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indipendenza

Indipendenza ovvero la libertà nell’amore

Indipendenza e libertà nell’amore sono tematiche che aprono a paradossi e contraddizioni. La libertà di chi amiamo è così fortemente auspicata quando desideriamo sentirci amati per libera scelta e non per costrizione. Ma al tempo stesso essa è temuta perché potenzialmente rappresenta un fattore di rischio per la stabilità e la continuità del rapporto. È possibile, invece, pensare all’amore in termini di indipendenza? Amore e indipendenza sono due termini in contraddizione tra loro o rappresentano l’uno il presupposto dell’altro?

“L’amante vorrebbe che la fedeltà assoluta dell’amato non fosse l’effetto di una prigionia; vorrebbe che questa fedeltà fosse il risultato di una scelta libera che sapesse rinnovare costantemente la promessa. Il sogno di ogni amante è custodito in questo desiderio paradossale: possedere l’Altro, ma solo in quanto libero. Ma come si può impossessarsi dell’Altro senza porre fine alla sua libertà? Come può esistere qualcosa come una “libertà prigioniera”? Il punto è che proprio perché non può esistere qualcosa come una libertà prigioniera ogni amore è esposto al rischio della fine. (…)L’amante non domanda semplicemente il corpo sessuale dell’amata; l’amore non è infatti riducibile al desiderio feticistico del “pezzo” di corpo dell’Altro. L’erotismo dell’amore attraversa il corpo, ma non si esaurisce mai tutto nel corpo. Piuttosto inonda il mondo. L’amore apre sempre un nuovo mondo e questa apertura, in cui consiste la verità dell’amore, rifonda l’esistenza, la fa nascere, per così dire, un’altra volta. In questo senso la domanda d’amore implica sempre, e insieme trascende sempre, il godimento del corpo. Essa domanda il segno del desiderio dell’Altro-, l’amante non desidera “qualcosa” dell’Altro (…) ma desidera essere desiderato dall’Altro, desidera essere il desiderio desiderato dall’Altro, desidera il segno di essere la causa della mancanza dell’Altro. (…) Vuole che l’amata sia liberamente sua. Non vuole che l’amata sia una sua prigioniera – l’amore non è effetto di una costrizione -, non può sopportare di ridurre il soggetto amato a uno strumento del suo godimento. Il disegno dell’amante è più intricato e, come abbiamo visto, paradossale: vuole raggiungere il cuore dell’Altro, la sua libertà, vuole che questa libertà – la libertà dell’amato – sia totalmente sua. Vuole l’amata, allo stesso tempo, libera e prigioniera.”

COMMENTO – Tema scottante quello della libertà nell’amore perché apparentemente basato su un paradosso: quello tra possesso della persona amata e la libertà della medesima. U tema questo che diventa ancora più difficile alla luce dei numerosi episodi di violenza degli uomini verso le donne, consumati sempre all’interno di presunte relazioni d’amore. Il discorso di Recalcati trascende però tali questioni di attualità per delineare una riflessione più generale sulla struttura dell’amore valida per uomini e donne. L’amore nella sua forma più basilare viene vissuto come possesso della persona amata. Tuttavia, al tempo stesso, si desidera che la persona amata ci ami per sua libera scelta. Che amore sarebbe se questo fosse il frutto di una imposizione. Eppure noi vogliamo che il/la nostra/o partner ci ami. È qui che, come sottolinea Recalcati, si pone il paradosso: vogliamo (almeno negli intenti) che la persona amata sia libera ma desideriamo che questa libertà sia nostra, ossia che la scelta d’amare sia fatta su di noi. Il paradosso di ogni amore, la sua contraddizione intrinseca è in questa “libertà prigioniera” che si concretizza nel pensare ad una libertà di scegliere sempre e comunque noi. Ed è in questo aspetto che si cela il presupposto della violenza che può, in casi particolari, esplodere in azioni violente finanche l’uccisione della “persona amata” come estremo atto di possesso. Sicuramente a questa forma “primitiva” dell’amore se ne contrappone una matura in cui l’amore non è qualcosa che si attende dalla persona che amiamo ma un dono che facciamo all’altro. Un amore, come notava Erich Fromm, che si fonda sul dono verso l’altro con il desiderio non del possesso ma del bene dell’altro. L’amore diventa allora una scelta che richiede sacrificio e che si fonda sull’evoluzione del proprio Io. In particolare lo sviluppo di una sana indipendenza, capace di portarci fuori da meccanismi infantili di dipendenza dall’altro, fa sì che l’amore non si fondi sul bisogno del/della partner. Indipendenza allora come prerequisito, secondo Fromm, per sviluppare una vera arte d’amara in cui l’altro/a non rappresentano la “stampella” per la nostra individualità ma un’occasione di incontro e di crescita.

