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Criticare in modo sano e in modo sbagliato

Quali sono i modi giusti e i modi errati di esprimere una critica all’altro? Cosa nascondono gli atteggiamenti di disprezzo e collera verso i nostri interlocutori? Criticare ciò che fa qualcuno è molto diverso da criticare la persona stessa. Pochi e semplici regole per affrontare gli attriti e le conflittualità nel modo migliore evitando atteggiamenti aggressivi.

“Le differenze fra una protesta e una critica personale sono semplici. In una protesta, la moglie indica specificamente che cosa l’ha infastidita e critica l’azione del marito, spiegando come essa l’abbia fatta sentire, senza scagliarsi direttamente contro di lui: “Il fatto che hai dimenticato di prendere i miei vestiti in tintoria mi ha dato la sensazione di essere trascurata”. Questa è un’espressione di elementare intelligenza emotiva: sicura, senza aggredire né mostrare passività. Ma in una critica personale, la donna avrebbe usato la rimostranza specifica per lanciare al marito un attacco globale: “Sei così egoista e privo di attenzioni. Questo non fa che dimostrare che faccio bene a pensare che tu non ne possa mai combinare una giusta”. Questo tipo di critica provoca in chi la riceve sentimenti di vergogna e di colpa, oltre alla sensazione di non essere amato – tutte percezioni che scateneranno con maggiori probabilità una reazione difensiva, e non un reale tentativo di migliorare le cose. Questo è più che mai vero quando alle critiche va ad aggiungersi il disprezzo, un’emozione particolarmente distruttiva. Il disprezzo compare facilmente associato alla collera; di solito esso viene espresso non solo attraverso le parole usate, ma anche dal tono di voce e da un’espressione di collera. La sua forma più ovvia, naturalmente, è lo scherno o l’insulto – “scemo”, “puttana”, “smidollato”. Ma il linguaggio corporeo che trasmette il disprezzo non ferisce certo di meno: si pensi soprattutto al sogghigno, o al labbro sollevato, che sono i segni facciali universali per esprimere il disgusto, oppure al gesto di alzare gli occhi al cielo, come per dire “Oh, Dio!”.

COMMENTO: Esistono molti modi per affrontare un conflitto interpersonale in maniera tale da riuscire a esprimere il nostro disappunto al nostro interlocutore e al tempo stesso evitare inutili offese e svalutazioni dell’altro che non sono funzionali alla discussione. Così se ha senso criticare qualcosa che ha fatto una persona che a nostro parere si è comportata in un modo che riteniamo inopportuno o sbagliato, è invece del tutto errato e inutile attaccare il nostro interlocutore sul piano personale. Infatti, nel primo caso la conflittualità rimane al livello della discussione in merito all’oggetto della nostra contrarietà, nel secondo caso si passa su di un altro piano in cui l’oggetto del contrasto diventa la soggettività dell’altro. Quando ciò accade la persona che si sente attaccata sul piano personale tenderà a difendersi o ad attaccare a sua volta, o ancora se si trova in una posizione di subalternità, a rispondere con il silenzio e la frustrazione. In ogni caso la discussione non sarà più sui reali motivi che l’hanno determinata ma sarà passata sul piano relazionale tra i due contendenti. In conclusione: criticare è un’azione di per sé importante all’interno di un rapporto, sana e indice che nella relazione è ammessa la divergenza e una certa dose di conflittualità. Ma criticare si può fare in molti modi e bisogna tener ben presente che è profondamente diverso dire ad una persona “hai fatto una cosa sbagliata” o “sei una persona sbagliata”.

Daniel Goleman, Intelligenza emotiva. BUR

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Ascoltare gli altri

La capacità di ascoltare gli altri è di primaria importanza per la creazione di relazioni sane e soddisfacenti. Spesso però anche le persone più capaci di ascoltare se stesse trovano difficoltà nell’ascoltare gli altri perché in genere siamo troppo presi da noi stessi e “comprendiamo” tutto quello che ci arriva sempre in riferimento a noi stessi, trovando grande difficoltà a metterci nei panni dell’altro.

