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Vulnerabilità : l’imperfezione che ci fa umani

La vulnerabilità della nostra natura umana non può essere elusa. La vita stessa ci pone davanti la nostra vulnerabilità ogni giorno. Eppure è proprio attraverso il riconoscimento e l’accettazione della nostra vulnerabilità che possiamo impossessarci della vera essenza dell’esperienza umana. Per di più prendere contatto con la nostra vulnerabilità ci consentirà un migliore contatto con gli altri. Gianfranco Damico, Il codice segreto delle relazioni. Feltrinelli

In un film uscito qualche anno fa, The Big Kahuna, un grandissimo Danny De Vito fa al suo giovane collega venditore un discorso su cosa voglia dire “avere carattere”. (…) La parte che trovo straordinaria è quando De Vito spiega al giovane collega perché manca di carattere: non ha carattere perché non ha ancora rimpianti. E che cosa è un rimpianto? Un rimpianto è quando sai che nel tuo passato c’è qualcosa – qualcosa di specifico, di preciso e di cui hai consapevolezza – che non è andata come avresti voluto; sai cosa avresti dovuto fare, qual era la cosa giusta, ma quella cosa non l’hai fatta. Forse ti era impossibile farla o forse l’hai creduta impossibile tu; sta di fatto che adesso che saresti pronto è troppo tardi; l’unica cosa che puoi fare adesso è portarti dentro quella cosa irrisolta e continuare a camminare. Fino a che non hai sperimentato questo, dice De Vito, “Non puoi aspettarti di andare oltre un certo limite”.
Ora questo è alquanto strano se ci pensate; tutta la vita ci dicono che è meglio non avere rimpianti, che il rimpianto non dovrebbe dimorare mai dentro di noi. E invece qui l’implicito è che proprio il rimpianto a dare spessore e consistenza al nostro carattere come persona. Forse perché il rimpianto ti mette sotto gli occhi e ti ricorda la tua stessa umanità – imperfetta, manchevole, spesso inadeguata, mai definitivamente compiuta – ed è questo a permetterti di riconoscere quella stessa umanità negli altri, ad accoglierla e accettarla. Voi ne avete di rimpianti? Io sì, non ho dubbi; ne ho una manciata, stanno sulle dita di una mano, forse non gravi; ma ne ho uno enorme, gigantesco, inguaribile, che a pensarci su qualcosa in me urla. Sono gli ultimi anni di mio padre in una casa di riposo per anziani: quanto avrei voluto tirarlo fuori di lì, camminarci accanto guancia a guancia per sentirne l’odore, guardare quei suoi occhi orgogliosi ogni sera e farci le nostre ultime battute su questa santa porca vita. E invece è rimasto lì; mi fu impossibile tirarlo fuori, mi sembrò impossibile farlo. Se n’è andato ora.
Forse è questo genere di cose a fare di una persona un non-spacciatore di pistolotti, un non somministratore di insopportabili superficialità? È questo che gli scava dentro un cuore, in profondità, che la vita poi gli riempie della sua insopportabile bellezza? questo ne fa in definitiva un essere umano?

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