Massimo Recalcati, Niente è più come prima, Raffaello Cortina Editore

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fine di un amore

La fine di un amore

La fine di un amore è un evento spesso doloroso quando si percepisce come uno strappo imposto dall’altro. Esso mostra tutta la fragilità dell’essere umano che, in questa situazione, non riesce a percepire altro che il proprio smarrimento e la perdita di significato per ogni cosa della vita…

“La morte di un amore può accadere per estinzione o strappo. L’estinzione sarebbe la fine naturale (ma esiste?) dell’amore tra i Due: qualcosa si è esaurito, non funziona più, si è spento. L’amore ha finito di bruciare, non può più durare. Lo strappo implica invece il taglio della separazione che ricade su chi dei Due ama ancora, su chi tra i Due avrebbe voluto continuare nell’amore, su chi ancora brucia per amore. In questo caso la fine di un amore non è solo la morte del proprio Io che perde un suo sostegno fondamentale, che si trova spogliato di senso, del senso che l’amore gli assicurava, ma la morte del mondo intero, di quel mondo dei Due che quell’amore aveva fatto sorgere miracolosamente per una seconda volta. Quando finisce un amore non finisce mai, dunque, solo un amore, ma finisce anche e soprattutto il mondo che i Due hanno generato. Nella morte di un amore muore l’intero mondo dei Due, dei loro oggetti, dei loro rituali, della loro memoria, dei loro viaggi, dei loro ristoranti, dei loro libri, delle loro case, dell’unione dei loro corpi, della loro stessa vita perché l’esistenza dell’amore era ciò che dava senso a quel mondo che ora non c’è più.”

COMMENTO – Il rischio che un amore finisca è sempre presente nella vita degli amanti. La fine di un amore è una presenza che accompagna una relazione fin dal giorno del suo inizio dal momento che anche quando un amore somiglia a un destino, non c’è mai la certezza del “per sempre”. Come ammonisce Massimo Recalcati: “l’imprevisto pieno di gioia e di estasi dell’incontro amoroso può ribaltarsi nell’imprevisto cupo e drammatico del distacco e della fine.” In questa situazione una relazione amorosa da condizione in grado di generare benessere e gioia, rischia di trasformarsi in una tortura. La fine di un amore fa emergere il fatto che ciò che appariva come un rimedio rispetto alle difficoltà dell’esistenza, in realtà finisce per generare dolore; ciò che doveva dare senso alla vita glielo sottrae; ciò che doveva completarci facendoci diventare un tutt’uno con l’altro finisce invece per dividere e spezzare quell’unità, oltre che mandare in frantumi noi stessi. Così l’amore non unisce come vorrebbe il mito platonico ma separa dal momento che esso evidenzia la nostra vulnerabilità, che si costituisce intorno al fatto che l’intera esperienza umana si struttura su una mancanza. Come nota ancora Recalcati: “è la verità che emerge in modi anche traumatici nel tempo della fine di un amore, nel tempo della separazione degli amanti. È questo il tempo in cui quello che prima era in lei o in lui desiderabile e irresistibile diviene insopportabile o indifferente.” La fine di un amore così trasforma anche l’altro che se prima era idealizzato e desiderato, adesso invece ci appare lontano.

