire un contatto con noi stessi. Nell’isolamento tale condizione sembra essere per lo più subita e non il frutto di una preziosa intenzione. Subita non solo perché talvolta imposta dagli altri, ma subita anche come stato esistenziale in cui più o meno involontariamente si scivola verso una condizione di “abituale” disconnessione dai rapporti sociali, incapaci di comprenderne la pericolosità. L’isolamento, per quanto di per sé negativo, può essere momentaneo e passeggero. Esso tuttavia diventa fonte di sofferenza quando in maniera permanente si viene esclusio quando, volontariamente, ci si allontana dagli altri.

Sicuramente non è decisiva nel creare la differenza tra questi due stati la presenza degli altri: ci si può sentire soli, senza essere soli, anche nel contesto di una folla; all’opposto non ci si può sentire soli, pur essendolo, anche nel deserto. Ciò accade, ossia si può convertire lo stare soli in una condizione feconda, se la usiamo per realizzare una profonda apertura a noi stessi e per certi versi agli altri, pur non presenti. La solitudine apre alla riflessione, al dialogo con noi stessi, alla consapevolezza sincera rispetto alla nostra esistenza e a quella degli altri. Così, pur potendo essere soli nella nostra casa così come in un monastero e sulla vetta di una montagna, il nostro animo se così disposto non vive l’esperienza lacerante dell’isolamento (che è solo mancanza) ma si predispone al colloquio interiore e, spesso, questo ripiegamento su noi stessi, questo distacco dalla frenesia e dalla materialità del vive, ci predispone all’esperienza della trascendenza che ci conduce oltre la nostra individualità.

La solitudine proprio per le caratteristiche che stiamo evidenziando ha intrinsecamente il valore di metterci in rapporto con le altre cose del mondo, mentre ciò non accade nell’isolamento dove l’unica esperienza possibile è quella della perdita. Come suggerisce Eugenio Borgna il rapporto tra isolamento e solitudine è lo stesso che intercorre tra mutismo è silenzio. Stare in silenzio, tacere, può essere una scelta per cui si potrebbe dire qualcosa ma si decide di non dire; nel mutismo, invece, la possibilità della scelta non è data ma c’è solo la perdita della parola. Dunque nella scelta della solitudine, l’individuo rimane comunque aperto agli altri e alle cose del mondo; viene mantenuta la relazione significativa con il mondo verso cui si ritornerà più ricchi e “umani” di prima. La condizione dell’isolamento, che può anche spesso essere cercato dalle persone in uno stato di sofferenza, si definisce come una chiusura mondo dal quale ci si vuole allontanare, appunto per troppo dolore, per rabbia, per difesa. L’isolamento nel suo insorgere si manifesta in un tipico circolo vizioso. Inizia con un sentire un senso di distacco dagli altri, dovuto a non sentirsi compresi e capiti dagli altri. Da qui si fa strada l’idea di essere diversi, poco compatibili con gli altri e con il resto del mondo; si arriva così a sperimentare una disconnessione dalle ordinarie relazioni sociali e a mettere in atto un ritiro sociale. Tutti questi atteggiamenti e vissuti non fanno altro che rinforzarsi l’un l’alto, mantenendo lo stato di isolamento.

La solitudine, a differenza dell’isolamento, è un’esperienza in cui si continuano ad affermare i valori interpersonali e del rapporto con gli altri: semplicemente, per un certo tempo, ci si astrae dagli affanni quotidiani, dalla confusione e dal caos che talvolta comporta il vivere ordinario, e questa distanza data dalla solitudine ci offre una nuova dimensione per cedere, sentire, valutare la nostra vita e gli altri. Quando siamo troppo immersi nel flusso della vita, in relazioni incrinate, nella febbrile ansia di raggiungere mete, spesso perdiamo i giusti “rapporti” con gli altri e con l’esistenza. Ecco che allora la solitudine può servire a ritarare valori e gerarchie, oltre che a portarci un po’ fuori da noi stessi con uno sguardo più ampio.

