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vivere secondo i propri valori

Vivere secondo i propri valori

Il successo non è dato solo dal raggiungimento di grandi obiettivi, ma sta nel fatto di riuscire a vivere secondo i propri valori. Questo proponimento più personale, quotidiano e legato alle nostre vite “normali”, si basa sulla capacità di restare collegati con ciò che riteniamo importante nella nostra vita. Vivere secondo i propri valori è, inoltre, il punto di ripartenza nei momenti di crisi quando tutto sembra perduto e le uniche certezze a cui possiamo fare appello sono, appunto, le cose in cui crediamo.

“Il primo passo, quando hai perso la rotta, è riconoscerlo coscientemente, essere pienamente presenti a ciò che sta succedendo. Allo stesso tempo, è necessario che accetti il fatto che, una volta che ciò è accaduto, non puoi fare niente per cambiarlo; non hai alcun modo di modificare il passato. E anche se può essere utile riflettere sul passato e pensare a cosa potresti fare diversamente la prossima volta, non ha senso che ci rimugini sopra e ti crocifiggi perché non sei perfetto. Quindi accetta di avere deviato dalla rotta, accetta che è una cosa passata e non puoi cambiarla, e accetta di essere umano e, in quanto tale, imperfetto. Il secondo passo è chiederti «Che cosa voglio fare adesso? Invece di indugiare sul passato, cosa posso fare di importante o significativo nel presente?». Poi il terzo passo è, naturalmente, agire con impegno coerentemente con quel valore. Il motto di Robert Bruce, «Se all’inizio non riesci, prova, prova ancora», è senz’altro straordinario ma è solo metà della questione. L’altra metà è che dobbiamo valutare se ciò che stiamo facendo funziona. Un motto migliore potrebbe essere: «Se all’inizio non riesci, prova, prova ancora; e se ancora non funziona, prova qualcos’altro». Ma anche qui occorre fare una sottile distinzione. Ogni volta che ti trovi di fronte a una sfida significativa, avrai alle spalle i demoni del «È troppo difficile». «Non ce la puoi fare! Lascia perdere!» ti dirà la tua mente. E allora la tentazione è quella di rinunciare e provare qualche altra cosa. Spesso però ciò che serve è proprio la perseveranza. Per dirla con il grande inventore Thomas Edison, «Molti fallimenti nella vita sono di persone che non si sono rese conto di quanto erano vicine al successo quando hanno rinunciato».”

Commento – Un diverso modo di intendere il successo è certamente quello di non legarlo al raggiungimento di mete grandiose, ma di considerarlo rispetto alla possibilità data ad ognuno di noi di vivere secondo i propri valori. Tale diversa modalità di intendere il successo e, quindi, di avere soddisfazione fa sì che sia possibile avere una personale piena realizzazione in ogni momento della nostra esistenza. Infatti, vivere secondo i propri valori è un principio attuabile e applicabile in ogni momento della propria vita. Basare il nostro stare al mondo su questa linea di principio ci rende immuni dalla necessità di avere l’approvazione altrui: non si avrà la necessità che qualcuno confermi le nostre scelte o i nostri comportamenti, o quello che pensiamo e sentiamo, dal momento che stiamo agendo secondo i nostri valori. Non è una questione di “giusto” o “sbagliato” ma di ciò in cui noi crediamo e ha significato nella nostra esistenza. Inoltre, il fatto di vivere secondo i propri valori è una utile strategia nei momenti di difficoltà, piccoli ma soprattutto in quelli più grandi, quando la vita ci chiede di ripartire dopo una crisi. In questo caso, dovendo costruire una strategia o dovendo fissare degli obiettivi, le indicazioni più sicure per noi saranno proprio i nostri valori: il fatto di identificarli come dei punti ben fermi dentro di noi ci darà la forza di agire quei comportamenti e quelle scelte che li rispettano. È in queste situazioni che ci rendiamo conto come il vivere secondo i propri valori voglia dire rispettare noi stessi e soprattutto non dipendere troppo dalle circostanze e dagli altri. Come dice Russ Harris: “nel corso della vita incontriamo ogni sorta di ostacoli, difficoltà e sfide, e ogni volta che questo succede ci troviamo di fronte a un’alternativa: possiamo accogliere la situazione come un’opportunità per crescere, imparare ed evolverci oppure possiamo combattere, lottare e fare di tutto per evitarla. Un lavoro stressante, una malattia, una relazione finita sono tutte opportunità per crescere come persone e sviluppare nuove e migliori abilità per affrontare i problemi della vita.”. Ma tutto questo a patto di ripartire sempre da noi stessi.

Russ Harris, “La trappola della felicità”, Erickson

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Leggi: Come definire i propri valori

il desiderio

Il desiderio e l’autocontrollo

Il desiderio è una parte importante nella vita di ogni individuo, ma la sua gratificazione deve trovare un giusto equilibrio con l’altra fondamentale tendenza essenziale all’esistenza, l’autocontrollo. L’incapacità di resistere ad ogni desiderio o quanto meno di differirlo, crea nell’individuo una inclinazione all’impulsività che alla lunga si rivela dannosa. L’esercizio dell’autocontrollo è invece un’arte capace di fortificarci e che, alla lunga, paga sempre.

