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L’ unita del nostro Io: un falso mito

Avere la percezione di una mancanza di unità in quello che definiamo essere il nostro solo ed unico Io, rappresenta il primo passo per desiderare di costituire un centro unificatore per le tante manifestazioni del nostro essere. Si arriverebbe così ad avere una volontà più forte e coerente e a non essere più in balia della frammentazione delle manifestazioni della nostra personalità

Nella precedente lezione abbiamo introdotto il concetto che il nostro Io, contrariamente a quanto siamo portati a ritenere, non si comporta nel tempo come dotato di unità e coerenza. Piuttosto, nel corso di una nostra qualunque giornata, possiamo parlare di un susseguirsi di numerosi Io dotati di propria volontà e spesso frammentati tra loro. Una moltitudine di differenti Io vive in ognuno di noi. Si tratta dei tanti differenti “Io” che appartengono tutti alla nostra personalità, e che è importante osservare per conoscerli. Altrimenti non sarà possibile nessuna conoscenza reale di noi, ma solo una immaginaria in cui ci “ inventiamo” cose su noi stessi. Nello stato ordinario della nostra esistenza, non abbiamo a disposizione un “Io” vero, stabile, immutabile. Non abbiamo una vera unità del nostro essere. Tutti noi non siamo altro che un insieme di Io differenti, alcuni migliori e altri peggiori, e ciascuno di questi Io  in noi, in certi momenti, ci fanno fare, dire e sentire ciò che vogliono. Facciamo ancora mente locale sul fatto che tutte le persone, nello stato ordinario, hanno ben radicata l’idea di essere uno. Tale illusione è presente in ognuno di noi ed è così “normale” che è possibile accorgersene in modo graduale solo attraverso l’osservazione personale. Ogni persona si attribuisce il possesso di una individualità e di una piena coscienza e volontà. Al contrario, il sistema di idee alla base del lavoro su di sé, insegna una verità frutto di esperienza per cui l’uomo non è uno ma molti individui differenti; per questo motivo egli non possiede una volontà ma molte differenti volontà che spesso sono in conflitto una con l’altra e determinano direzioni diverse nel proprio comportamento.

La percezione della nostra frammentazione interiore e mancanza di unità viene , in genere, neutralizzata da specifici meccanismi di difesa che funzionano come degli ammortizzatori in grado di attutire con comode giustificazioni o spiegazioni gli attriti interiori generati da palesi incoerenze nel nostro modo di agire. Il lavoro su noi stessi strutturato primariamente sull’auto osservazione e la costruzione di una vera consapevolezza di noi, ha tra i suoi scopi quello di consentirci di raggiungere una reale unità del nostro essere. Il lavoro per neutralizzare i respingenti è una lotta contro le menzogne che ci raccontiamo, e per essere affrontata è necessario un sostegno perché se eliminassimo i respingenti senza sostituirli con una percezione reale di noi, diventeremmo solo una “macchina fuori controllo”. Per creare qualcosa che prenda il posto dei respingenti c’è la necessità di un lavoro su di noi che sia in grado di sostenerci quando il potere dei respingenti verrà meno.

Nella precedente lezione avevamo suggerito come parte esperienziale quello di provare a osservare e a fare caso come nella nostra giornata tipo si susseguono tra loro questi Io. Questa osservazione non solo serviva per fare esperienza di quanto affermato ma anche per cominciare a prendere dimestichezza con i nostri Io, per vederli all’opera e differenziarli tra loro. Torna qui una idea fondamentale nel lavoro su se stessi, ossia la necessità di portare avanti la conoscenza con l’esperienza. Infatti, un individuo può dire: ” So che non sono uno ma molti perché le indicazioni sul lavoro su se stessi affermano questo”.   Ma tale affermazione ha poco valore se questa conoscenza rimane esterna a noi e non entra dentro di noi con l’esperienza. La conoscenza darà i suoi frutti nell’individuo, e in questo modo non sarà una vana conoscenza ma si tramuterà in comprensione, solo se egli avrà applicato la conoscenza a se stesso e, attraverso di essa, avrà lavorato sul proprio essere. In questo sistema di lavoro su se stessi si sottolinea spesso la profonda differenza tra conoscenza e comprensione; questo perché nella nostra epoca la conoscenza è andata molto più in la della comprensione, dal momento che l’uomo ha sviluppato unicamente il lato della conoscenza a discapito del corrispondente lato del proprio essere.