Ciò, come già detto, non accade con l’isolamento, con cui ci si allontana dal mondo e si rimane prigionieri di una esperienze caratterizzata dall’indifferenza e dal rifiuto dell’altro; l’individuo rimane così sclerotizzato nei confini del proprio Io, privo di aperture verso il mondo: tutto diventa piccolo, angusto e stretto. Talvolta accade anche che, sprofondato in tale condizione, l’individuo non sia più nemmeno libero di allontanarsi da tale isolamento. Si perde lo sguardo della speranza, e si finisce per credere o per non vedere che ci possono essere ancora esperienze che aprano al futuro. Sicuramente l’isolamento ha molte forme di manifestazione e può esprimersi e realizzarsi in tanti modi; tuttavia può sicuramente essere immaginato, al di là delle sue forma, come delle sabbie mobili nelle quali lentamente si affonda se non si è pronti ad aggrapparsi a qualcosa con cui fare leva per tirarsene fuori.

È possibile uscire fuori da tali sabbie mobili dell’isolamento, nel momento in cui si prova e si riesce a trasformarlo in solitudine, ossia a rimpossessarsi della capacità di un confronto critico con noi stessi, non distruttivo, così come di un’analisi del proprio rapporto con il mondo e gli altri. È questo il cammino della cura, sia essa psicoterapia o farmacoterapia, indirizzato a rompere la rigidità e le difese dell’isolamento e a favorire il riemergere di contenuti emozionali veri e genuini. Perché poi la differenza tra solitudine e isolamento sta anche in questo: nella solitudine la vita continua con le sfumature delle emozioni, mentre nell’isolamento lentamente la vita scompare in una nebbia priva di colori. Nel percorso della cura è importante distinguere i motivi che possono condurre un individuo all’isolamento: una sofferenza psichica, la dissoluzione di rapporti significativi, la frustrazione per perdite di altro tipo o sconfitte, situazioni irrisolte e che generano grovigli emotivi che danno impossibilità di vivere pienamente della vita. Le strade che possono portare all’isolamento sono molteplici e ogni isolamento ha propri significati che devono essere profondamente compresi da chi ci si trova avviluppato, per poter trovare la strada di uscita.

Leggi: Come affrontare l’isolamento

Leggi altro articolo: Com sono costruite le relazioni?

attenzione divisa

L’ attenzione divisa e la consapevolezza

Esistono varie tipologie di attenzione: quella passiva in cui gli stimoli semplicemente ci “arrivano” senza che ci sia una nostra concentrazione su di essi; quella attiva, in cui ci dirigiamo volontariamente verso un oggetto o un certo stimolo; infine quella che viene definita attenzione divisa in cui attivamente osserviamo sia l’oggetto del nostro interesse sia il modo in cui noi stessi siamo impegnati in quella circostanza. Solo questa forma di attenzione divisa, se sviluppata e coltivata, può aiutarci a promuovere la nostra consapevolezza.

In genere la nostra attenzione viene catturata da quanto accade intorno a noi e da ciò in cui siamo occupati. Quando ciò accade le attività in cui siamo presi e in cui operiamo con le nostre parti motorie, emotive e intellettive sono svolte per la maggior parte del tempo in modo automatico. Ciò accade anche per quelle attività che richiederebbero una attenzione maggiore, in quanto il funzionamento meccanico della nostra “macchina” comporta un minor sforzo e una minore quantità di energia. Spesso ciò accade in quelle attività che sono per noi abitudinarie mentre è più facile sfuggire a questa assuefazione quando ci dedichiamo a lavori nuovi.

Naturalmente il livello di attenzione con cui ci dedichiamo a tali attività determina anche la profondità del nostro impegno, la riuscita e l’efficacia del nostro fare: se ad esempio stiamo cucinando e svolgiamo questa attività meccanicamente non metteremo molta attenzione in ciò che stiamo facendo; così, ci potrebbe capitare di scoprire di aver condito il piatto in preparazione con lo zucchero anziché con il sale solo perché quest’ultimo era stato spostato dal suo posto abituale. Potrebbe anche accadere di non riuscire a ricordare quando ciò sia successo proprio per l’automaticità dei nostri gesti. Dunque, come descritto in questo esempio, ci può capitare anche in altre circostanze di avere difficoltà a ricordare il modo in cui abbiamo compiuto determinate azioni e ciò accade perché in quelle occasioni eravamo guidati dalle parti meccaniche della nostra psiche. Conseguentemente il nostro livello di attenzione era basso o nullo.