“Cedere agli impulsi, se può dare un piacere immediato, è un residuo infantile, un volere tutto subito. A volte questo desiderio irresistibile è accompagnato dalla convinzione più o meno esplicita di essere in credito: la gratificazione mi spetta. Il desiderio è trasformato in diritto. Nessun ritardo è tollerato; nessuna frustrazione è sopportata. La mancata gratificazione è accolta con irritazione, sdegno, a volte furore. Certe volte sul volto di chi vede frustrate le sue aspettative compare un’espressione sdegnata di stupore, come se fosse assurdo o inaccettabile che il mondo non funzioni secondo le sue aspettative. Affrontare la vita in questo modo è pericoloso, perché espone a gravi delusioni, e anche alla manipolazione altrui. Ci mette alla mercé del bambino capriccioso dentro di noi, che urla, strilla e pesta i piedi, e dipende in maniera totale dall’espressione dei suoi impulsi e dalla soddisfazione dei suoi desideri. È un handicap che ci fa perdere molte occasioni d’oro e ci fa correre parecchi rischi inutili. (…) Quante volte ci siamo pentiti di aver seguito un impulso senza pensare? Gli impulsi sono centrifughi: ci portano lontano dal nostro centro, verso qualcosa che è altro da noi. Non c’è nulla di male in questo, e la nostra stessa sopravvivenza è basata sulla capacità di lasciarci tirare fuori da noi stessi. Se però questa tendenza non è bilanciata da una capacità simmetrica di ritornare a noi stessi – una tendenza centripeta – il risultato sarà una mancanza cronica di equilibrio: una dispersione perenne che ci fa vagare fra mille tentazioni, come un viaggiatore che erra in molti paesi e si dimentica la strada per tornare a casa.”

COMMENTO – La possibilità di autoregolare il desiderio  è alla base stessa del vivere sociale: proviamo a immaginare cosa succederebbe se tutte le persone seguissero solo i propri impulsi e non facessero altro che perseguire i propri desideri. Regolare il desiderio vuol dire, infatti, controllare la propria aggressività, l’impazienza; significa essere capaci di ponderare le conseguenze delle azioni che potremmo compiere. Il desiderio ci rende inconsapevoli schiavi di meccanismi manipolatori sia all’interno di relazioni malate sia rispetto all’inganno dei meccanismi consumistici.  Infine, la capacità di regolare il desiderio ci permette di coordinare il nostro agire con quello degli altri, attraverso la cooperazione e l’assunzione di responsabilità. Come nota lo psicoterapeuta Pietro Ferrucci, tanto più siamo in grado di dominare il desiderio, tanto più saremo in grado di acquisire una forza interiore che si renderà disponibile per molte altre prove nella nostra esistenza: affrontare le avversità, raggiungere degli obiettivi, mantenere dritto il timone della nostra barca senza essere troppo influenzati dal canto delle tante sirene pronte a distrarci. Ma quale è la strategia migliore per compiere questo lavoro sul nostro desiderio e renderlo meno padrone della nostra vita. Al di là del fatto di acquisire consapevolezza di noi stessi, la strada maestra è quella di “riuscire a distanziarsi dall’impulso per renderlo meno potente.” Quando il desiderio appare nella nostra mente con tutta la sua forza, spesso pensiamo di essere un tutt’uno con esso, permettendogli di invadere completamente il nostro Io: in questi momenti noi finiamo per essere il nostro desiderio. Ecco, allora, che prendere le distanze da esso significa disidentificarci  ossia apprendere che noi siamo al di là del nostro desiderio che, quindi, è solo qualcosa di temporaneo e passeggero. Prendendo le distanze dal desiderio possiamo considerarlo come un vero e proprio oggetto da analizzare e comprendere meglio: così facendo esso non è più solo un’impellente bisogno da soddisfare ma una parte di noi con cui dialogare e comprendere. Come sottolinea Pietro Fanucci: “la scoperta che ci possiamo distanziare dai contenuti della nostra psiche è fondamentale. Di solito noi siamo vissuti da impulsi e desideri. Ci colgono di sorpresa, ci assalgono con veemenza, ci fanno credere di essere irresistibili. Ci convincono di essere quanto di meglio esista per noi in quel momento. Noi però possiamo imparare a distanziarcene.”

Compiere consapevolmente questa azione di distacco e disidentificazione vuol dire molto semplicemente imparare a saper aspettare, coltivare la pazienza. Se ci pensiamo bene questa semplice conquista è alla base del divenire adulti, abbandonando la pretesa infantile del “tutto e subito”. Saper aspettare vuol dire essere in grado di distogliere la nostra attenzione dalla gratificazione immediata e questo può consentirci una visione più a lungo raggio utile a costruire progetti e a renderci immuni dalle ricompense immediate. Sebbene il termine “disciplina” sia oggi poco di moda, esso indica sempre una capacità fondamentale per gestire la propria vita e raggiungere dei traguardi. La disciplina ci libera dal bisogno di ricompense e rinforzi nell’immediato, dal costante incoraggiamento di qualcuno perché il nostro miglior alleato siamo noi stessi. Come nota Pietro Fanucci la disciplina è importante perché ci rafforza rispetto all’arrenderci al primo impulso che compare, abituandoci a “saper vedere lontano, riflettere su scopi e metodi, non lasciarsi controllare dall’emotività, ridimensionare le frustrazioni, destreggiarsi fra mille ostacoli. È la capacità di valorizzare un domani invisibile anziché un oggi che ci strattona con prepotenza. Il tempo, per chi non riesce a ritardare la gratificazione, è nemico. È sentito come un ostacolo che lo fa penare e si frappone fra lui e la felicità.”

Piero Ferrucci, “La nuova volontà”, Astrolabio

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nostro vero Io

Il nostro vero Io

Cosa intendiamo quando parliamo del nostro vero Io? È infatti esperienza comune l’alternarsi nella nostra coscienza di stati del nostro Io molto diversi tra loro, il cui apparire è sollecitato da circostanze differenti. Eppure questa moltitudine di stati dell’Io non allontana da noi – come nota Assagioli – il convincimento che esiste in ognuno di noi un nucleo forte di identità a rappresentare il nostro vero Io…

