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Sofferenza psicologica : i rimedi per Freud

La sofferenza psicologica è qualcosa che l’uomo cerca di evitare in molti modi. Freud ci descrivere con la sua solita lucidità i modi in cui l’essere umano cerca di tenere a bada la sofferenza psicologica talvolta cadendo anche nell’illusione… Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Opere Complete, Boringhieri

I metodi più interessanti di prevenzione della sofferenza psicologica sono però quelli che cercano d’influire sullo stesso organismo che soffre. Dopo tutto ogni sofferenza non è che sensazione, sussiste nella sola misura in cui la proviamo e la proviamo solo perché il nostro organismo è fatto in un determinato modo. Il più rozzo, ma anche il più efficace metodo per influire sull’organismo è quello chimico: l’intossicazione. Non credo che qualcuno sia in grado di penetrarne il meccanismo, ma è un fatto che esistono sostanze estranee al corpo la cui presenza nel sangue e nei tessuti ci procura immediatamente sensazioni piacevoli, alterando in pari tempo le condizioni della nostra vita senziente al punto da renderci incapaci di accogliere moti spiacevoli. I due effetti non si limitano a essere simultanei, sembrano anche intimamente correlati. Anche nel nostro stesso chimismo devono però esserci sostanze che producono risultati simili; conosciamo infatti almeno uno stato patologico, la mania, in cui si produce tale comportamento affine all’ebbrezza senza che sia stato somministrato alcun tossico inebriante. La nostra vita psichica normale presenta inoltre delle oscillazioni: il piacere può sprigionarsi con maggiore o minore facilità cui si accompagna una diminuita o accresciuta recettività al dispiacere. È un vero peccato che questo aspetto tossico dei processi psichici si sia sottratto a tutt’oggi all’investigazione scientifica. Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto ben preciso nella loro economia libidica. Dobbiamo ad essi non solo l’acquisto immediato di piacere, ma anche una parte, ardentemente agognata, d’indipendenza dal mondo esterno. Con l’aiuto dello “scacciapensieri” sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori.

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Sofferenza e angoscia esistenziale

La sofferenza è un ospite inquietante che chiede con insistenza all’uomo di dare un senso alla propria esistenza. Apparentemente questa è una domanda vecchia quanto il mondo, perché, dal giorno in cui sono nati, gli uomini hanno conosciuto il dolore, la miseria, la malattia, il disgusto, l’infelicità e persino il “disagio della civiltà” a cui prima le pratiche religiose, e poi quelle terapeutiche, con la psicoanalisi in prima fila, hanno tentato di porre rimedio. La sofferenza però insiste nel dire che nell’età della tecnica la domanda di senso è radicalmente diversa, perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso alla vita che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati. All’interno di questi apparati, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso.
Umberto Galimberti, La casa di psiche. Feltrinelli

La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a conforto o a rimedio del quale sono state senza fine ideate pratiche di cura. Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica1 che, al contrario di quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non è un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non sia suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé. (…)
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo di tutti, anche di chi al momento non soffre, perché di fronte alla sofferenza fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire. Questa possibilità universalizza il dolore facendolo apparire in tutta la sua ineluttabilità come tratto ineludibile dell’esistenza. Qui nasce la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande. Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite.

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