“Quando avviamo un dialogo con qualcuno, non troviamo ascolto e non ne diamo, perché nella comunicazione con gli altri siamo portati a ricercare prevalentemente l’eco delle nostre parole e il riverbero delle nostre percezioni. Ascoltiamo noi stessi e non siamo in grado di recepire veramente i messaggi dei nostri interlocutori. Interpretiamo i loro discorsi e i loro comportamenti secondo le nostre esigenze e i nostri propositi, fuorviati dal pressante bisogno – oltre che magari di ottenere eventuali vantaggi concreti – di trovare conferme, di ricevere attestazioni di affetto e apprezzamento. Anche se la diversità ci attrae e ci incuriosisce, soprattutto nell’ambito delle relazioni stabili e significative, siamo alla ricerca della somiglianza e delle analogie. Il disaccordo delle opinioni e la dissonanza degli intenti ci disturbano e ci predispongono a un atteggiamento di chiusura e di sospetto.”

COMMENTO – È esperienza comune il fatto che le persone veramente capaci di ascoltare gli altri siano veramente rare. Naturalmente parliamo di coloro che non “sentono” solo ciò che gli altri dicono ma che sono in grado di comprendere in maniera corretta gli stati d’animo dell’interlocutore, le sue intenzioni e le sue richieste contenuti nel suo esprimersi. Le persone che sanno fare ciò riescono a cogliere la densità di significato nel discorso degli altri, riescono a vedere realmente il proprio interlocutore. Soprattutto chi sa ascoltare gli altri è sinceramente interessato “a colmare la distanza emotiva che spesso separa gli esseri umani e a cercare uno spazio di condivisione, facendoci sentire non più viaggiatori solitari e dispersi nel vasto mondo, ma depositari di un comune destino che ci affratella.” Per queste persone gli altri sono veramente un valore e non solo “una scocciatura” nel momento in cui l’incontro chiede anche attenzione e compenetrazione.

All’opposto l’incomprensione creata da un ascolto carente tende a generare chiusure e ostilità tra gli interlocutori; e se a tale frattura non si pone subito un rimedio essa può diventare definitiva, portando a situazioni di rottura del rapporto o, forse peggio, a condizioni di alta conflittualità. Ne troviamo traccia specie in quelle due tipologie di rapporti più fondamentali e al tempo stesso più soggette a complesse patologie della relazione. Nelle coppie, dove l’incapacità di ascoltare l’altro non consente di “preservare l’integrità del loro rapporto attraverso la capacità di confronto e rinnovamento continuo”. Nei rapporti genitori e figli in cui i due attori in gioco sembrano talvolta parlare linguaggi  incompatibili, in grado di creare allontanamenti  enormi dove ascoltare l’altro diventa sempre più impossibile fino a rendere la relazione irrecuperabile. Alla domanda sul perché nei rapporti affettivi, soprattutto quando essi sono problematici, è così difficile cambiare, la risposta sta sempre nella scarsa disponibilità che ciascuno di noi ha nell’ascoltare gli altri, di prendere in considerazione le loro richieste e i loro bisogni. La maggior parte di noi è sintonizzata solo sulle proprie esigenze e sui propri punti di vista.  

Siamo così concentrati “sulle nostre convinzioni, sulle nostre pretese e sulle nostre aspettative che le parole dei nostri interlocutori rischiano di diventare solo un fluire ininterrotto di suoni che neppure ci scalfisce. É una sorta di rassicurante rumore di fondo che ci tiene compagnia e ci trasmette la consolante, per quanto illusoria, sensazione di non essere soli, di essere in contatto con altri essere umani, integrati in un sistema sociale che ci rimanda un gratificante, seppur precario, senso di appartenenza. Con tali presupposti, verrebbe da concludere che siamo almeno capaci di comunicare con noi stessi. Eppure questa autoreferenzialità, questa centratura sulla nostra personale visione del mondo e sulla nostra peculiare esperienza affettiva, non ci deve illudere. L’attenzione che rivolgiamo a noi stessi non va confusa con un’effettiva capacità di ascolto, non significa necessariamente essere in contatto con se stessi, con la propria sfera più intima e genuina.”