Cosa vuol dire separarsi? Per comprendere bene l’aspetto “drammatico” che connota la fine di un amore dobbiamo considerare che essa non contempla solo un distacco o un allontanamento. Questi aspetti della fine di un amore sono solo la parte esteriore del processo: quando un rapporto si rompe non è solo un mettere una distanza tra noi e l’atro, ma come suggerisce Recalcati riprendendo un’espressione lacaniana, abbiamo a che fare con una “separtizione”. Questo concetto “significa che, quando ci separiamo, ci separiamo innanzitutto da una parte di noi stessi; quella parte che colui che abbiamo perduto sosteneva. Se perdo chi amo perdo tutto, mi sento perso io stesso. È come staccare la mano da un metallo ghiacciato; qualcosa di noi, un frammento della nostra pelle, resta sempre attaccato all’oggetto perduto, a chi non c’è più. Separarsi è, dunque, separtirsi, cioè perdere non solo l’Altro che non c’è più, ma anche, insieme all’Altro, un pezzo di noi stessi.” Ecco spiegato il perché la fine di un amore, ossia ogni separazione sia così dolorosa: essa strappa una parte di noi che l’Altro andando via porta con sé. Ci sentiamo allora divisi, spaccati in due, lacerati con il conseguente vissuto depressivo che accompagna ogni separazione. Un lutto che viene sperimentato perché non perdiamo solo l’altro ma anche una parte di noi. La conseguenza di ciò è che il mondo perde la sua ragione d’essere, il suo senso; non solo il mondo ma anche chi vive la fine di un amore si sente deprivato e impoverito di qualcosa. Così allora come nota Recalcati si verifica il fenomeno della regressione: “è la regressione della vita alla condizione del grido che – come quello di Munch – non trova più nessuno ad accoglierne l’invocazione, non trova più nessuno capace di rispondergli. È una sensazione che spesso accompagna chi vive un’esperienza di abbandono: la vita appare in tutta la sua inermità originaria, povera cosa, insignificante, di troppo, persa nel mondo.”

Massimo Recalcati, Mantieni il bacio, Feltrinelli

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appartenenza

Tra appartenenza e alterità

L’ appartenenza è un destino ineludibile per ogni individuo proprio perché non possiamo “non provenire” da qualcuno. Ma non sempre tale appartenenza si rivela come un prezioso lascito ma può rappresentare anche uno scomodo vincolo per le libertà personali. Così accanto all’ appartenenza esiste per il figlio un secondo movimento fondamentale, quello della propria individuazione, capace di portarlo all’affermazione della propria alterità.

“La vita del figlio è, dunque, vita propria, vita separata, distinta, dalla vita dell’Altro, ma è al tempo stesso vita che, non potendo mai scegliere la sua provenienza, porta con sé tutte le impronte dell’Altro che l’hanno prodotta. Per questa ragione, secondo Freud, i bambini si cimentano con particolare predilezione nella costruzione di “romanzi famigliari” attribuendosi, attraverso il gioco della propria fantasia, origini ideali: essere la figlia o il figlio di re, di principi, di presidenti, di famosi scienziati. Per un altro verso, la condizione del figlio è quella di realizzarsi come erede. Essere figli significa, infatti, avere il compito di ereditare, di fare nostro ciò che l’Altro – nel bene e nel male – ci ha dato. Significa riconquistare, fare davvero nostro, quello che abbiamo ricevuto. La traccia non è solo un’impronta, ma un vincolo con l’Altro che deve essere ripreso in modo singolare. Questa ripresa costituisce il compito più proprio dell’ereditare. In questo senso ogni figlio giusto è un erede: perché ha il compito di non ripetere, ma di riprendere singolarmente – di soggettivare – quello che gli è stato trasmesso da chi lo ha preceduto. Se la nostra origine ci precede e ci costituisce e nessuno di noi può mai impadronirsene (…), spetta al figlio il compito etico di soggettivare questa stessa origine, ovvero di differenziarsi, proprio in questa soggettivazione, dall’Altro da cui proviene. (…)”

COMMENTO – La vita di ognuno di noi si muove, all’interno delle dinamiche famigliari, tra due movimenti fondamentali nella costruzione dell’identità: quello dell’ appartenenza e quello dell’individuazione. Come sottolinea  Massimo Recalcati: “la condizione di figlio definisce l’umano come una forma di vita che non può essere concepita senza considerare la sua necessaria provenienza dall’Altro”. Una tale condizione vuol dire che nessun individuo è mai totalmente l’artefice della propria condizione: ne può plasmare le forme ma la materia su cui lavorerà è frutto di un lascito dato dalla sua provenienza. Si nasce all’interno di una appartenenza e nessuno mai può farsi da solo o essere genitore di se stesso. “Tutti veniamo, proveniamo, dall’Altro, siamo immersi in un processo di filiazione, in una catena generazionale” per cui ognuno di noi nasce in primis come figlio ossia non è possibile essere padroni delle proprie origini. Si tratta di una appartenenza che, nel bene o nel male, segna la vita di ogni persona.

