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La mediocrità dell’anima

La mediocrità dell’anima è qualcosa che non può sussistere dal momento che i due termini “anima” e “mediocrità” sono fra loro incompatibili: l’anima è qualcosa di specifico che appartiene singolarmente ad un solo individuo, mentre la mediocrità è un termine statistico, sociologico, che descrive solo i grandi numeri e non la singola persona….

“Di un’anima si può dire che è vecchia, o saggia, o tenera. Parlando di una persona diciamo che ha una bella anima, o è ferita nell’anima, che ha un’anima profonda o grande, o che è un’anima bella, cioè semplice, fanciullesca, ingenua. Ma non diremo mai: «La tale ha un’anima di ceto medio»; termini come «medio», «usuale», «tipico», «normale», «mediocre» non si accompagnano con «anima». Non ci sono parametri standard per il daimon; non esistono angeli normali, geni tipici. Proviamo a immaginarci un’anima mediocre. Che aspetto avrebbe? Incolore, insapore, inodore, indescrivibile, camaleontica, probabilmente potrebbe farsi passare per tutto e il contrario di tutto, adattandosi a ogni possibile cliché. (…) Non possiamo far coincidere la mediocrità dell’anima con il mestiere mediocre che una persona fa, tipo il manovale, la centralinista, lo stradino, perché potrà essere mediocre il lavoro in sé, ma non il modo come è svolto. Milioni di persone mangiano corn-flakes a colazione e sgranocchiano popcorn al cinema, ma questo non comprova che la loro anima sia nella media. Ciascuno è un «uno» in virtù del suo stile. L’unica possibile anima mediocre dovrebbe essere un’anima priva di un purchessia carattere, assolutamente innocente e intatta, priva di immagine e dunque inimmaginabile e, inoltre, condannata a un’esistenza senza daimon.

COMMENTO – Il pensiero di James Hillman lo porta sempre a ragionare in modo originale sull’essere umano e anche in questo caso affrontando il tema della mediocrità lo fa in modo del tutto singolare. Il concetto di anima legato all’individuo è certamente una sottolineatura dell’unicità della persona, della sua inequivocabile diversità e differenza rispetto a tutti gli altri esseri umani. Intesa in questo senso, l’anima di ognuno di noi ha una vocazione o può avere un talento per qualcosa. E allora come può sussistere l’idea di un individuo o di un’anima mediocre. Forse il concetto ampiamente usato di mediocrità è tale da creare un malinteso o, come suggerisce Hillman, sussiste solo in una società che in maniera nevrotica è votata all’eccezionale, alla divergenza dalla norma. E noi allora: “accalcati là sotto, intorno alla media, guardiamo con invidia e timore le rare eccezioni che premono per sfuggire agli estremi. Noi della maggioranza, nella media vuoi per talento, per opportunità, per ambiente, fortuna, intelligenza o bellezza, né siamo nati grandi né saremo mai sfiorati dalla grandezza.” Ma tutto questo è reale, corrisponde alla vera natura dell’essere umano o è solo il frutto di una distorsione culturale e sociale? Prima di tutto Hillman pone una differenza affermando che non dobbiamo confondere il talento di una persona con quella che può essere la vocazione della sua anima.

Infatti, molte persone nascono con il talento della musica, della matematica, della scrittura, ma solo quando il talento ha il supporto del carattere adatto a svilupparlo si manifesta l’eccezionalità. Come dice Hillman: “molti sono i chiamati, pochi gli eletti; molti hanno talento, pochi il carattere che può realizzare quel talento.” In questa concezione dell’essere umano la mediocrità dell’anima sarebbe lo stato della maggioranza (statisticamente parlando) degli individui. Hillman individua tre distinte concezioni correnti dell’eccezionalità che si potrebbe  manifestare nelle persone. La prima è quella per cui soltanto i “divi”, gli “eletti” hanno tale eccezionalità che li distingue dalla mediocrità dell’anima generale: tale concezione è soprattutto tipica delle teorie sulla natura della genialità e spesso si ritrova nelle biografie dei personaggi di spicco. Tele prima concezione finisce per dividere l’umanità in privilegiati e non. La seconda concezione tende a sottolineare il fatto che la maggior parte degli individui nel corso della propria vita tende a smarrire la propria vocazione sulla spinta di circostanze esistenziali, finendo per dedicarsi ad altro e “condannandosi” ad una mediocrità dell’anima che rinuncerebbe di fatto alla propria singolarità. Questa impostazione, dice Hillman, è tipica delle interpretazioni sociologiche. La terza concezione rientra in quello che lo psicoanalista americano chiamo l’idealismo terapeutico, secondo cui ogni persona deve impegnarsi nel ricongiungere se stessa al proprio vero sé nascosto, recuperando così la propria vera parte creativa e “liberando il genio dalle prevaricazioni dell’ambiente che gli hanno tarpato le ali.” 