Al contrario quando proviamo a essere presenti a noi stessi, attiviamo la nostra attenzione attraverso un uso intenzionale della nostra mente. Di conseguenza se ci concentriamo sul modo in cui compiamo una certa azione o su determinati pensieri, oppure sulla tipologia di stimoli a cui consentiamo di raggiungerci e che stimolano in noi certe emozioni, saremo in grado non solo di non subire automatismi ed eventi, ma impareremmo a conoscere e gestire ancora meglio il nostro Essere. Lo stesso accadrebbe se mettessimo maggiore attenzione sui nostri interlocutori – sui loro movimenti, sulle loro parole – permettendoci di ricavare molte informazioni su di loro e sulla relazione in atto.

Tuttavia il lavoro su noi stessi ci richiede uno sforzo in più oltre il porre attenzione in ciò che facciamo o accade intorno a noi. Infatti, facendo attenzione in questo modo saremmo concentrati ancora solo su una cosa sola esterna o interna a noi stessi. Il successivo livello di attenzione è quello dell’attenzione divisa. Essa si basa sullo sforzo di aggiungere all’ osservazione dell’oggetto anche l’osservazione di noi che agiamo in quel momento. Questo vuol dire sforzarsi di “vedere” non solo cosa stiamo osservando (attenzione ordinaria) ma anche come “funzioniamo” nel corso dell’osservazione (del nostro fare). Se ad esempio stiamo guardando con partecipazione un film in televisione, e questo ci porta a funzionare tra l’altro con le nostri parti emozionali, potremmo cominciare ad osservare anche il nostro modo di essere in questa circostanza. Così, mentre continuiamo a vedere il film, potremmo osservare le nostre reazioni alle scene in televisione: le tensioni muscolare che sviluppiamo; il desiderio che avvengano o meno certe cose; i pensieri che si susseguono riferiti al film o ad altri aspetti della nostra vita. La differenza sostanziale tra i livelli di attenzione è questa: al livello meccanico siamo solo catturati dal film, in modalità passiva; al secondo livello diamo attenzione a ciò che guardiamo, seguiamo con interesse e partecipazione la trama del film; al terso livello riusciamo a osservare noi stessi mentre siamo impegnati in questa attività, aumentando la nostra consapevolezza.

In questo tipo di osservazione di noi, frutto di un’attenzione divisa è fondamentale nelle prime “esercitazioni” non cercare di cambiare nulla di quanto accade, iniziando a considerare come giusto o sbagliato il nostro atteggiamento. Prima di provare a cambiare qualcosa è importante imparare ad osservarci come siamo, con le nostre meccanicità, debolezze e forze.
La parte di noi che osserva e che tramite la pratica si viene a formare, tenderà nel tempo attraverso l’esercizio a fortificarsi. Quando siamo identificati (assorbiti, catturati) in qualcosa, tale stato impegna tutta la nostra attenzione; tuttavia, se riusciamo ad osservare ciò che stiamo facendo, per cui di conseguenza saremo meno identificati, accade che una certa parte dell’attenzione viene sottratta per essere investita nella promozione della consapevolezza di noi.

In generale, gli individui vivono scollegati rispetto ai processi che avvengono in loro e ai comportamenti che agiscono. Di questo fatto essi non ne sono consapevoli. Così, se una persona sta cucinando può accadere che una parte di lei è dedita a compiere questa azione mentre un’altra parte pensa a un problema di lavoro irrisolto. Inconsapevolmente quello che accade è che l’ attenzione divisa di questa persona viene attivata inconsapevolmente su due “oggetti” diversi: la cucina e gli altri pensieri. Quando, invece, dividiamo consapevolmente la nostra attenzione si verificano alcuni cambiamenti nella nostra vita mentale dal momento che ciò che prima si verificava accidentalmente e senza coscienza, ora viene ricercato appositamente. Questa nuova situazione dell’ attenzione divisa attuata volontariamente è sia la conseguenza sia uno stimolo ad essere più presenti nel “qui ed ora”. Ciò comporta la possibilità di vivere le esperienze in modo più completo e ricco, oltre che di trarre dalle stesse esperienze maggiori informazioni su noi stessi e sul contesto intorno a noi.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 23: L’attrito psicologico e la consapevolezza di sé