Ma dal momento che l’esistenza non è una mera replica di altre vite, al figlio viene chiesto un secondo movimento complementare all’ appartenenza e ugualmente necessario: quello della propria individuazione. In questo senso il compito che impegnerà la vita di ogni persona è quello di costruire la propria diversità rispetto alla propria famiglia, differenziando se stessa da tutti i possibili lasciti psicologici ereditati. Si è, dunque, parte di qualcosa ma bisogna esserlo costruendo un proprio modo di farlo. È qui che nasce la nostra soggettività come esseri umani, per cui l’ appartenenza non è più un vincolo che ci obbliga ad “essere come qualcuno” ma una risorsa, una matrice da cui partire.

Massimo Recalcati, Il segreto del figlio. Feltrinelli

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Massimo Recalcati

Massimo Recalcati: legami d’amore

Massimo Recalcati propone una idea dell’amore che non teme la dimensione del “per sempre” contro l’amore che si consuma veloce nel bisogno di rinnovare il desiderio con un nuovo oggetto. Massimo Recalcati conduce una serrata critica al paradigma del moderno desiderio “mordi e fuggi”, proponendo una visione dell’amore nella stabilità.

“È un dato di fatto: le coppie si separano, i matrimoni falliscono, la durata dei legami si abbrevia. In particolare la nascita di un bambino coincide spesso con una crisi del legame da ambo i lati; l’uomo fatica a ritrovare nella donna, divenuta madre, la donna che lo aveva fatto innamorare; la donna identificando l’uomo come padre della sua famiglia resta sessualmente insoddisfatta e ricerca in un altro l’oggetto capace di rianimare il suo desiderio erotico. La pratica psicoanalitica può offrire infiniti ritratti di questa tendenza. Ma il suo fondamento si trova in quella menzogna che nel nostro tempo sancisce l’equivalenza tra il Nuovo e la felicità. Questa menzogna ci costringe a vivere alla ricerca affannosa del Nuovo con il presupposto (falso) che nel Nuovo si troverebbe la piena realizzazione di se stessi. La ridicolizzazione del pathos amoroso verso l’assoluto, della promessa degli amanti che sia “per sempre”, non scaturisce solo dal disincanto cinico, ma anche e soprattutto dall’imperativo sociale del Nuovo e della sua miscela esplosiva con una versione riduttivamente macchinica dell’uomo (…). Il punto è che nel nostro tempo la difficoltà a unire il godimento sessuale all’amore, che, come abbiamo visto, per Freud definiva la nevrosi più comune della vita amorosa, è diventata l’emblema di una verità che pare inconfutabile: il desiderio è destinato a morire se non rinnova costantemente il suo oggetto, se non cambia partner, se si richiude per troppo tempo nella camera angusta dello stesso legame. (…) L’esigenza che sia “per sempre”, che accompagna ogni vero amore, resiste alla tendenza nichilistica del nostro tempo. Essa afferma in modo inattuale che il legame d’amore non è affatto destinato a dissolversi nel tempo, ma che in esso fa la sua apparizione la sospensione del tempo come figura irruente dell’eterno. L’amore che dura resiste alla spinta corrosiva del godimento fine a se stesso e rifiuta l’illusione che la felicità sia nel Nuovo, in ciò che ancora non si possiede.”

COMMENTO: Massimo Recalcati osserva come la società di oggi tenda a demolire cinicamente l’amore. E davanti a questo attacco le opzioni che restano sembrerebbero essere sole due. Da una parte c’è l’accettazione dell’inevitabile disgregarsi nel tempo del legame amoroso, per cui appare normale il ciclico cambiamento di partner per ridare vigore alle proprie passioni. Dall’altra, per chi non accetta la prima soluzione, – dice Massimo Recalcati – c’è la rassegnazione a trascorrere un’esistenza senza desiderio, all’interno di un quotidiano ménage familiare in cui in cambio della sicurezza affettiva ci si trova a vivere l’essiccamento della passione. Eppure, sostiene Massimo Recalcati le cose non debbono andare necessariamente così, esiste una terza via. Questa alternativa parte dal riconoscere che la nostra società, per ciò che attiene al discorso amoroso e non solo, si nutre di due menzogne fondamentali. La prima riguarda l’idea di un individuo indipendente, libero e autonomo rispetto a tutto; è la menzogna narcisistica che è alla base del culto individualistico di sé, per cui “io prima di tutto”, anche prima dell’oggetto amato.