“La persona che è in preda ad una tristezza profonda, non solo dice “Io sono triste”, ma dimentica per il momento di essere stata tante volte serena e allegra; non sa quasi concepire come si possa essere lieti, e se vede altri ridere e scherzare prova un senso di sorpresa, e quel contegno le sembra strano, come irreale. Essa tende a generalizzare, ad obbiettivare, per così dire, lo stato d’animo soggettivo e transitorio col quale si identifica; dice ad esempio: “La vita è triste, solo il dolore è vero, tutto il resto è illusione”. Supponiamo ora che questa stessa persona riceva una buona notizia: la perdita non era vera; la persona cara ritenuta morta è invece salva. Vediamo subito cambiare lo stato di coscienza: la tristezza cede il posto alla gioia e la persona, identificandosi col nuovo stato d’animo, esclama: “Come sono contenta” La vita le appare buona, sente che merita di essere vissuta e non di rado nell’esuberanza della gioia dimentica quasi l’esistenza del dolore. Se qualcuno o qualche cosa le rammenta la sua recente tristezza, questa le sembra lontana ed irreale e le vien fatto di dire: “Ora mi sembra di essere un’altra persona!” Questa esclamazione, del tutto spontanea e naturale, che ognuno di noi ha udito più volte, è molto significativa. Infatti da un lato essa mostra come l’identificazione dell’Io col contenuto della coscienza fosse apparentemente completa. Ma la persona, nell’istante stesso in cui pronuncia quella frase, sa di non essere realmente un’altra persona! In altre parole non ha perso il senso della propria identità personale. Ciò significa che mentre l’Io fenomenico cosciente si identifica via via con i vari contenuti della coscienza, vi è qualcosa in noi che non si identifica, che non cambia col cambiare degli stati d’animo, che resta sempre eguale, fisso, inattaccabile. Questo è il nostro vero Io, il Centro della nostra individualità, la sostanza stessa del nostro essere.”

COMMENTO – Cosa significa tutto ciò? Prima di tutto una riflessione consapevole su questo stato di cose per la natura umana dovrebbe aiutarci a vivere con più distacco tutte quelle situazioni che innescano in noi stati del nostro Io con cui tendiamo a identificarci: noi non siamo né la tristezza o la rabbia che proviamo in certi momenti e che ci imprigionano in una condizione percepita in apparenza senza vie di uscita; così come non siamo solo la gioia o la felicità provate in altri frangenti. Si tratta solo di condizioni emotive e non della vera natura del nostro Io. In secondo luogo queste osservazioni di Assagioli dovrebbero essere di stimolo per la ricerca del nostro vero Io. Pensiamolo come un Centro equilibratore di tutte le nostre istanze; una capacità superiore rispetto a quanto ordinariamente facciamo, di vedere le cose e la nostra stessa esistenza in modo oggettivo e non sulla scorta dei continui mutamenti generati dalle condizioni in cui di volta in volta si trova il nostro Io.

Normalmente è difficile percepire il nostro vero Io perché come ricorda Assagioli: “la nostra coscienza è occupata dal continuo fluire dei vari stati d’animo; il nostro Io empirico si identifica via via con essi. Come sarebbe possibile avere allo stesso tempo coscienza dell’Io superiore?” Proviamo allora a raccoglierci in noi stessi a sospendendo per un certo tempo la consueta attività mentale; fermiamo il fluire concitato delle emozioni e a distanziarci un poco dai fatti della vita. Lentamente emergerà uno stato di coscienza diverso, una consapevolezza delle cose e di noi stessi più stabile e oggettiva, e in questa nuova luce emergerà lentamente il nostro vero Io.

Roberto Assagioli, “Cambiare se stessi. Psicosintesi per l’armonia della vita”, Astrolabio

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migliorare se stessi

Migliorare se stessi

Cosa significa migliorare se stessi? Un atleta che si allena per correre i cento metri in un tempo più breve sta cercando di migliorare se stesso. Un individuo che si sforza di seguire un’alimentazione più sana e corretta sta cercando di migliorare se stesso. E allora cosa vuol dire migliorarsi psicologicamente? La risposta è semplice e complessa al contempo: apprendere ad essere più consapevoli, ossia ad essere più padroni di noi stessi. Ciò significa non solo essere meno in balìa dei fattori esterni a noi e dei nostri stati interiori, più capaci di gestire le nostre reazioni, ma anche imparare ad essere maggiormente noi stessi proprio perché in grado di gestire coscientemente i nostri pensieri, emozioni e comportamenti.

La consapevolezza di se stessi, volontaria e non occasionale, è qualcosa che si apprende lavorando su di sé, con fatica e con impegno, e non rappresenta, quindi, uno stato naturale per l’essere umano. La vita ordinaria non richiede necessariamente di essere consapevoli, tant’è che la maggior parte delle nostre azioni e pensieri sono automatici e frutto di meccanismi associativi. Le abitudini che acquisiamo con l’esperienza non richiedono consapevolezza, ma sono come il software di un computer: basta un comando/stimolo esterno per innescare il “programma” che guiderà il nostro comportamento. Per certi versi è vantaggioso che la nostra mente funzioni in questo modo, ma al tempo stesso questa modalità ci rende prigionieri di noi stessi. Quante volte abbiamo desiderato di comportarci in un modo diverso dal solito senza riuscirci: questo significa essere prigionieri di noi stessi.

Migliorare se stessi psicologicamente non è, quindi, strettamente necessario a vivere e si può tranquillamente continuare a farlo senza mai diventare consapevoli di sé. Il desiderio di migliorare se stessi può nascere, dunque, solo da situazioni critiche nella vita che rendono le nostre abitudini non più utili, oppure può sorgere dall’incontro con persone che già sono consapevoli e che ci fanno intravedere altre modalità di vivere la nostra esistenza. In queste circostanze può farsi strada in noi l’esigenza di ricercare un diverso modo di affrontare la vita, fondato su una maggiore conoscenza di noi stessi e su un più consapevole controllo di sé. Si affaccia così l’idea che possiamo far evolvere il nostro essere, rendendolo capace di accorgersi di cosa che fino ad allora non si vedevano affatto.