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frizione

La frizione ovvero gestire il conflitto

La frizione ovvero le conflittualità che la nostra psiche sperimenta quotidianamente, sono delle ottime occasioni per lavorare sulla nostra consapevolezza, ampliando la conoscenza di noi stessi…

Partiamo da una affermazione di Gurdjieff che in sé racchiude una profonda saggezza: “Se un uomo vive senza lotta interiore, se in lui tutto accade senza opposizione, se va sempre seguendo la corrente o come il vento lo spinge, allora resterà com’è.” La frizione è un fenomeno generato da un attrito tra due parti che vengono a contatto fra loro e che tendono o spingono in direzioni opposte o tali che una di esse si oppone al movimento dell’altra.  Naturalmente quella della frizione o dell’attrito è una metafora presa a prestito dal mondo della fisica ma ben serve a descrivere quanto avviene anche nella nostra vita interiore. Nella vita ordinaria di ogni persona, a prescindere dalle proprie intenzioni, si vengono a creare frizioni causate dalle lotte interiori ed esteriori innescate da elementi che tra loro vengono a confliggere. Diversi gruppi di Io attivi entrano in contrasto tra di loro in situazioni relative a scelte più semplici, come “che cosa magiare per cena”, o a scelte più difficili, come “con chi avere una relazione” e che “che tipo di studi intraprendere all’università”.

Molto spesso, a causa della scarsa consapevolezza che abbiamo e del conseguente agire meccanico, tali frizioni agiscono in maniera inconsapevole, per cui l’individuo non conosce realmente le cause e le conseguenze delle scelte che compie, decidendo di prendere una direzione al posto di un’altra solo in modo accidentale e meccanico in base alla propria natura. In genere così tendiamo a comportarci nelle nostre vite: posti davanti a scelte complicate, optiamo per la risposta già nota in quanto più facile o spontanea. Davanti ad una scelta che richiede di prendere una direzione, si genera sempre una frizione sperimentata dalla persona come difficoltà e in termini di spiacevolezza e fastidio. In queste condizioni abbiamo la tendenza a comportarci automaticamente in base alle esperienze passate durante la nostra esistenza. Talvolta l’inconsapevolezza della frizione o attrito ci porta a non essere neppure consci delle alternative in gioco; sperimentiamo solo un fastidio e a questo disagio diamo risposta agendo comportamenti meccanici. Ad un certo livello questo modo di procedere è naturale e “giusto” da un punto di vista adattativo. Tuttavia, comporta due conseguenze: la prima è relativa allo sviluppo del nostro essere, per cui accomodarci troppo nella naturalezza e spontaneità della vita ordinaria ci impedisce di procedere verso un più alto livello di consapevolezza; la seconda riguarda il fatto che tale meccanismo funziona bene finché le cose vanno bene, ma cessa di essere funzionale quando ci viene richiesto un cambiamento ossia “fare” qualcosa di altro rispetto all’essere meccanici.

Un’altra situazione che spesso si viene a creare nei momenti in cui sperimentiamo una frizione è quella di rispondere meccanicamente con comportamenti disorganizzati a causa dell’ansia. Per comprendere ciò pensiamo ad un artigiano che davanti ad un dilemma o problema nel proprio lavoro, dovendo scegliere lo strumento più adatto per portare avanti la propria opera, andando in ansia, inizia a utilizzare a casaccio i suoi strumenti e non scegliendoli in base allo scopo per cui sono stati creati: prenderà uno scalpello per battere un chiodo oppure un martello per “piantare” una vite. Non solo non otterrà dei buoni risultati, ma avrà procurato un danno agli strumenti usati perché impiegati in modo improprio e avrà sprecato molte energie senza ottenere molto dal proprio lavoro. Occorre, allora, apprendere a dirigere la propria attenzione, nel momento di difficoltà generata da una frizione,  sul piano della scelta, cercando di orientarsi tra le alternative su quella in grado di favorire la nostra evoluzione. Infatti, nell’individuo la parte di lui più evoluta e quella più meccanica sono sempre appaiate l’una accanto all’altra, come strade ad un bivio: ciò vuol dire che se nel momento della scelta non agiamo in maniera consapevole, è più facile dirigersi sul percorso “meccanico” perché, essendo impossibile non scegliere, opteremo per la strada già battuta in precedenza.