A fronte di queste tre interpretazioni che mettono la mediocrità dell’anima sotto accusa, Hillman propone un recupero di questo aspetto mettendo il concetto di mediocrità sotto una nuova luce. Come già affermato in precedenza “mediocrità” non si sposa bene con “anima” se intendiamo con “mediocrità” qualcosa di poco o scarso valore. Allora Hillman prova a declinare questo concetto intendendolo come “ciò che è diverso dall’eccezionale”, “ciò che è lontano dal successo, che non lo persegue”. In questa nuova concezione Hillman “assume la mediocrità come una forma di vocazione e nello stesso tempo la ridefinisce radicalmente, liberandola dalle norme statistiche e sociologiche.” La mediocrità dell’anima diventa allora una vocazione alla vita che tutti viviamo e non qualcosa che è in conflitto con la vita perché questa richiederebbe solo ciò che è eccezionale. “Una vocazione all’onestà invece che al successo, al prendersi cura dell’altro e con l’altro, al servire e lottare per amore della vita.” Hillman opera dunque una revisione del concetto di mediocrità dell’anima il cui opus (opera) diviene la vita stessa. In questo modo secondo Hillman cadrebbero obsolete domande del tipo «Perché certuni sono grandi e altri no?». Domande in cui è implicita la divisione tra chi è “grande” e chi non lo è. Chi non è un genio la cui eccezionalità lo porrebbe sopra agli altri, non è una persona condannata a rientrare appena nella media. Nessuno può arrogarsi il diritto di dare una valutazione su queste persone. Infatti, fintanto che giudicheremo gli individui solo in base alle proprie specifiche competenze o, peggio ancora, in base al proprio conto in banca, perderemo di vista il loro carattere e ciò che tali persone stanno realizzando nella propria vita. Conclude Hillman con un’osservazione lucida e al tempo stesso critica: “la nostra sociologia, la nostra psicologia, la nostra economia (insomma, la nostra civiltà) sembrano incapaci di apprezzare il valore delle persone che non emergono e le relegano nella mediocrità dell’uomo medio di intelligenza media. Perciò il « successo » finisce per assumere tutta quella esagerata importanza: offre l’unica via di fuga dal limbo della media. Stampa e televisione vengono a pescarti soltanto quando piangi dopo una tragedia, quando dai in escandescenze davanti alla platea, o quando ti metti in posa per spiegare che cosa ne pensi; dopo di che, ti butta nuovamente nel calderone della mediocrità indifferenziata. I media sanno adulare, celebrare, esagerare, ma non sanno immaginare, e dunque non sanno vedere.  

James Hillman, Il codice dell’anima. Adelphi

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James Hillman

James Hillman: cosa è l’anima

James Hillman affronta uno dei temi più complessi e controversi della psicologia, il concetto di anima. Lo fa con la sua consueta chiarezza e concretezza per mostrarci come tale termine non sia per niente astratto o “fumoso”, anzi estremamente concreto e pratico proprio nella vita di tutti i giorni. Al tempo stesso James Hillman ne recupera il vero senso profondo che il concetto di anima ha nell’esistenza dell’essere umano.