Migliorarsi vuol dire allora acquisire una nuova visione della propria esistenza e della vita in grado di farci sperimentare un diverso rapporto con noi stessi,  attraverso una maggiore coerenza personale, una più stabile volontà, un più attento controllo dei nostri stati interni. Il percorso per raggiungere tali obiettivi è complesso, difficile e impegnativo perché migliorarsi richiede, in primo luogo, di cambiare se stessi. Questo sforzo, allora, non è per tutti proprio perché deve essere supportato da una motivazione che costantemente deve essere alimentata dal momento che i momenti difficile e i fallimenti sono molti lungo il percorso. Tuttavia, il modo in cui impariamo a sentirci ad ogni passo del percorso può fare la differenza rispetto alla tentazione di ritornare a come si stava prima di iniziare a lavorare su di sé.

Provate allora a chiedervi, con sincerità, se volete migliorarvi, sapendo che questo vuol dire in primis uscire dalla propria zona di confort in cui non si fanno reali sforzi per cambiare se stessi e in cui ci si limita a “parare i colpi” dei momenti difficili e a dare agli altri la responsabilità dei propri malesseri. Per provare, inoltre, a capire il vostro reale desiderio di cambiare fate un piccolo esperimento: per una intera settimana: ogni volta che dovete bere fatelo usando la mano opposta a quella con cui abitualmente prendete il bicchiere. Così se in genere usate la mano destra, in questa settimana servitevi della mano sinistra per afferrare e portare alle labbra il bicchiere da cui bere. Se vi accorgete di averlo fatto con la mano abituale, poggiate il bicchiere sul tavolo e prendetelo con quella sinistra. Un piccolo cambiamento ma che richiede volontà e sforzo. Tutto questo potrà sembrarvi inutile e forse troppo superficiale di fronte a dei cambiamenti ben più importanti che vorreste fare, ma questo esercizio serve solo a testare la vostra disponibilità a cambiare. Alla prossima puntata la spiegazione di questo piccolo esercizio…

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il talento

Il talento e la crescita personale

Il talento è un concetto che indica la presenza di certe qualità in una persona. Tuttavia l’abuso di questa etichetta ha fatto sì che il talento diventasse un comodo alibi sminuendo il valore dell’impegno nel raggiungimento dei propri obiettivi.

“(…) Credere che le cose dipendano da noi anziché dal destino, non è una semplice scelta intellettuale: le credenze, infatti, modellano i comportamenti. Chi è convinto che tutto sia già scritto nelle stelle sarà passivo e immobile: non potrà fare nulla di meglio che vivere aspettando che il destino si compia. A che pro darsi da fare, faticare, scaldarsi? La prospettiva dell’impegno non fa parte dell’orizzonte esistenziale di queste persone. Al contrario, vedere la raggiungibilità di un obiettivo come qualcosa che è in stretta relazione con fattori e stimoli che dipendono soltanto da noi, spinge a impegnarsi. (…)Io ho la netta impressione che esista una pressione culturale fortissima a far credere che a determinarci siano per lo più i fattori esterni. Uno dei sintomi di questa tendenza può essere riscontrato nell’aria di venerazione che circonda da parecchi anni il concetto di «talento», inteso come abilità innata, o come «dono». Si noti che il termine «talento» può assumere parecchie sfumature: può indicare propensione o attitudine verso qualcosa, potenzialità da realizzare. Questo è anche il significato evangelico del termine, nel senso di capitale da mettere a frutto. E in questo senso l’esistenza del talento nella vita degli esseri umani è indubitabile. Tuttavia, nelle pratiche attuali, il termine assume troppo spesso un altro significato, molto più riduttivo: quello di «dono gratuito», di abilità che si possiede compiutamente in modo innato. (…)Oggi, in tutti i campi, le prestazioni di eccellenza – siano esse sportive, aziendali, artistiche o scolastiche – vengono immediatamente collegate al possesso di abilità innate. Cioè, all’avere «talento». L’effetto di questa convinzione sui comportamenti reali è devastante. Tutto pare deciso in anticipo alla lotteria del destino: se uno nasce «poco portato per la musica» oppure per la vendita, per la corsa o le relazioni interpersonali, c’è poco da fare. Ci si rassegna. Con un inconfessabile moto di sollievo. Perché così scansiamo le fatiche che l’impegno comporta. E ci togliamo ogni responsabilità dai piedi. Se c’è una responsabile, questa è Madre Natura che, quanto a «doni», è stata un po’ spilorcia con noi. Et voilà, l’alibi è servito. Pancia all’aria, ci si adagia tranquilli e si può perfino indulgere in un legittimo vittimismo. Capito? Il pensare in termini di avere o non avere il talento determina già di per sé un certo tipo di destino.”

COMMENTO – Quando parliamo di raggiungere i propri obiettivi, in qualunque campo essi siano, è sempre facile cadere nell’errore di pensare che “se per quella cosa si è portati” allora si potrà avere successo. Questo vale nella vita quotidiana di ognuno di noi così come nel caso delle eccellenze, ossia il raggiungimento di mete straordinarie. Se sapessimo che “bisogna essere tagliati” per il successo, ossia avere talento altrimenti tutto è inutile, la nostra passività e tendenza a non impegnarci sarebbero giustificate e noi saremmo liberati da tutti i sensi di colpa per assumere un atteggiamento rinunciatario. Tuttavia, molte ricerche mostrano esattamente il contrario: il talento c’è ed è sicuramente un fattore favorevole al successo, ma il peso dell’impegno è di gran lunga superiore sia per non dissipare il talento sia nel sopperire ad una sua mancanza. Come ricorda Trabucchi: “i vertici dell’eccellenza non si raggiungono grazie al determinismo genetico, ma attraverso un processo volontario: le prestazioni assolute, in qualsiasi campo, da quello artistico agli scacchi, dallo sport alla ricerca scientifica, sono frutto in maniera preponderante dell’esercizio piuttosto che delle capacità innate.” Mettiamo da parte il raggiungimento di livelli eccezionali e straordinari e consideriamo la vita quotidiana di un individuo comune e al posto di ambiziose mete “da campione” mettiamo gli obiettivi che lo possono riguardare ordinariamente. Per esempio, prendiamo un obiettivo che potrebbe riguardare tutte le persone, quello di crescere e migliorarsi. La maggior parte delle persone credono che questo percorso di crescita personale sia ad appannaggio solo per chi “ci è portato”, altri ritengono che tale processo possa avvenire “naturalmente” perché è la vita che ti fa crescere. In realtà, senza uno sforzo e un impegno questa crescita personale non può avvenire ed è assolutamente falso ritenere che questa possibilità non sia per tutti. Se è vero, come ricorda Trabucchi che “senza impegno e dedizione, senza fatica e allenamento, si può essere bravi, ma non si diventa straordinari” è altrettanto vero che senza tale fatica non si può diventare persone migliori. Questa fatica necessaria alla nostra crescita non ha niente a che fare con la “fatica di vivere”, ossia quegli affanni che spesso ci impegnano nel corso dell’esistenza. Lo sforzo necessario deve essere il frutto di un «esercizio intenzionale», ossia di uno impegno consapevole a crescere e a migliorare il nostro essere.

