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Il cambiamento: tra volontà e sforzo

Il cambiamento è un processo conseguente ad una consapevolezza di noi stessi. Esso è al tempo stesso strumento e risultato del lavoro su se stessi. Solo chi è disposto a mettere impegno, volontà e fatica in tale processo potrà accedere a una diversa coscienza del proprio stare al mondo. Il cambiamento è da intendersi come crescita del nostro Essere grazie alla conquista di una maggiore coscienza di sé.

Il lavoro su se stessi, se adeguatamente condotto, porta ad un cambiamento nella qualità del nostro essere che, nei fatti, si rifletterà in un mutamento nel modo in cui affrontiamo le situazioni che viviamo, i rapporti con gli altri e, soprattutto la relazione con noi stessi. Sarà proprio la maggiore consapevolezza acquisita con l’osservazione di sé a condurci ad una nuova sensibilità e ad una visione di noi completamente diversa. Possiamo provare a delineare una sequenza di momenti tra loro concatenati: lavoro su di sé, osservazione di se stessi, consapevolezza, cambiamento.

Nella precedente lezione avevamo proposto un semplice esercizio, senza dare in merito alcuna spiegazione. Esso consisteva nel prendere, per un certo periodo, l’impegno per cui ogni volta che si doveva bere bisognava farlo usando la mano contraria a quella usata abitualmente. Questo esercizio elementare contiene in sé una lezione molto importante circa il cambiamento. Prima di tutto ogni cambiamento richiede di andare “contro natura”, ossia contro gli schemi abituali che fino a quel momento abbiamo utilizzato. Se non andassimo “contro natura” continueremmo a comportarci come sempre, ossia evitando il cambiamento. È per questo che il cambiamento richiede una forzatura, generando un attrito tra ciò che “naturalmente” faremmo e ciò che, invece, desideriamo fare. Senza questo attrito – che deve essere sperimentato e che dobbiamo riuscirne a sentire in noi l’azione – non ci sarebbe cambiamento.

Un altro elemento in gioco in questo esercizio è quello della volontà. Nel momento in cui avete letto le istruzioni e avete deciso di assumerle, voi avete espresso la volontà di fare il compito. Senza la volontà non c’è cambiamento; senza il profondo desiderio di cambiare noi stessi non c’è impegno nel lavorare su di noi. Chiaramente la volontà di cui stiamo parlando dovrà essere sostenuta nel tempo, rinnovata per poter supportare l’impegno preso. Non sempre questo avviene in maniera così assoluta, seppure in un primo momento eravamo stati sinceri nel voler impegnarci nel compito. Ecco allora che è possibile aver fatto l’esperienza che in noi albergano più di un Io – malgrado la nostra illusione di unità e coerenza – che di volta in volta può prendere il comando e determinare il nostro comportamento. Uno dei più grandi errori che possiamo commettere è quello di pensare di essere sempre “uno” e di essere sempre lo stesso individuo. In realtà ogni singola persona non riesce ad essere sempre la stessa persona per molto tempo. Muta continuamente eppure immagina di essere sempre lo stesso “Io”. Così, potrebbe essere capitato che una delle tante volte in cui vi accingevate a fare il compito una “vocina” abbia iniziato a dire: “ma chi te lo fa fare”, oppure “che stupidaggine è questa”. In questi casi per mantenere fede alla volontà precedentemente espressa, avrete dovuto richiamare sulla scena quell’Io che in precedenza aveva intravisto nell’opportunità di questo percorso l’occasione di acquisire consapevolezza, ed allearvi di nuovo con lui.

Un ulteriore aspetto evidenziato dall’esercizio è quello del ricordo: per poter svolgere tale esercizio abbiamo dovuto ricordarci di farlo e soprattutto abbiamo dovuto ricordarci di noi. Cosa significa questo? Il fatto di esserci dovuti ricordare dell’esercizio è abbastanza semplice da comprendere; lo è un poco di meno il concetto di ricordo di se stessi. Proviamo a esemplificarlo ricorrendo all’ordinaria esperienza che ognuno di noi può fare: in genere, siamo talmente presi emotivamente ed intellettualmente dalla vita e dalle questioni che affrontiamo che nella maggior parte del tempo perdiamo consapevolezza di noi come individuo ed Essere, tanto da dimenticarci di noi. Ricordarsi di sé vuol dire allora rientrare in noi stessi, sentirci agire, avere a mente gli scopi che ci muovono senza farci prendere di volta in volta dalle correnti di impegni e interessi che ci attraversano. Si arriva così ad avere la consapevolezza che si può continuare a fare tutto (anche bere ricordandosi di farlo con la mano diversa rispetto all’abitudine) senza scordarci di noi stessi.