Un ulteriore modo in cui una frizione può essere generata è quando ci troviamo a vivere una situazione di conflittualità con un’altra persona. In queste situazioni l’energia generata dalla frizione può essere utilizzata non solo come deviazione rispetto all’espressione di emozioni negative (per esempio la rabbia), ma anche per scoprire qualche cosa in più di noi stessi. In questi casi, infatti, piuttosto che agire risposte automatiche proviamo a domandarci: “qual è la mia fragilità che questa frizione sta facendo emergere?”. Proviamo con un esempio a comprendere questo aspetto del lavoro su noi stessi. Quando dall’esterno, nel corso di una interazione, riceviamo stimoli che contraddicono ciò che volevamo ricevere o speravamo di avere dal nostro interlocutore, si genera un attrito e una frizione. Il nostro interlocutore potrebbe, ad esempio, emettere dei giudizi nei nostri confronti oppure esprimere un’opinione differente dalla nostra, o ancora manifestare un comportamento diverso da quanto ci attendevamo. In una tale situazione è facile per noi sperimentare una frizione sotto forma di malumore o irritazione. Anziché agire meccanicamente la nostra rabbia e iniziare anche noi a giudicare l’altro, spostiamo l’attenzione sulla vera origine del nostro fastidio generato dalla frizione. Potremmo così accorgerci che alla sua base potrebbe esserci la nostra personalità vanitosa che non riesce ad accettare queste situazioni, oppure la pretesa che tutti siano sempre d’accordo con noi o che ci appressino. Così facendo abbiamo usato l’energia della frizione per aumentare la consapevolezza su noi stessi. L’esito di questo movimento interno non è solo di essere riuscito a bloccare una emozione negativa ma anche di aver evitato di perdere tempo ed energie svuotando inutilmente il nostro essere senza costruire nulla. Al contrario, dopo un scontro con gli altri avvertiamo di aver esaurito tutte le energie (sentirsi “scarichi”) dal momento che questo tipo di risposta non porta a nessuna nuova comprensione su di no.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 21: L’attenzione come strumento di consapevolezza

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attenzione

L’attenzione strumento di consapevolezza

L’attenzione è un potente strumento per sviluppare una maggiore consapevolezza di sé. Ma solo l’attenzione volontaria e frutto di uno sforzo riesce a produrre i risultati utili al lavoro su di sé. Inoltre la pratica dell’attenzione nell’osservazione di sé richiede la capacità di dividere l’attenzione per poter mettere fine ai comportamenti automatici

Ci sono tre tipi di attenzione: l’attenzione zero, che caratterizza tutti i nostri comportamenti automatici; l’attenzione che non richiede sforzo, perché funziona per attrazione in quanto ci sono cose che la suscitano e la attirano; l’attenzione che è diretta da uno sforzo e dalla volontà. È quest’ultima attenzione ad essere fondamentale per il lavoro su se stessi. L’attenzione è uno strumento fondamentale che rende possibile la pratica dell’osservazione, vero cardine del lavoro su di sé in quanto mezzo per promuovere consapevolezza. Ci sono due tipi di osservazione che possono essere praticati: osservare ed essere presenti a se stessi sono due cose differenti. In entrambi i casi è necessaria l’attenzione. Tuttavia nell’osservare, l’attenzione è orientata all’esterno di noi attraverso i sensi. Nell’osservazione di sé, ossia nell’essere presenti a se stessi, l’attenzione è volta interiormente, e per fare questo non ci sono organi dei sensi. Dall’osservazione di sé nasce un’altra conoscenza. Come ricordato per questo tipo di conoscenza non possiamo servirci dei sensi perché non abbiamo nessun organo sensoriale che si rivolga interiormente e attraverso il quale arrivare a osservarsi con la facilità con cui osserveremmo un panorama o un oggetto. Questo è il motivo per cui l’osservazione di sé è più difficile dell’osservazione. Mentre il primo tipo di conoscenza può mutare le condizioni esterne della vita di una persona, il secondo tipo cambia l’uomo stesso. L’osservazione esterna è un mezzo per cambiare il mondo, mentre l’osservazione di sé è lo strumento per cambiare noi stessi.