Pietro Trabucchi, “Tecniche di resistenza interiore”, Mondadori

Leggi altri pensieri di Pietro Trabucchi: DEmotivazione come autosabotaggio

Leggi articolo: Come migliorare se stessi

il processo di individuazione

Il processo di individuazione per Jung

Il processo di individuazione è funzionale alla persona perché grazie ad esso diventa realmente un individuo, con una propria personalità. In altri termini, il processo di individuazione si struttura come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi.

“Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”

COMMENTO – Il processo di individuazione è un percorso di progressiva capacità da parte dell’individuo di essere sempre più se stesso, esprimendo le proprie caratteristiche e divenendo così un Essere distinto e separato dalla collettività in cui vive. Al tempo stesso l’individuazione di sé non pone la persona contro o al di fuori dalle norme collettive; il processo di individuazione non si realizza contro qualcosa ma attraverso il riconoscimento della nostra più pura interiorità. Come individui fin dalla nascita siamo raggiunti da un enorme numero di richieste, impressioni dall’esterno che, per via dei processi di adattamento e di educazione, facciamo nostri. Se da una parte tutte queste influenze contribuiscono a formare ciò che noi siamo, dall’altra per le esigenze della vita quotidiana ci spingono a conformarci alla collettività in cui viviamo. Così nel tempo perdiamo il contatto con ciò che realmente noi siamo e finiamo per ritenere di essere la nostra esteriorità. La possibilità di recuperare un rapporto con la nostra interiorità, conscia o inconscia, ci può mettere in grado di riscoprire noi stessi e di ascoltare e realizzare ciò che noi siamo. In questo consiste il processo di individuazione, nel percepire e valorizzare la nostra unicità nelle scelte che compiamo e nei pensieri che facciamo.

Chiaramente come sottolinea Jung  “la piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Questo per sottolineare come il processo di individuazione sia un percorso difficile (è molto più facile conformarsi acriticamente), la cui durata è pari alla vita di un individuo e giammai completo. Ma non per questo dobbiamo desistere dall’impegnarci in esso. Una delle difficoltà che segnala Jung a proposito è il prezzo che esso richiede, individuabile in una certa dose di isolamento: “la sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Sentirsi individui vuol dire a volte avvertire il senso della propria solitudine. Un esempio di ciò potrebbe essere la consapevolezza di sapere che le risposte importanti che cerchiamo per la nostra esistenza non si trovano già pronte in ciò che la società suggerisce ma vanno cercate in noi stessi per essere valide individualmente. Avere la forza di fare ciò vuol dire essere fedeli a se stessi.

Il contatto con la propria interiorità che il processo di individuazione chiede, comporta la piena accettazione di tutti gli aspetti psicologici che ci appartengono e solo questo riconoscimento di noi stessi può permetterci di trovare il nostro giusto posto nella collettività. Come sottolinea Jolande Jacobi: “studio e realizzazione di sé stessi sono perciò (o dovrebbero essere) la premessa indispensabile per l’assunzione di doveri superiori, non fosse altro che di quello di realizzare il senso della vita individuale nella forma migliore e nella massima possibile ampiezza”. “ Infine, una ultima precisazione: il processo di individuazione non significa individualismo ed egocentrico perché grazie ad esso l’individuo non diventa “egoista” ma apprende solo a conoscere ciò che realmente è contribuendo così a costruire la propria identità

Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

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valutazione personale

Valutazione personale: tra autostima e autoefficacia

La valutazione personale ovvero ciò che ognuno di noi pensa di sé in termini di valore è un concetto complesso in cui vengono a confluire diversi aspetti. Tra questi possiamo individuare due variabili spesso confuse tra loro: l’autostima e il senso di autoefficacia. Ogni persona usa entrambe tale dimensioni quando, implicitamente o esplicitamente, valuta se stessa facendo riferimento a questioni diverse della propria individualità.

“Il senso di autoefficacia riguarda giudizi di capacità personale mentre l’autostima riguarda giudizi di valore personale. Non c’è una relazione definita fra le convinzioni circa le proprie capacità e il fatto di piacersi o non piacersi. Una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo patire una qualsiasi perdita di autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale. Il fatto che io mi riconosca completamente inefficace nel ballo non mi procura crisi ricorrenti di autosvalutazione. Viceversa, ci si può sentire molto efficaci in una data attività senza per questo gloriarsi delle proprie prestazioni. È difficile che un addetto all’esecuzione degli sfratti si senta glorioso quando allontana abilmente una famiglia in disgrazia dalla sua abitazione. (…) Per riuscire bene in qualcosa ci vuole molto di più che una buona autostima. Molte persone di successo sono dure con se stesse perché adottano standard difficili d raggiungere; altre possono godere di una buona autostima perché non pretendono molto da sé o perché tale autostima deriva da fonti diverse dai risultati personali. Così, il fatto di piacersi non è necessariamente causa di buone prestazioni: queste ultime sono il prodotto di impegno e autodisciplina. Per mobilitare e mantenere l’impegno necessario a riuscire, ci vuole un saldo senso di autoefficacia. Pertanto, in una certa attività, il senso di efficacia personale consente di prevedere quali obiettivi vengono scelti e la qualità della prestazione, mentre l’autostima non ha un effetto su queste variabili.”