Questo esercizio consiste, nella semplicità delle sue istruzioni, nel costringerci a mettere in atto comportamenti che si muovono nella direzione contraria rispetto alla nostra inclinazione naturale. Decidere di imporci, per un certo lasso di tempo, di agire dei comportamenti che violano le nostre abitudini, la “naturalità” o la spontaneità del nostro modo di essere, è funzionale a farci sperimentare la difficoltò del cambiamento volontario. Questo esercizio, allora, non serve a modificare le nostre abitudini ma a farci prendere coscienza che ogni processo di cambiamento comporta fatica (si tratta di un lavoro) e, soprattutto, non si verifica spontaneamente dato che esso va contro le abitudini apprese che “gestiscono” a nostra vita. Tale esercizio, quindi, è sia preparatorio al lavoro su di sé (dal momento che ci fa capire in cosa consista), sia è già parte del cambiamento.

Riprenderemo tutti questi elementi (attrito, volontà, ricordo di sé, molteplicità degli Io) in lezioni successive approfondendone la trattazione e stimolandone l’esperienza con degli esercizi. Intanto alla luce di quanto specificato in questa lezione, provate a ripetere lo stesso esercizio anche per la settimana successiva. Inoltre, iniziate a portare con voi nel corso della vita di tutti i giorni le osservazioni che avete letto provando a farne diretta esperienza.

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Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logicadegli argomenti.

Leggi lezione n. 1

Leggi lezione n. 2

Leggi su come lavorare sulla consapevolezza

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Le abitudini e il cambiamento

Le abitudini guidano il nostro comportamento, tanto che a volte possiamo considerare gli individui come degli automi che agiscono al di là della consapevolezza. Come fare allora a cambiare? La risposta è semplice anche se il processo è un po’ più faticoso: creare delle nuove abitudini attraverso la ripetizione… Shawn Achor, Il vantaggio della felicità. Scuola di Palo Alto

Il più grande contributo di William James al mondo della psicologia fu una conquista avanti rispetto ai suoi tempi di un secolo buono. James sosteneva che gli esseri umani fossero biologicamente inclini all’abitudine ed è proprio perché siamo “semplici fasci di abitudini” che siamo in grado di svolgere automaticamente molte delle nostre attività quotidiane – dal lavarci i denti come prima cosa alla mattina al puntare la sveglia come ultima cosa prima di andare a letto la sera. È esattamente perché le abitudini sono così automatiche che di rado ci fermiamo a pensare all’importante ruolo che giocano nella definizione del nostro carattere e, di fatto, della nostra vita. Dopotutto, se dovessimo compiere una scelta consapevole in merito a ogni piccola cosa che facciamo durante la giornata, è probabile che ci ritroveremmo totalmente sopraffatti ancor prima di colazione. Pensate proprio a stamattina come esempio. Immagino che non vi siate alzati, non siate entrati in bagno, non abbiate fissato lo specchio con sguardo interrogativo e non vi siate chiesti: “Devo vestirmi oggi?”. Non avete dovuto stilare una lista di pro e contro. Non avete avuto bisogno di fare appello a tutte le vostre riserve di forza di volontà. Vi siete vestiti e basta – esattamente come è probabile che vi siate pettinati, abbiate bevuto il vostro caffè, abbiate chiuso a chiave la porta di casa e così via. E, con l’eccezione di chi è un esibizionista nato, non avete dovuto ricordare per tutto il giorno a voi stessi di tenere addosso quei vestiti. Non è stata dura. Non ha esaurito le vostre riserve di energia o le vostre facoltà mentali. È stata una cosa naturale, automatica: un’abitudine. Niente di tutto questo ci sembra oggi un’idea particolarmente rivoluzionaria.

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Cambiamento oppure mettere radici?

