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Esistenza: ogni vita vale un romanzo

L’ esistenza di ciascuno di noi può essere paragonata ad un romanzo e per far questo non dobbiamo pensare a vite in cui debba accadere qualcosa di straordinario o di esaltante. Vivere una esistenza come fosse un romanzo sta tutto in due elementi: diventare noi stessi i protagonisti della storia e saper cogliere ciò che di “speciale” c’è in ogni nostra azione.  Erving Polster, Ogni vita merita un romanzo, Astrolabio

Normalmente, è poco probabile che si riescano a metter da parte le priorità personali allo scopo di scoprire cose che sono solo oscuramente interessanti. La gente persegue una tale varietà di scopi che spesso andare in cerca di ciò che è interessante nella vita degli altri significherebbe andare incontro a fastidi eccessivi. La maggior parte di noi trova del tutto ragionevole interessarsi ad alcune persone e trascurarne altre. Se certuni non suscitano il nostro interesse, non lo suscitano e basta. Questo avviene ogni giorno sul lavoro, in famiglia, alle feste, nella politica, e anche quando camminiamo per le vie della nostra città. Una vita di attenzione indiscriminata per ogni cosa è fuor di questione. Eppure obiettivi più modesti sarebbero alla portata di tutti; è senz’altro possibile apprezzare nel suo giusto valore il dramma della nostra esistenza, e abbassare la soglia della nostra disponibilità a scorgerlo negli altri. Riuscire ad aprirsi a questi drammi impliciti, anche a piccole dosi, può essere un fattore cardine nell’intensificazione dell’esperienza individuale.

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Sofferenza e angoscia esistenziale

La sofferenza è un ospite inquietante che chiede con insistenza all’uomo di dare un senso alla propria esistenza. Apparentemente questa è una domanda vecchia quanto il mondo, perché, dal giorno in cui sono nati, gli uomini hanno conosciuto il dolore, la miseria, la malattia, il disgusto, l’infelicità e persino il “disagio della civiltà” a cui prima le pratiche religiose, e poi quelle terapeutiche, con la psicoanalisi in prima fila, hanno tentato di porre rimedio. La sofferenza però insiste nel dire che nell’età della tecnica la domanda di senso è radicalmente diversa, perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso alla vita che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati. All’interno di questi apparati, l’individuo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso.
Umberto Galimberti, La casa di psiche. Feltrinelli

La morte di Dio non è passata invano sulle vicende umane, e tanto meno su quella vicenda di tutte le vicende che è l’umano patire, a conforto o a rimedio del quale sono state senza fine ideate pratiche di cura. Ultima in ordine di tempo è la pratica filosofica1 che, al contrario di quanto comunemente si pensa, non contende lo spazio alle altre terapie, perché non è una terapia. Non crede infatti che dal dolore si possa guarire, perché pensa che il dolore non è un inconveniente che capita all’esistenza come effetto di una causa conscia o inconscia a cui si può porre rimedio con una cura, ma ritiene che il dolore non sia separabile dall’esistenza e, in quanto suo costitutivo, non sia suscettibile di guarigione, ma governabile con la cura di sé. (…)
Evocando la morte, il vero rimosso della cultura occidentale, evochiamo il limite costitutivo dell’esistenza umana, la sua finitudine, di cui la sofferenza che costella la vita, la vita di tutti, è anticipazione e ineludibile richiamo. Diciamo di tutti, anche di chi al momento non soffre, perché di fronte alla sofferenza fa breccia anche in lui, inquietante, la possibilità di soffrire. Questa possibilità universalizza il dolore facendolo apparire in tutta la sua ineluttabilità come tratto ineludibile dell’esistenza. Qui nasce la domanda circa il senso della sofferenza, che poi si estende alla domanda che chiede il senso della vita, se è vero che la sofferenza le è costitutiva. Il senso, infatti, è come la fame che si avverte non quando si è sazi, ma quando manca il cibo. È l’esperienza del negativo a promuovere la ricerca, è la malattia, il dolore, l’angoscia, non la felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande. Lamentare la mancanza di senso significa allora lamentarsi del dolore, della malattia, della morte, per cui la “domanda di senso” è un’espressione nobile che nasconde il rifiuto da parte dell’uomo dell’esperienza del negativo, la non accettazione della propria finitezza, del proprio limite.

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