COMMENTO – Come sottolinea Albert Bandura quando un individuo dà una valutazione personale positiva o negativa è sempre bene specificare a quale ambito della propria esistenza sta facendo riferimento nel formularla. La valutazione personale rispetto al valore che attribuiamo a noi stessi è definita autostima, mentre la valutazione personale rispetto al proprio successo viene definita autoefficacia. Spesso questi due aspetti possono essere correlati fra loro ma, come specifica Bandura, possono anche essere disgiunti nella considerazione di sé che fa un individuo. In via più generale, si potrebbe dire che la valutazione personale nell’accezione più ampia può essere definita come autostima e che il senso di autoefficacia è un aspetto particolare di quest’ultima. L’autostima è un concetto che riguarda una serie di convinzioni che abbiamo di noi stessi; d’altra parte l’autoefficacia è inerente alla percezione delle abilità personali e delle competenze possedute, rientrando così nella sfera del fare. L’autostima, invece, ha per lo più delle basi emotive, riferite ad una valutazione personale più legata alla sfera dell’essere. L’autoefficacia, secondo Bandura, si accompagna alla consapevolezza che serve a farci comprendere il modo in cui possiamo dominare/affrontare specifiche attività, situazioni quotidiane o straordinarie esterne a noi e anche intrapsichiche (come affrontare un dolore, la rabbia, etc.)

Albert Bandura, Autoefficacia, Erickson

Leggi altri pensieri di Albert Bandura: I sabotatori dell’autoefficacia

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capacità di critica

Capacità di critica e crescita personale

La capacità di critica è un fattore importante per costruire la propria individualità. Tale capacità si basa sul fatto che la persona sappia far proprie le informazioni e gli stimoli provenienti dall’esterno, portandoli nella propria esperienza e acquisendoli a modo proprio. La capacità di critica fa sì che ogni apprendimento non sia fondato su dogmi o pregiudizi ma sulla possibilità di sviluppare un pensiero autonomo.

“La facoltà critica e lo scetticismo non comportano l’essere negativi e sfiduciati. La vera critica richiede una visione personale radicata nell’esperienza e sostenuta da un chiaro ragionamento oggettivo. L’esperienza dalla quale dipende la facoltà di critica deve riguardare l’individuo e non un dogma stabilito da altri. (…) Il pensiero creativo non può fare a meno della critica. Ogni passo in avanti nell’acquisizione di conoscenze è dovuto alle domande e alla negazione di concetti già stabiliti. Non si può fare nessun passo in avanti senza trascendere e, quindi, cambiare formule e modi di pensare precedenti. (…) Ogni individuo ha qualcosa da aggiungere al sapere comune perché il suo contributo si basa sull’unicità delle sue esperienze personali. Non esistono due persone che vedono il mondo con gli stessi occhi. Ognuno possiede un corpo unico e vive un’esistenza unica. Possiamo quindi essere tutti pensatori creativi, se accettiamo la nostra individualità. La rifiutiamo, invece, quando subordiniamo il nostro pensiero all’opinione dell’autorità. Dobbiamo imparare ciò che l’autorità conosce, ma ci riusciamo soltanto quando ascoltiamo sfruttando le nostre capacità critiche. Si acquisisce conoscenza quando le informazioni vengono analizzate e assimilate nella personalità. Finché ciò non accade, le informazioni sono come un utensile che non può essere usato perché la persona non sa come tenerlo in mano. L’apprendimento non è una semplice acquisizione di informazioni. La persona colta sa come applicare queste informazioni alla vita, e in special modo alla sua vita. Le ha confrontate con le sue sensazioni e le ha integrate con la sua esperienza. (…) Non possiamo insegnare a un bambino come vivere. L’insegnamento fornisce informazioni che, per essere utili, devono essere tramutate in conoscenza. Il punto catalizzatore di questa trasformazione è l’esperienza personale. Le informazioni che coincidono con la propria esperienza diventano conoscenza; il resto non viene assimilato, passa attraverso la mente ed è presto dimenticato.”

COMMENTO – Le considerazioni di Alexander Lowen non necessitano di aggiunte particolari essendo chiare ed esplicative di per sé rispetto alla necessità di sviluppare una propria capacità critica, in grado di evitare all’individuo di cadere nel conformismo. A corollario di ciò proponiamo alcune considerazioni che Lowen fa a proposito del gusto, strumento fondamentale per poter sviluppare e mantenere una capacità di critica rispetto al mondo che ci circonda. Ogni persona, dice Lowen, è in grado di stabilire ciò che le piace o meno, basandosi sui propri sentimenti e le proprie sensazioni. Riuscire a discernere ciò che piace e ciò che non piace è la base della conoscenza soggettiva. Per sviluppare il proprio gusto è necessario utilizzare la propria esperienza, ossia quell’insieme di apprendimenti metabolizzati e depositati in noi stessi. Sono queste esperienze che, accumulatesi come apprendimenti veri, costituiscono il vero strumento per lo sviluppo del proprio gusto e quindi la propria capacità di critica. È a partire da questa considerazione che Lowen afferma che: “di una persona che ha gusto si può dire che conosce la sua mente. Se inoltre riesce a dire il perché delle sue preferenze, ovvero se riesce a basare i suoi gusti su motivi pratici, è un individuo che possiede la capacità di critica.” Il senso del gusto è innato in ogni individuo (“dalla nascita siamo in grado di distinguere il dolore dal piacere”) e quindi esso non va creato ma lo si può solo sviluppare e affinare. Inutile sottolineare che dire di un individuo che ha gusto, non significa che quell’individuo apprezzi le cose che una qualche maggioranza o gruppo di riferimento valuti come belle, buone o giuste. Spesso avere il proprio gusto vuol dire apprezzare cose o avere idee anche in contrasto con quello che è il gusto dominante. In questo caso non saremmo persone prive di gusto solo perché non confermiamo l’orientamento della maggioranza. Sperimentare questa libertà di giudizio significa affinare il proprio gusto ed esprimere la capacità di critica. Sono queste le basi per vivere un’esistenza veramente autentica, ossia una vita che non sia diretta da norme o comandi o ideologie di qualunque tipo, ma che sia guidata da una capacità di giudizio individuale in grado di stabilire che cosa sia autentico e che cosa non lo sia.