Poniamoci però una domanda: quando facciamo attenzione a qualcosa, si è identificati con quel qualcosa? Teniamo conto che essere identificati con qualcosa non è mai uno stato del nostro essere che favorisce la consapevolezza, anzi è una condizione che fa sparire dalla nostra percezione il nostro Io. In quel momento noi siamo solo ciò con cui ci identifichiamo. Tornando alla domanda di prima e cominciamo ad analizzare l’identificazione interiore: una persona che è completamente identificata con un proprio stato interiore (può sentirsi depressa o aver paura o sentirsi offesa o furiosa) è semplicemente il proprio stato. In questo caso la percezione del proprio “Io” e il suo stato sono la stessa cosa. Questa è l’identificazione interiore. La percezione del proprio “Io” è collocata nel proprio stato d’animo. Supponiamo, tuttavia, ora che questa persona osservi il proprio stato: ossia pur continuando a sperimentare quel determinato stato d’animo, inizia anche ad osservarsi. Tale operazione chiaramente richiede attenzione e questa ci pone nella parte più consapevole del nostro funzionamento mentale. Torniamo ora alla domanda precedente: quando si presta attenzione, si è identificati? Chiaramente la risposta è no, se l’attenzione di cui parliamo è un’attenzione consapevole e voluta. Affinché un individuo possa evolversi dalla sua posizione di coscienza ordinaria verso uno stato più alto, è necessario prima di tutto che apprenda a dividere se stesso in due. Cioè, è necessario che oltre a vivere un certo stato, sia anche capace di osservarlo. Se questo individuo è solo il proprio stato, allora egli può fare nulla. Se, invece, riesce a dividere se stesso in un lato osservante e in un lato osservato (la parte di se stesso che sperimenta lo stato), allora inizia ad essere capace di cambiare internamente. Questo concetto è un aspetto miliare del lavoro su se stessi, perché tale metodo rappresenta il modo di liberarci dalla prigione di noi stessi.

L’attenzione può essere divisa anche in un altro modo. In genere le persone quando usano l’attenzione, anche quella condotta coscientemente, tendono o ad indirizzarla verso l’esterno o a focalizzarla verso il proprio mondo interiore. Nel momento in cui siamo in grado di essere consapevoli contemporaneamente  di quanto accade sia dentro di noi sia fuori di noi, stiamo iniziando a praticare l’attenzione divisa. Ad esempio – e questo potrebbe essere un ottimo esercizio per iniziare – possiamo osservare la relazione che intercorre tra noi ed una persona: noteremmo se noi in quella situazione ci sentiamo a nostro agio o meno; al tempo stesso vedremmo come questa persona si comporta (per esempio come muta il suo tono di voce) e potremmo mettere in collegamento il nostro stato e questo aspetto. Dal momento che sia noi sia il nostro interlocutore siamo della macchine, potremmo accorgerci che alcuni nostri comportamenti sono risposte automatiche e, quindi, frutto di schemi, abitudini e pregiudizi. Così come accade per la persona davanti a noi e questa consapevolezza ci porterebbe a valutare differentemente alcuni suoi atteggiamenti. Nella sostanza questo lavoro dell’attenzione divisa ci conduce a una nuova esperienza del mondo.