Ivana Castoldi, Piccolo dizionario delle emozioni. Feltrinelli

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La menzogna, cosa è e come funziona

La menzogna è realmente connaturata al genere umano? E se così fosse perché è così difficile saperla riconoscere. I mentitori sono tutti uguali fra loro? Luigi Anolli, “Fondamenti di psicologia della comunicazione”, Il Mulino

Un aspetto fondamentale della menzogna riguarda le ragioni che ci inducono a dire menzogne. Esse non sono azioni gratuite, né sono l’effetto di un attacco di follia. Sono il risultato di una valutazione della situazione contingente per ottimizzare le possibilità e per ottenere uno stato di cose desiderabile, in termini di rapporto fra costi e benefici. La comunicazione menzognera è realizzata da persone che si ritengono razionali, dotate, tuttavia, non di una «razionalità olimpica» (perfetta), bensì di una razionalità limitata, in grado di raggiungere non lo scopo e la soluzione ideale ma il cosiddetto ottimo locale. Vale a dire la soluzione che massimizza le opportunità e minimizza i rischi. Sotto questo aspetto nella mente dell’ingannatore la menzogna costituisce – in generale – un dispositivo comunicativo per ottenere un vantaggio in più rispetto alla comunicazione veritiera. È lecita questa strategia? Al riguardo, senza entrare in merito alla questione morale della menzogna, esistono diverse posizioni, due delle quali dominanti. La prima di esse sostiene che, a qualche titolo e per qualche ragione, il ricorso alla menzogna sia ammissibile in determinate circostanze. Per primo, Platone ha sostenuto nella Repubblica (III, 389b) che la menzogna è proibita per i cittadini che devono essere sempre sinceri, mentre essa è riservata ai politici. Si tratta di una «nobile menzogna» da essere impiegata come phàrmacon per il bene della città.

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Le relazioni come sono costruite?

Le relazioni umani vengono costruite dagli scambi comunicativi tra gli individui. Mentre le persone comunicano, partecipano alla strutturazione delle proprie relazioni anche se questo avviene inconsapevolmente e al di là della propria volontà. Jay Haley, Le strategie della psicoterapia. Sansoni

Dire che la persona con un sintomo si comporta in modo diverso dalla norma implica che ci sia un modo normale di comportarsi. Analizzare questo problema in modo approfondito richiederebbe l’analisi di una particolare cultura e il grado di variazione individuale prima di considerare un soggetto fuori dalla norma. Piuttosto che affrontare il problema in questo modo, premettiamo che gli individui a cui ci riferiamo fanno parte della cultura occidentale e diamo rilievo teorico ad alcuni pattern formali di comportamento. Il comportamento eccessivo di un soggetto con una sintomo sarà confrontato con quello che in una relazione viene comunemente considerato comportamento normale. Questo tipo di approccio implica una descrizione generale delle modalità secondo cui le persone normalmente strutturano e mantengono le relazioni e di alcuni parametri per differenziare i vari tipi di relazioni. Quando due persone qualsiasi si incontrano per la prima volta e stabiliscono una relazione, hanno di fronte a sé una vasta gamma di possibili comportamenti. Possono farsi dei complimenti o scambiarsi insulti o fare delle avances sessuali o definire che uno è superiore all’altro e così via. Man mano che due soggetti definiscono la loro relazione essi elaborano insieme quale tipo di comportamento comunicativo è opportuno per quella relazione. Da tutti i possibili messaggi ne selezionano alcuni e successivamente raggiungono un accordo su quelli da inserire nel rapporto. Questa linea che essi tracciano, linea che definisce ciò che può e ciò che non può accadere in quella relazione, si può chiamare la definizione reciproca della relazione.