Alexander Lowen, Il piacere. Un approccio creativo alla vita. Astrolabio

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le emozioni distruttive

Le emozioni distruttive

Le emozioni sono una parte fondamentale della vita di un essere umano, ma non tutte sono ugualmente utili o ci aiutano a conoscere la realtà che abbiamo intorno. Le emozioni distruttive, infatti,  inquinano la nostra mente impedendoci di “vedere” le cose con oggettività. Per questo motivo le emozioni distruttive sono negative e vanno combattute impedendo ad esse di guidare il nostro comportamento e i nostri pensieri.

“Per chiarire ulteriormente questa distinzione cruciale tra la concezione buddhista e quella occidentale delle emozioni, Matthieu offrì una panoramica estremamente concisa della questione, affrontandola dal punto di vista della psicologia buddhista. Cominciò descrivendo un parametro molto diverso da quello usato in Occidente per identificare un’emozione come distruttiva: essa è tale non tanto se provoca danni evidenti ma se ne provoca uno ben più sottile, e cioè se distorce la percezione della realtà. «Come si distinguono le emozioni costruttive da quelle distruttive in una prospettiva buddhista?» continuò. «In linea di massima, un’emozione distruttiva – alla quale ci si riferisce anche come a un fattore che “oscura” o “affligge” – è qualcosa che impedisce alla mente di riconoscere la realtà per quello che è. In presenza di un’emozione distruttiva, ci sarà sempre uno iato tra apparenza ed essenza delle cose. «Un attaccamento eccessivo, ad esempio il desiderio, ci impedirà di riconoscere l’equilibrio tra il piacevole e lo spiacevole, il costruttivo e il distruttivo o le qualità di qualcosa o di qualcuno, spingendoci per un certo periodo a cogliere nell’oggetto un fascino assoluto e dunque incitandoci a volerlo. L’avversione ci impedisce invece di vedere certe qualità positive dell’oggetto, rendendoci totalmente negativi nei suoi confronti e facendoci desiderare di ripudiarlo, di distruggerlo o di allontanarci da esso. «Tali stati emotivi compromettono la capacità di giudizio e una corretta valutazione della natura delle cose. Ecco perché diciamo che oscurano: oscurano il modo di essere delle cose.”

Commento: Le emozioni distruttive sono tali perché il loro manifestarsi oscura e limita la libertà dell’individuo. Infatti esse quando si impossessano della nostra mente agiscono nel determinare una concatenazione dei pensieri costringendoci a pensare e ad agire in maniera automatica. È esperienza comune che quando siamo arrabbiati la nostra mente comincia a ruminare una serie di pensieri e “immagini” su cui non abbiamo alcun controllo, che si susseguono nel nostro spazio mentale senza che noi possiamo gestirli. Semplicemente si “impossessano” di noi. Ed è altrettanto esperienza comune che spesso in quello stato affermiamo di non essere in noi o di essere scarsamente lucidi. Questo vuol dire che le emozioni distruttive inquinano la nostra mente e ci tolgono la libertà. Al contrario le emozioni definibili come costruttive comportano una valutazione più oggettiva di quanto viene percepito dal momento che esse, non offuscando la nostra mente, si fondano su un uso più sano della ragione.

Da quanto detto, dunque, le emozioni distruttive intese sono qualcosa che comporta un danno a noi stessi e agli altri. In questo discorso è utile aprire una parentesi a proposito delle valutazione delle azioni: queste non sono in sé buone o cattive in maniera assoluta. Anche se la morale (anzi, sarebbe più corretto dire le morali) prescrivono ciò che è giusto o sbagliato, buono o cattivo, in realtà tale valutazione dipende sempre da molti fattori contestuali. Come ci ricorda Daniel Goleman: “esiste soltanto il buono e il cattivo – il danno in termini di felicità o di sofferenza – che i nostri pensieri e le nostre azioni provocano in noi o in altri.” Le emozioni distruttive, in questo senso, hanno conseguenze che sono sempre indirizzate alla sofferenza nostra o degli altri. Quindi un buon criterio per valutare se una azione sia buona o cattiva è, per esempio, comprendere quale sia l’emozione sottostante che l’ha generata o che la sostiene.

Le emozioni costruttive rappresentano inoltre un buon antidoto contro le emozioni distruttive. Facciamo un esempio prendendo due emozioni opposte fra loro: l’odio e l’altruismo. L’odio muove da un desiderio di arrecare danno a qualcuno, di distruggere qualcosa; l’amore altruistico è, invece, l’emozione opposta a questa ed è facile comprendere come essa agisca come antidoto rispetto al desiderio di recare danno. L’amore altruistico si oppone all’animosità verso gli altri poiché come sottolinea Daniel Goleman: “sebbene sia possibile provare alternativamente amore e odio, non si può provare contemporaneamente questi due sentimenti nei confronti di una stessa persona o di uno stesso oggetto. Di conseguenza, più si coltivano l’affetto, la compassione e l’altruismo – più essi pervadono la nostra mente – e più il loro opposto, il desiderio di recare danno, è costretto a diminuire e forse a scomparire.”

Infine è utile ricordare che quando definiamo una emozione come negativa o distruttiva, non significa che noi non dobbiamo provare tale emozione (anche se questo potrebbe essere un punto di approdo dopo un profondo cammino di sviluppo personale) ma che dobbiamo apprendere a non cedere ad essa perché farlo vorrebbe dire andare incontro a una minore felicità, benessere, e perdere la nostra lucidità e libertà, distorcendo il nostro rapporto con la realtà.