Inoltre, dopo un certo tempo di lavoro su noi stessi, possiamo diventare osservatori attivi (solo a questo punto possiamo realmente “fare) di ciò che avviene fuori e dentro di noi, evitando per esempio di identificarci o alcune nostre risposte meccaniche. Questo potrà accadere perché allora saremo in grado di avere una visione più neutrale, tenendo conto di un maggior numero di variabili presenti al momento. Saremo più svegli e quindi avremo una visione più oggettiva della realtà e di noi stessi.
La divisione dell’attenzione può essere esercitata con diversi gradi di intensità e, come accade per l’auto osservazione ed il Ricordo di sé, è importante cominciare da situazioni più semplici e limitate per poi crescere nella difficoltà con il tempo attraverso sforzi intenzionali.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 20: Il ricordo di se stessi

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parlare inutile

Il parlare inutile

Il parlare inutile è forse il più insidioso degli ostacoli verso una maggiore consapevolezza di noi stessi.  È un parlare senza sapere, solo per riempire un vuoto. L’aspetto più deleterio di questo modo di trascorrere il tempo sta nel fatto che le persone non sanno che spesso il loro parlare si basa sul nulla e quindi non possono neppure provare ad interromperlo…

Stiamo affrontando gli ostacoli che rendono ardua la strada verso la consapevolezza. Come già detto, questi ostacoli consistono in tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che impediscono alle persone di avere una vera coscienza di se stesse e delle situazioni che vivono, quindi di conoscersi. Inoltre questi ostacoli non solo creano un impedimento, ma rafforzano anche l’erronea convinzione che l’individuo ha di se stesso come di un essere padrone di sé e dotato di una unità del proprio essere. L’ultimo ostacolo che esaminiamo in questa lezione è quello del parlare inutile. Partiamo da una considerazione che fa P.D. Ouspensky: “Mi resi conto allora che la gente temeva il silenzio più che ogni altra cosa, e che la tendenza a parlare senza posa non era che un riflesso di difesa, basato sul rifiuto di vedere qualche cosa, un rifiuto di confessare qualcosa a sé stessi.”

Molto spesso quando parliamo non solo non abbiamo un preciso scopo per le nostre “chiacchiere” ma lo facciamo anche senza una vera conoscenza di ciò di cui discorriamo. Come altri aspetti del nostro comportamento anche il parlare avviene attraverso un’azione automatica sia del nostro centro motorio sia di quello emozionale che di quello intellettuale. Nella nostra mente diamo forma a scenari stimolati dal nostro centro emozionale e, senza sottoporli a verifica, finiamo per parlarne per ore con chiunque stia lì ad ascoltarci. Ugualmente con le associazioni automatiche del nostro centro intellettivo che finiscono per essere “espulse” in chiacchiere per inerzia. Così, qualunque esperienza che non riusciamo a metabolizzare cerchiamo di eliminarla attraverso il parlare inutile.

Osserviamo due conoscenti che si incontrano per la strada e che data la situazione iniziano a conversare. Probabilmente il loro parlare seguirà tutta una serie di cliché per cui nessuno dei due è realmente consapevole di ciò di cui sta parlando, e la conversazione si muoverà sulla scorta di meccanismi associativi, priva di un qualunque scopo. Se chiedessimo a questi due conoscenti l’oggetto della loro conversazione potrebbero ricostruire il percorso del dialogo, tuttavia, riguardo al fine e alla ragione del loro parlarsi, più di un semplice “lo facciamo perché ci fa piacere” non saprebbero dire. Ma ciò che abbiamo osservato è proprio quanto deve essere, e ogni giudizio da noi espresso in merito rivelerebbe una mancanza di vera comprensione di quello che è tale forma del parlare. Il parlare inutile è utilizzato per colmare gli spazi vuoti e di disagio personale che, se diversamente utilizzati, potrebbero condurci a occasioni di maggiore presenza e consapevolezza. Il parlare inutile è il frutto di un’azione incontrollata e può concretizzarsi sia a livello verbale attraverso una conversazione con qualcuno, sia a livello mentale quando siamo assorti in “conversazioni interiori” in quello stato che nel sistema psicologico della Quarta Via viene chiamato di immaginazione.