Il cambiamento è diventato il mito della moderna società liquida. Chi non si adatta al cambiamento perché lento, perché vorrebbe “radici” più solide, è percepito come sbagliato. Chi non vuole il cambiamento è un individuo che rema contro. Ma tutta questa apologia del cambiamento è veramente funzionale al nostro benessere? Svend Brinkmann, “Contro il self help”, Raffaello Cortina Editore

Molti di noi pensano che al giorno d’oggi tutto si muova sempre più velocemente. Il ritmo della vita sembra accelerare. Siamo costantemente bersagliati da una raffica di innovazioni tecnologiche, tornate di riorganizzazione aziendale, mode passeggere in fatto di cibo, di abbigliamento e di cure miracolose. Non fai in tempo a comprarti uno smartphone e già devi scaricare un aggiornamento per far funzionare le ultime app. Prima ancora che tu abbia avuto il tempo di abituarti al nuovo sistema informatico della tua azienda, te ne installano uno nuovo. Avevi finalmente capito come andare d’accordo con un nuovo collega fastidioso, ma c’è una riorganizzazione del personale e ti trovi a dover fare amicizia con un team interamente nuovo. Nelle learning organizationsin cui lavoriamo, l’unica costante è il cambiamento continuo: l’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è che quanto abbiamo imparato ieri domani sarà già obsoleto. Formazione permanente e potenziamento delle competenze sono diventati concetti chiave nell’intero sistema educativo, nel lavoro e in molti altri settori. I sociologi usano metafore come “modernità liquida” per descrivere la nostra epoca in cui tutto si trova in perenne cambiamento.  In particolare, il tempo è visto come qualcosa di liquido: è come se qualsiasi limite fosse stato cancellato. Perché le cose debbano stare così, nessuno lo sa. E nessuno sa nemmeno dove questo ci stia portando. Secondo alcuni, la globalizzazione – o meglio, “la minaccia della globalizzazione” – significa che il cambiamento costante è inevitabile. Le aziende devono adattarsi a esigenze e richieste mutevoli, quindi anche il personale deve essere flessibile e disposto al cambiamento. Negli ultimi vent’anni almeno, le offerte di lavoro ripetono ossessivamente lo stesso adagio: “Cerchiamo qualcuno che sia flessibile, capace di adattarsi e aperto alla crescita professionale e personale”. Stare fermi è il peggiore dei peccati.

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Cervello : usarlo per cambiare

Il nostro cervello siamo noi a guidare questa potente “macchina” o ci limitiamo a farci guidare da lui. È sufficiente questa semplice domanda che ci pone Richiard Bandler, padre della PNL, per aprire le porte a una serie di stimolanti considerazioni, fino alla domanda finale di questo articolo.
Richard Bandler, Usare il cervello per cambiare. Astrolabio

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La maggior parte degli individui non utilizza attivamente e deliberatamente il proprio cervello. Il cervello è come una macchina alla quale manchi un interruttore con la posizione di ‘spento’. Se non gli si da qualcosa da fare, non fa altro che continuare a girare, e alla fine si annoia. Se mettete una persona in una camera di deprivazione sensoriale, dove non c’è possibilità di avere esperienze esterne, essa inizierà a generare esperienze interne. Se il cervello se ne sta lì senza far niente, comincerà a fare qualcosa, e non pare che gli importi molto che cosa. A voi può importare, ma a lui no.
Per esempio, vi è mai capitato di starvene semplicemente lì seduti a occuparvi dei fatti vostri, o di essere profondamente addormentati, quando all’improvviso il vostro cervello vi fa balenare davanti un’immagine che vi spaventa a morte? Quante volte capita che qualcuno si svegli nel cuore della notte perché ha appena rivissuto un’esperienza di piacere estatico? Se si è trascorsa una brutta giornata, allora più tardi il cervello ce ne offrirà delle vivide repliche, più e più volte. Non basta aver passato una brutta giornata; ci si può rovinare l’intera serata, e magari anche buona parte della settimana seguente. La maggior parte delle persone non si ferma qui. A quanti di voi capita di ripensare a cose sgradevoli accadute molto tempo fa? È come se il vostro cervello stesse dicendo: “Su, rifacciamolo! Abbiamo un’ora prima di pranzo, mettiamoci a pensare a qualcosa di veramente deprimente.

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