Dalai Lama e Daniel Goleman, Emozioni distruttive, Oscar Mondadori

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la tenacia

La tenacia e le strategie per allenarla

La tenacia è uno strumento a disposizione di ognuno di noi. L’importante è volerla utilizzare e rafforzarla allo scopo di servirsene per raggiungere i nostri obiettivi. Scopriamo insieme quali sono gli elementi utili a coltivare la tenacia in maniera efficace.

“La tenacia è uno stato mentale, e di conseguenza può essere coltivato. Come tutti gli stati, si basa su cause precise, tra cui:

  1. Chiarezza di intenti. Sapere quello che si vuole è il primo passo, e forse il più importante, per sviluppare tenacia. Una forte motivazione spinge a superare qualsiasi difficoltà.
  2. Desiderio. È piuttosto facile sviluppare e mantenere la tenacia se si insegue l’oggetto di un desiderio ardente.
  3. Fiducia in sé stessi. La convinzione di poter riuscire a realizzare un piano con successo incoraggia a portarlo a termine con costanza.
  4. Programmazione organizzata. Piani precisi, per quanto deboli e completamente inattuabili in pratica, rafforzano la tenacia.
  5. Conoscenze accurate. Sapere che i propri piani sono validi, basati su esperienze o osservazioni, rafforza la tenacia; “tirare a indovinare” invece di “sapere le cose per certo” la distrugge.
  6. Collaborazione. La comprensione da parte di altri e la collaborazione armoniosa tendono a favorire la costanza.
  7. Forza di volontà. L’abitudine di concentrare i propri pensieri verso la creazione di piani per raggiungere uno scopo preciso porta alla tenacia.
  8. Abitudine. La tenacia è una diretta conseguenza dell’abitudine. La mente assorbe le esperienze quotidiane di cui viene alimentata. La paura, il peggiore di tutti i nemici, si può curare efficacemente mediante la ripetizione forzata di atti di coraggio.”

COMMENTO: La tenacia è una variabile fondamentale per portare a compimento un desiderio che possiamo nutrire. Essa si appoggia alla forza di volontà per potersi manifestare e così la forza di volontà insieme al desiderio costituiscono la molla che può far scattare in ognuno di noi la tenacia. Proviamo a definire, prima di tutto, cosa sia la tenacia. Essa si indica la fermezza e la perseveranza nel perseguire i propositi e nello svolgere le azioni necessarie al loro raggiungimento. In particolare diciamo che una persona è tenace quando è possibile attribuirle una forza tale da riuscire ad affrontare e a superare situazioni avverse che richiedono grande impegno fisico e mentale. Avere successo in qualcosa -stiamo parlando anche di situazioni quotidiane e non solo dei “grandi” successi – richiede sempre una certa dose di tenacia. Infatti, coloro che riescono sono persone che utilizzano la propria forza di volontà insieme alla costanza. Grazie a questi due “ingredienti” riescono a realizzare i propri obiettivi. Purtroppo la maggioranza delle persone tende, invece, ad abbandonare i propri obiettivi, manifestando un comportamento arrendevole, ai primi segnali di difficoltà o quando le cose sembrano mettersi male. Solo pochi individui hanno la capacità di tenere duro nonostante gli ostacoli, perseverando nella propria azione fintanto che i propri obiettivi vengono raggiunti. Non stiamo parlando di una capacità irraggiungibile per la maggior parte della gente, o di qualcosa di eroico, ma di una qualità nella propria azione che può essere coltivata e allenata. Come ci ricorda Napoleon Hill: “la mancanza di tenacia è una delle principali cause di insuccesso. Inoltre, la mia esperienza con migliaia di persone ha dimostrato che è un difetto comune alla maggior parte della gente. È tuttavia un difetto a cui si può rimediare con un po’ di impegno; la facilità con cui si riesce a vincerlo dipenderà interamente dall’intensità del proprio desiderio.” Infatti, il punto di partenza per ogni successo è il desiderio che sperimentiamo rispetto un certo obiettivo. Se nutriamo desideri sbiaditi i risultati a cui ci orientano saranno scarsi, così come un fuoco dalla fiamma debole genera poco calore.

Avere tenacia, ovvero sperimentare un desiderio in modo intenso e supportarlo con la forza di volontà, non assicura il successo ma serve soprattutto a sostenere la nostra azione fino in fondo. Ma la tenacia può andare anche oltre l’insuccesso, aiutandoci a scalcare un possibile fallimento. La tenacia è in grado di insegnare a chi ne fa uso anche ad accettare la sconfitta, considerandola solo una situazione temporanea. La tenacia davanti ad un fallimento ci permette di riorganizzare i nostri sforzi e, fatta una analisi della situazione, ci permette di ripartire di nuovo senza piangerci addosso. Come sottolinea Napoleon Hill esistono alcuni nemici della tenacia, ovvero dei sintomi interiori, degli atteggiamenti mentali che ne minano la forza. Ecco allora una breve lista di queste abitudini mentali su cui riflettere e lavorare per diminuirne l’effetto di disturbo: non capire e definire chiaramente ciò che si desidera; rinviare le attività, con o senza una ragione per farlo; mancanza di interesse per l’apprendimento di conoscenze specifiche; indecisione, abitudine di scaricare sugli altri le responsabilità; tendenza a trovare scuse di impegnarsi a creare piani precisi per risolvere i problemi; autocompiacimento; desiderio troppo debole per cui si aspira vagamente a qualcosa invece di volerla fermamente; arrendevolezza, essere pronti ad arrendersi al primo segno di difficoltà; mancanza di piani organizzati; l’abitudine di non seguire le proprie idee o non cogliere le occasioni quando si presentano; aspirare a qualcosa ma avere una generale mancanza di ambizione; abitudine di scendere a compromessi; cercare ogni possibile scorciatoia; temere le critiche, per cui si creano piani ma non li si  mette in atto, per timore di quello che potrebbero pensare gli altri.

Napoleon Hill, Pensa e arricchisci te stesso. Alessi Roberto Editore

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