Osservando il parlare inutile noteremmo che esso consiste in un passare da un soggetto della conversazione ad un altro senza interruzione; così, se ci troviamo coinvolti in una conversazione su un soggetto di cui conosciamo poco, utilizzeremo le poche informazioni che possediamo per prendere parte ad essa come se effettivamente conoscessimo ciò di cui si parla. Nella conversazione inutile per lo più non abbiamo un preciso obiettivo nel nostro parlare, per cui per portare avanti la conversazione utilizziamo qualunque pensiero che associativamente si collega ai discorsi che si stanno facendo. In questo modo il parlare inutile diventa un mero strumento di eliminazione:  trovandoci in una situazione di disagio iniziamo a parlare, evocando a partire da alcuni input che riceviamo al momento una serie di pensieri nella nostra mente.

Se ci accorgiamo di tale meccanismo, invece di agirlo automaticamente e immediatamente, iniziamo ad osservare il tipo di disagio che il centro emozionale sta respingendo. Grazie a questo nuovo schema saremo in grado di osservare noi stessi e, al tempo stesso, questo contatto profondo con noi stesi ci insegnerà a contenere il parlare inutile. Uno dei “respingenti” con cui ci crogioliamo nel parlare inutile è il bisogno di “essere spontanei”, “essere veri con gli altri” per cui ci sentiamo autorizzati a dire tutto quanto ci passa per la mente senza un minimo di consapevolezza. Inoltre il tabù sociale riguardante il silenzio, ci impone di riempire il vuoto tra noi e gli altri con il parlare (“le chiacchiere da ascensore”).

Come ricordava Gurdjieff una persona che parla in maniera più intenzionale risulta essere meno interessante per gli altri. Questo tipo di conseguenza rappresenta un ostacolo soprattutto emozionale con cui, nel corso del lavoro su noi stessi, dobbiamo essere pronti a confrontarci. Quando lavorando su noi stessi ci troviamo ad andare contro aspettative personali o degli altri, in quel momento entriamo in quella condizione di sofferenza volontaria essenziale alla nostra crescita. In questi casi è utile ricordare a noi stessi se preferiamo la vanità di sentirci simpatici agli occhi degli altri, o la verità di un momento di consapevolezza. Questo non deve far pensare al lavoro come “sofferenza” ma al fatto che anche quando si ride e si scherza, il comportamento che viene messo in atto deve essere intenzionale. Ma questo richiede tempo e conoscenza per poter essere espresso in questa forma.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

Leggi lezione n. 15: La considerazione interna, ovvero essere troppo presi da se stessi

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Emozioni positive e felicità

Le emozioni positive sono la via di accesso alla felicità che, a sua volta, favorirà successo e risultati nella nostra vita. Dunque la prospettiva che vuole che sia il successo a generare la felicità viene completamente ribaltata… Shawn Achor, “Il vantaggio della felicità”, Edizioni “Scuola di Palo Alto”

Per innumerevoli generazioni siamo stati portati a credere che la felicità orbitasse intorno al successo, che, se lavoriamo sodo, avremo successo e solo allora saremo felici. Il successo doveva essere il punto fermo nell’universo del lavoro e la felicità era pensata per ruotargli attorno. Ora, grazie ai progressi nel campo in espansione della Psicologia Positiva, stiamo imparando che è vero il contrario. Quando siamo felici – cioè quando la nostra mentalità e il nostro umore sono positivi – siamo più intelligenti, più motivati e, quindi, otteniamo un successo maggiore. La felicità è il fulcro e il successo le ruota attorno. Sfortunatamente, malgrado decenni di ricerche che ci illustrano come stanno davvero le cose, molte aziende e i loro leader rimangono ostinatamente attaccati al vecchio modo – errato – di pensare. Coloro che detengono l’autorità e il potere continuano a dirci che se oggi lavoriamo sodo avremo successo e, di conseguenza, saremo più felici, in un futuro più o meno vicino. Mentre siamo impegnati a raggiungere i nostri obiettivi, la felicità è quasi irrilevante, oppure rappresenta un lusso di cui possiamo facilmente fare a meno o una ricompensa che può essere guadagnata solo dopo una vita di fatica e sacrifici. Alcuni la considerano addirittura una debolezza, un sintomo che non ci stiamo dando da fare abbastanza. (…)

Continua a leggere su: Shawn Achor, “Il vantaggio della felicità”, Edizioni “Scuola di Palo Alto”

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