La seconda menzogna riguarda l’esaltazione di ciò che è Nuovo, per cui solo la continua sua ricerca orienta e nutre desiderio. Ciò che gratifica e soddisfa è solo ciò che non si possiede ancora: nuovi oggetti di consumo, nuovi partner perché solo così si alimentano le nuove sensazione. Come osserva Massimo Recalcati in questa maniera si crea una versione nichilistica del desiderio, condannato per esistere a rincorrere ciò che, di per sé, è destinato a mancare sempre.

Le persone così facendo restano prigioniere di una scriteriata corsa del desiderio da un oggetto all’altro, in quella che sembra essere un’allucinazione collettiva. Una corsa che ci dovrebbe portare incessantemente verso nuovi oggetti, incontri, amori. In questo modo si finisce per non valorizzare mai ciò che si ha perché il “bene” è sempre il nuovo da raggiungere e che non si possiede. La noia, sottile e spesso inavvertito male del nostro tempo, logora i rapporti in essere spingendoci verso quello che non si ha. Quale è allora questa terza via, in grado di smascherare queste menzogne e di portarci fuori da questo desiderio impazzito. Massimo Recalcati riprende una delle tesi più profonde di Sant’Agostino, per cui il vero amore non si fonda sulla cupidigia e sul avido consumo del partner. L’amore mostra la sua vera natura nel suo essere un dono di noi stessi all’altro, attraverso cui non si perde o ci si indebolisce, bensì accresciamo noi stessi. Come diceva la Giulietta di Shakespeare rivolta al suo Romeo: “Più io ti do, più io ho”.

Massimo Recalcati, Non è più come prima. Raffaello Cortina Editore

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Sessualità: tra istinti e fantasmi

La sessualità è, in genere, ritenuta essere sotto il dominio dell’istinto. In realtà, la sessualità umana è governata dal nostro inconscio e dai suoi fantasmi. Per questo la sessualità non si realizza come “bere un bicchiere d’acqua” ma mette in gioco una ben più profonda complessità… Massimo Recalcati, “Esiste il rapporto sessuale?”, Raffaello Cortina Editore

La pulsione sessuale è sempre mediata e orientata da un fantasma singolare. Definiamo “fantasma” il modo inconscio attraverso il quale le esperienze infantili della sessualità si sono organizzate in ciascuno di noi dando luogo a uno scenario indispensabile per inquadrare e rendere possibile l’eccitazione e il soddisfacimento sessuale. Ogni parte del corpo può così assumere, senza rispondere ad alcuna gerarchia o normativa genitale, il potere di mettere in moto il desiderio sessuale. È solo a partire dall’organizzazione fantasmatica del desiderio che diviene possibile spiegare certe predilezioni e comportamenti sessuali o la presenza di determinate pratiche erotiche piuttosto di altre. Mentre l’istinto non è guidato da nessun fantasma inconscio – l’istinto è per definizione privo di fantasma –, ma dalla semplice legge della natura, il desiderio sessuale è invece sempre orientato dal fantasma inconscio. Il primo implica comportamenti e reazioni comuni, ricorrenti, mentre il secondo definisce il modo singolare di ciascuno di entrare in rapporto al proprio corpo sessuale e a quello del suo partner. Il piacere sessuale non sorge spontaneamente dalla natura dei corpi, dalla loro anatomia oggettiva, ma dalla mediazione necessaria del fantasma inconscio che organizza il desiderio di ciascuno. Questo fantasma dà forma al desiderio singolare convertendo i corpi in strumenti di piacere e di godimento.

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la fine 1

La fine di un amore: perché è un trauma?

La fine di una relazione produce nei partner una ferita profondissima che non solo riattiva antiche simili esperienze, ma fa precipitare l’individuo in un mondo privo di senso. La fine di un amore, per abbandono o tradimento, segna la fine di un mondo senza che ci sia dato di intravederne uno nuovo… Massimo Recalcati, “Non è più come prima”, Raffaello Cortina Editore