Quindi è fondamentale imparare a osservare questa moltitudine di Io in noi anche per un’altra ragione: accorgersi della mancanza di unità e del fatto che non possediamo coerenze nelle nostre manifestazioni. Altrimenti perché un individuo dovrebbe lottare per qualcosa che è convinto già di possedere? Questo è una delle conseguenze degli effetti dell’immaginazione, attraverso cui completiamo ciò che ci manca e che ci fa credere di essere cose che non siamo, quando in realtà siamo tutto il contrario. Il primo passo da compiere verso l’unificazione è il raggiungimento della consapevolezza, tramite l’esperienza.  che non siamo “uno”. A questo punto osservati i nostri diversi Io, si dovrà iniziare a confrontarci con i respingenti che non permettono di osservare le contraddizioni tra questi Io. Tramite il lavoro sui respingenti – smantellando tutte le giustificazioni e gli autoinganni – arriveremo a sviluppare la consapevolezza e la coscienza di quello che siamo e a distinguere la personalità (maschere)dall’essenza. Arriveremo così ad una vera coscienza di noi stessi e questo ci permetterà di sviluppare la volontà, ossia la capacità cioè di decidere consapevolmente quale sia l’azione che scegliamo di compiere in un dato momento. Ciò implica la capacità di assumersene la responsabilità; solo allora si potrà dire che possiamo “fare” cioè agire in armonia.

Per molto tempo durante il lavoro su di sé tornerà a galla l’idea di essere sempre un solo e medesimo Io; ne manterremo l’illusione ed essa produrrà attrito rispetto ai nostri tentativi di osservazione imparziale di noi stessi e difficoltà nella comprensione del senso delle osservazioni. Quando ciò accadrà l’istinto sarò quello di trovare scuse e giustificazioni per la mancanza di unità che noteremo in noi e cercheremo di trovare sollievo attaccandoci all’idea che siamo veramente uno e che abbiamo un’individualità permanente in cui sappiamo sempre ciò che facciamo e pensiamo. Saremo portati a trovare rifugio nell’illusione che abbiamo sempre coscienza di noi stessi e controllo. Posti davanti all’evidenza sarà molto difficile per noi ammettere che le cose non stanno così. Ma il percorso del lavoro su noi stessi è fatto di questi momenti a cui sapremo rispondere con fermezza interiore tanto più avremo proceduto in questo cammino. Quando si afferma che il lavoro su di sé ha come finalità quella di farci diventare una unità, questo non significa l’annullamento dei tanti Io o personalità con cui manifestiamo noi stessi. Semplicemente vuol dire trovare un centro unificatore che, attraverso scelte di consapevolezza, ci consenta di agire volontariamente a partire da una nostra profonda conoscenza.

Infatti non c’è nulla di male per il fatto di manifestarci con Io diversi in circostanze differenti: con i nostri figli come genitori, con un cliente o con un collega come lavoratori. Tuttavia, si potrà fare diretta esperienza attraverso l’osservazione di se stessi del fatto che il susseguirsi di questi Io non si verifica in modo volontario e intenzionale, ma è piuttosto il risultato di apprendimenti e risposte automatiche. Non c’è mai alla base di questi mutamenti un ragionamento, una valutazione o una scelta consapevole delle proprie azioni. Il modo in cui svolgiamo i diversi ruoli di genitore, lavoratore, amico, coniuge non avviene in conseguenza di un lavoro consapevole, alla cui base c’è capacità valutativa e di giudizio, oppure piena comprensione del ruolo e delle azioni, ma esso è il frutto di abitudini meccaniche. È importante ripeterlo: tutto ciò lo si può verificare nella nostra quotidianità e in quella delle persone intorno a noi; solo dopo questa verifica e piena comprensione si può iniziare il lavoro. In altri termini, per via di questi Io automatici, tutto quello che facciamo semplicemente accade, e se cerchiamo di cambiare qualcosa è difficile farlo perché la risposta che la nostra “macchina” attuerà e troppo rapida rispetto alla volontà di cambiamento e, in più, i respingenti si opporranno a che accada qualcosa di diverso dall’usuale perché questo ci farebbe sperimentare conflitti interiori.

Questo post è parte di un percorso per stimolare in chi legge un lavoro su di sé ispirato alle idee della Quarta Via riviste nell’ottica della psicologia attuale. Nel corso dei post verranno fornite anche le indicazioni per una serie di esercizi volti a focalizzate l’attenzione sull’osservazione di se stessi al fine di acquisire una consapevolezza maggiore. Ogni post è di per sé esaustivo, ma chi intendesse usare questa risorsa per cominciare a lavorare su di sé, è importante seguire la cronologia dei post come progressione logica degli argomenti.