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La psicologia della comunicazione

psicologia della comunicazione interpersonaleNella psicologia della comunicazione vige la regola per cui lo zero non esiste, o meglio anche lo zero ha un valore, un significato. Così una parola non detta, un gesto non fatto rappresentano, comunque, una comunicazione perché veicolano in ogni caso un messaggio. È sufficiente considerare il silenzio dopo una lite per capire che è impossibile non comunicare: l’ostentato comportamento dello stare zitti, del non parlare (comportamento spesso accompagnato da un linguaggio non-verbale evidente) costituisce un messaggio veicolato all’interlocutore. Una lettera non spedita, un appuntamento saltato, un invito a cui non si risponde, la non-partecipazione ad una riunione, sono soltanto alcuni esempi della vita quotidiana in cui il valore comunicativo del comportamento è elevato. Secondo la psicologia della comunicazione, l’uomo, qualunque cosa faccia, non può fare a meno di emettere comportamenti: in qualunque modo decidiamo di comportarci comunichiamo in ogni caso. Il tentativo di utilizzare in una relazione il silenzio presenta, tuttavia, un rischio. Questa forma di comunicazione è di per sé povera, nel senso che al di là del significato che è possibile attribuire al silenzio (rabbia, delusione, prostrazione), l’interlocutore non ha altri elementi a disposizione per “capire” il messaggio che gli giunge. Dovrà fare allora conto sulle proprie risorse interpretative per costruire un significato intorno alla situazione poco chiara. L’interpretazione, comunque, per quanto sia uno strumento utilissimo e a volte indispensabile, presenta a sua volta un rischio: la soggettività e quindi la possibilità di generare distorsioni nella comprensione. L’essere umano, infatti, deve sempre attribuire un significato e un valore alle cose che osserva o agli eventi che accadono; questo per poter comprendere e agire. Per la psicologia della comunicazione, si tratta di meccanismi cognitivi spontanei e a volte inconsapevoli. Una comunicazione povera di significati espliciti, come il silenzio, – povera soprattutto se non accompagnata da altre informazioni sul contesto – si presta, quindi, ad un’ampia gamma di interpretazioni. Esso, infatti, è spesso accompagnato dalla tacita e irrazionale pretesa che l’altro debba conoscerne i motivi e le ragioni. In queste condizioni, a volte la sensibilità dell’osservatore può essere uno strumento adeguato a capire il silenzio dell’altro, altre volte può invece rivelarsi inefficace

Considerazioni pratiche
Anche se la psicologia della comunicazione ci dice che è impossibile non-comunicare non va considerata come una sorta di “maledizione” per l’uomo, che lo condanna ad un’esistenza “di vetro”, trasparente al punto tale che tutto in lui viene conosciuto dagli altri perché comunque comunicato. Non sempre il nostro comportamento costituisce un’informazione per gli altri, ma lo è solo potenzialmente. Del resto, nella giornata non possiamo sempre essere attenti a tutto ciò che gli altri fanno, così come gli individui in genere non hanno la capacità di analizzare il comportamento altrui con tanta finezza. Il timore di un “Grande Fratello” rappresentato dalla paranoica paura di venire studiati dagli altri, costituisce più un mito che una reale possibilità.
Invece, prendere atto dell’impossibilità di non-comunicare significa dare un duro colpo alla pretesa, vagamente infantile, di neutralità espressa nell’atteggiamento “Ma io non ho fatto (detto) niente”. Tale giustificazione viene adottata con un duplice intento: rendere indipendente la risposta del nostro interlocutore da un nostro precedente comportamento e giustificare la propria azione comunicativa rispetto alle conseguenze indesiderate che ha prodotto.
La posta è spesso il luogo ideale dove osservare situazioni in cui le persone che fanno la fila danno dimostrazione di quanto siano poco attente al modo in cui comunicano. Un signore che ha diverse pratiche da sbrigare allo sportello e che richiedono un tempo più lungo del previsto, sente alle sue spalle una signora che per tutta la durata del suo turno sbuffa sonoramente e in continuazione si affaccia per veder a che punto sono le pratiche. Il signore terminato il suo turno se ne va lanciando occhiatacce alla signora e parlando da solo ad alta voce: “C’è gente veramente ignorante in giro.” La signora si rende conto che tutto ciò è rivolto a lei e girandosi verso il successivo cliente commenta: “Ma che cosa aveva quello, che gli ho detto mai”.
Non ci sentiamo di schierarci con nessuno dei due protagonisti dell’esempio, probabilmente avremmo usato nei loro panni comunicazioni diverse. L’esempio voleva solo evidenziare come, quotidianamente, capita di pensare di non aver comunicato e come quella illusione venga ogni volta contraddetta dai fatti che seguono.

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