Anche i grandi amori, dunque, gli amori di una vita, possono finire. Solitamente la crisi di un rapporto inizia con la comunicazione di uno dei Due o dalla constatazione di entrambi che “non è più come prima”, che qualcosa si è corrotto nel tempo, che è avvenuto un deterioramento del desiderio. Il nostro tempo, il tempo del culto libertino del Nuovo, vuole rendere questa situazione una legge ferrea, senza possibilità di eccezione. Si inizia una storia già convinti che si arriverà fatalmente, prima o poi, a constatarne l’agonia. L’amore finisce per esaurimento della sua spinta propulsiva o per l’apparizione di un altro oggetto, o per entrambe le ragioni. Fa una certa impressione notare che sempre più raramente chi vive una esperienza di separazione affettiva importante riesca a intervallare la perdita dell’oggetto con una pausa di solitudine, anziché precipitarsi alla sua sostituzione con un nuovo oggetto. E anche questo un effetto del ritmo maniacale che regola la nostra vita collettiva e quella più intimamente affettiva. Ma cosa succede quando la perdita e la separazione investono gli amori di una vita? Proprio quegli amori che hanno la forza di sospendere il tempo, di ripetere ancora, ancora come oggi, ancora lo Stesso? Cosa accade quando la frase “non è più come prima” viene pronunciata dalla persona che fino a quel momento era la presenza che dava senso alla nostra presenza nel mondo? (…)

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Illusione e idealizzazione in amore

L’ illusione in amore non è data dall’innamoramento che ci porta a idealizzare l’arto. Piuttosto è l’illusione della nostra finta autosufficienza svelata dal rapporto con l’altro… Massimo Recalcati, “Non è più come prima”, Raffaello Cortina Editore

L’incontro d’amore non è dell’ordine dell’ illusione; è piuttosto ciò che fa cadere l’ illusione del bastare a se stessi, del narcisismo dell’Io e del suo sogno di indipendenza. Più che rafforzare l’immagine narcisistica dell’Io, la mette sottosopra, la scompagina, la rinnova, le impone di incontrare il proprio limite. L’incontro d’amore non avalla la nostra identità ma la turba, la obbliga a contaminarsi, a cedere su se stessa. Implica un indebolimento dell’Io, una perdita di controllo, uno smarrimento, il rischio dell’esposizione assoluta all’incognita del desiderio dell’Altro. Mentre nell’ illusione narcisistica l’ombra del mio fantasma mi cattura e io ne sono la preda, nell’incontro d’amore urto contro una specie di solidità spigolosa che eccede il mio fantasma e che chiamiamo eteros. Urto contro l’alterità invisibile ma assolutamente reale dell’Altro. L’incontro è, infatti, solo incontro con Veteros dell’Altro, con il reale più reale dell’Altro, con ciò che dell’Altro sfugge a ogni specularità narcisistica, a ogni simmetria sentimentale. Quando invece l’ illusione agisce rende impossibile l’incontro con l’Altro proiettando su di esso il fantasma della nostra immagine narcisistica. L’incontro non è allora incontro con l’Altro, ma è reso impossibile dalla riproduzione inconscia dell’ombra dello Stesso. Di fronte all’esaltazione narcisistica dell’immagine dell’altro come versione idealizzata di quella dell’Io, il tempo agisce fatalmente come una erosione (lenta o brusca) che provoca delusione. Lo insegna spietatamente l’esperienza dell’analisi: l’amore deluso è spesso l’amore più idealizzato.

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Adolescenza e iperedonismo

L’ adolescenza è un periodo della vita fondamentale per consolidare o meno aspetti personali che hanno a che fare con l’identità, l’autostima e la stabilità emotiva. L’apparente libertà individuale di cui godono oggi i giovani nell’ adolescenza non sempre, purtroppo, gioca un ruolo favorevole a questo proposito… Massimo Recalcati, “Il complesso di Telemaco”, Feltrinelli

Una volta gli psicoanalisti consideravano la crisi dell’adolescenza come una manifestazione psichica della tempesta puberale che trasformava il corpo infantile in quello di un giovane uomo o di una giovane donna. Era il risveglio di primavera: come abitare un nuovo corpo che non è più il corpo di un bambino, ma che manifesta con forza nuove esigenze e nuovi desideri? Oggi la forbice evolutiva distanzia sempre più pubertà e adolescenza: l’età puberale sembra imporre una nuova precocità – bambine e bambini di dieci, undici anni si comportano come veri e propri adolescenti – mentre, al contrario, l’adolescenza si è prolungata ben al di là della pubertà e sembra non finire mai. Questa sfasatura evolutiva è a sua volta l’indice di un’altra e più profonda contraddizione che rende per certi versi insostenibile la condizione dei nostri giovani. Da una parte essi si trovano gettati, con grande anticipo sulla loro età mentale, in un mondo ricchissimo di informazioni, saperi, sensazioni, opportunità di incontro, ma, dall’altra, sono lasciati soli dagli adulti nel loro percorso di formazione.