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Interiorità, una riscoperta difficile

L’ interiorità non è solo una dimensione della nostra vita psichica, ma un valore fondamentale dell’esperienza umana oggi messo a dura prova dalla superficialità imperante. E soprattutto, come ricorda Eugenio Borgna, è un ponte verso gli altri, uno strumento di sensibilità per comprendere gli altri… Eugenio Borgna, “L’attesa e la speranza”, Feltrinelli

Cosa significa riflettere sulla vita interiore, sugli aspetti interiori della conoscenza, in un mondo nel quale dominano schemi mentali e operativi a cui tendono ad essere estranei modelli di vita e di riflessione nutriti di interiorità e di attenzione? (…) Al di là dei modelli concreti, con cui confrontarsi con la tristezza e l’angoscia, con la inquietudine del cuore e la disperazione, con il tædium vitæ e il desiderio di morire, vorrei dire subito come sia necessario fare lievitare in noi, e non solo in psichiatria ovviamente, le istanze della interiorità e ridurre, non è possibile sconfiggerle, quelle della esteriorità: della indifferenza e della noncuranza, della leggerezza e della immediatezza impulsiva delle nostre azioni, della inautenticità e in fondo della insincerità, della dipendenza dai mondi delle immagini e delle chiacchiere (la chiacchiera, e lo diceva addirittura Heidegger, come elemento che corrode ogni dialogo e ogni colloquio). Muoversi lungo i sentieri scoscesi della interiorità significa confrontarsi allora con quello che sentiamo, con quello che proviamo, con le emozioni che nascano in noi quando siamo impegnati in qualcosa e siamo interessati a qualcosa, quando curiamo (cerchiamo di curare) e quando diamo una mano a chi chieda il nostro aiuto. Analizzare il senso dei nostri vissuti è insomma la premessa alla decifrazione dei vissuti degli altri: delle persone malate, o non-malate, con cui ci incontriamo nella vita di ogni giorno e nella vita della clinica in psichiatria, e in psicoterapia.

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Leggi altro articolo di Eugenio Borgna: La fragilità come tessuto dell’essere

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Ascolto di sé : il coraggio di ritrovasi

L’  ascolto degli altri è fondamentale per costruire relazioni sane e soddisfacenti. Eppure questa capacità non può partire che dalla capacità di ascolto di noi stessi. Riflessione, calma e soprattutto sincerità verso di noi sono i prerequisiti per venire in contatto con la nostra interiorità.
Ivana Castoldi, Piccolo dizionario delle emozioni. Feltrinelli

Sappiamo come siano rare le persone che sono veramente in grado non solo di prestare ascolto alla comunicazione verbale degli altri, ma anche di interpretare correttamente intenzioni e richieste sottese ai loro comportamento. Tuttavia, qualche volta capita di incontrarne. Si tratta di interlocutori per i quali le parole che pronunciamo diventano dense di significati, perché ci “vedono” realmente e sono sinceramente interessati a colmare la distanza emotiva che spesso separa gli esseri umani e a cercare uno spazio di condivisione, facendoci sentire non più viaggiatori solitari e dispersi nel vasto mondo, ma depositari di un comune destino che ci affratella.
Questo tipo di ascolto va ben al di là delle parole, perché include un’attenzione più profonda, che viene estesa, oltre il verbale, ai diversi canali analogici da noi tutti utilizzati, perlopiù inconsapevolmente, per esprimere pensieri ed emozioni. Si tratta, dunque, di un genere di ascolto più raffinato e potente, che rivela un’evidente capacità di empatia e un desiderio sincero di ampliamento della conoscenza, rivolti a ogni persona con cui ci troviamo a interagire nell’ambito della nostra esperienza di vita.
Più spesso invece, quando avviamo un dialogo con qualcuno, non troviamo ascolto e non ne diamo, perché nella comunicazione con gli altri siamo portati a ricercare prevalentemente l’eco delle nostre parole e il riverbero delle nostre percezioni. Ascoltiamo noi stessi e non siamo in grado di recepire veramente i messaggi dei nostri interlocutori. Interpretiamo i loro discorsi e i loro comportamenti secondo le nostre esigenze e i nostri propositi, fuorviati dal pressante bisogno – oltre che magari di ottenere eventuali vantaggi concreti – di trovare conferme, di ricevere attestazioni di affetto e apprezzamento.

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