Continua a leggere su: Massimo Recalcati, “Il complesso di Telemaco”, Feltrinelli

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La nuova melanconia

La nuova melanconia si struttura intorno all’impossibilità da parte dell’individuo di separarsi dagli oggetti. La nuova melanconia nasce dall’impossibilità di elaborare il lutto con la conseguente perdita di desiderio per un oggetto che è sempre presente. Massimo Recalcati ci descrive brevemente la forma clinica de la nuova melanconia ponendo le differenze rispetto al quadro clinico individuato da Freud. Massimo Recalcati, “Le nuove melanconie”, Raffaello Cortina Editore

La clinica della melanconia è una clinica della pulsione di morte: il soggetto è preso in una spirale di odio per se stesso – di rifiuto della propria vita – che sembra non avere argini e che tende a trascinarlo fuori dalla scena del mondo. Nella sua versione freudiana più classica la melanconia è caratterizzata da una incessante ruminazione morale sul senso di colpa: il soggetto melanconico è sovrastato dal peso di una Legge sadica e inflessibile e da un profondo sentimento di indegnità. La tesi che intendo sviluppare in queste pagine è che nel nostro tempo siamo di fronte a nuove forme di melanconia sempre più diffuse. In esse non riscontriamo più il corredo sintomatico classico della melanconia codificata da Freud: ritiro libidico, auto-denigrazione, auto-accusa, senso di colpa inscalfibile, spinta suicidaria, delirio di rovina. Di questo corredo sopravvive ancora il ritiro libidico come tendenza del soggetto alla chiusura, al rifiuto dei legami sociali, unito a una restrizione drastica della sua spinta vitale. L’elucubrazione delirante sulla perdita dell’oggetto e sul senso di colpa sembra però essere sostituita da un altro fenomeno: una sorta di pulsione a chiudere il legame con la vita, una inclinazione paradossalmente securitaria che conduce il soggetto a disertare il proprio desiderio. Nelle nuove forme di melanconia – presenti in modo preoccupante soprattutto tra le giovani generazioni – in primo piano non c’è più l’auto-flagellazione morale e la dimensione irrimediabile della perdita dell’oggetto, quanto invece una inclinazione a ritirarsi dalla precarietà e dall’ingovernabilità della vita, a ridurre al minimo le tensioni interne all’apparato psichico, alla chiusura securitaria.

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Perdono e tradimento

Il perdono, dopo un tradimento, è una difficile via ma al tempo stesso è, forse, il gesto più alto di un amore. Ma anche il non perdonare è una decisione di uguale valore che evita di rifugiarsi nel perdono per paura della solitudine. Massimo Recalcati, “Non è più come prima”, Raffaello Cortina Editore

Il tradimento della promessa da parte dell’Altro distrugge il rapporto di fiducia che sostiene l’amore. A chi è stato tradito e non vuole venire meno alla promessa non restano che due opzioni egualmente degne: perdonare l’impossibile da perdonare o sperimentare l’impossibilità di perdonare. Restare nel legame grazie al perdono dell’imperdonabile, oppure constatare l’impossibilità di perdonare e vivere la fine del legame? Né il perdonare, né l’impossibilità del perdon0 possono però essere il frutto di un calcolo della coscienza. Questo vuol dire che nel suo significato più radicale sia il gesto del perdono sia quello dell’impossibilità di perdonare non dipendono mai dai comportamenti dell’altro, ma da un raccoglimento e da una decisione del soggetto. Il gesto del perdono esorbita da ogni calcolo sull’oggetto. Non può dipendere dalla preoccupazione di non disperdere al vento una storia fatta di memoria e di desideri, né può dipendere dall’atto del pentimento di chi ha tradito. Diciamolo chiaramente: non sarà mai quello che farà l’Altro a rendere possibile il nostro perdono. Allo stesso modo si potrà dire che l’impossibilità del perdono non dipende tanto da un giudizio negativo su colui che ha tradito, ma dal rapporto di chi è stato tradito con la sua possibilità (impossibile) di tornare ad amare. Quando il gesto del perdono diventa davvero possibile è perché vi è stato un passaggio interno alla vita più intima del soggetto che perdona. Allora ogni simmetria immaginaria con l’offesa subita si rompe.

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