“Per anima io intendo, prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, più che una cosa in sé, una visuale sulle cose. Questa prospettiva è riflessiva; essa media gli eventi e determina le differenze tra noi stessi e tutto ciò che accade. Tra noi e gli eventi, tra l’agente e l’azione, c’è un momento riflessivo – e fare anima significa differenziare questa zona intermedia. E come se la coscienza poggiasse su un sostrato dotato di esistenza autonoma e di immaginazione – un luogo interno o una persona più profonda o una presenza costante – che continua a esserci anche quando tutta la nostra soggettività, il nostro io, la nostra coscienza si eclissano. L ’anima si  dimostra un fattore indipendente dagli eventi nei quali siamo immersi. Non posso identificarla con nessun’altra cosa, ma non posso neppure afferrarla da sola, isolata dalle altre cose, forse perché è simile a un riflesso in uno specchio fluido, o alla luna che trasmette soltanto luce non sua. Ma è proprio l’intervento di questa peculiare e paradossale variabile che da all’individuo il senso di avere o di essere un’anima. Malgrado tutta la sua intangibilità e indeterminatezza, l’anima possiede una elevatissima importanza nelle gerarchie dei valori umani, spesso anzi viene identificata con il principio vitale o con lo stesso principio divino.”

COMMENTO: James Hillman nel suo libro “Re- visione della psicologia” alza una voce contraria ai moderni approcci di questa disciplina che tendono a “materializzare” il discorso psicologico. E così in questo libro lo psicoanalista junghiano parla del “fare anima”, cercando di elaborare una concezione di una psicologia dell’anima, ovvero di cercare di vedere la psicologia dal punto di vista dell’anima. Come ci ricorda James Hillman, l’espressione fare anima è stata coniata da poeti romantici del calibro di William Blake e John Keats; quest’ultimo in una lettera al fratello così si esprimeva: “Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima Allora scoprirete a che serve il mondo…”. James Hillman fa tesoro di questa felice intuizione, sottolineando come vista sotto questa luce la vita di ogni persona “è un vagabondare per la valle del mondo col fine di fare anima”. Scopo di ogni esistenza è allora quello di trovare i nessi tra vita e anima. Per quanto questo discorso possa sembrare “fumoso” e lontano dalla vita quotidiana, esso in realtà presenta una straordinaria aderenza con quello che potrebbe accadere in ogni vita. Vediamo allora come James Hillman descrivere il concetto di anima.

Questo termine indica quella componente sconosciuta della nostra “mente” che rende possibile la costruzione del significato, che opera affinché gli eventi che ci accadono possano divenire esperienze; è qualcosa che “viene comunicata nell’amore e che ha un’ansia religiosa”. Vediamo più da vicino queste caratteristiche dell’anima che secondo James Hillman la rendono un aspetto estremamente concreto all’interno di un’esistenza. Prima di tutto, quando parliamo di anima ci si riferisce “all’approfondirsi degli eventi in esperienze”. Con essa, dunque, si parla di un andare al di là del semplice fatto accaduto, che deve trasformarsi in qualcosa di nostro, secondo un processo di reciproca compenetrazione tra noi e l’evento. In secondo luogo la densità e la pregnanza di significato che l’anima rende possibile, nell’amore o nell’anelito religioso, “deriva dal suo speciale rapporto con la morte”. Esiste, quindi, un “oltre” a cui l’anima si lega e che apre un universo di significati che vanno non solo al di là dei fatti che viviamo in sé, ma anche al di là della nostra singola esistenza. Infine, secondo James Hillman, l’anima si collega alla possibilità immaginativa insita nella nostra umana, per cui ci è dato di fare esperienza non solo attraverso i sensi ma anche tramite la speculazione riflessiva, il sogno, le immagini e la fantasia. Questa capacità immaginativa esiste perché essa è in grado di cogliere ogni realtà come simbolica o metaforica, per cui ogni cosa che accade è anche qualcos’altro.

James Hillman, Re-visione della psicologia. Adelphi

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Mediocrità : esiste veramente?

“Non esiste una mediocrità dell’anima. l due termini sono incompatibili. Provengono da territori diversi: «anima» è singolare e specifico; “mediocrità» ti prende le misure con gli strumenti della statistica sociologica…” Ancora una volta Hillman stupisce per il suo punto di vista assolutamente fuori dal comune.
James Hillman, Il codice dell’anima. Adelphi

Può esistere un angelo mediocre? Una vocazione alla mediocrità? In fondo, la maggior parte di noi trascorre l’esistenza al sicuro proprio sotto la curva della campana di Gauss. Accalcati là sotto, intorno alla media, guardiamo con invidia e timore le rare eccezioni che premono per sfuggire agli estremi. Noi della maggioranza, nella media vuoi per talento, per opportunità, per ambiente, fortuna, intelligenza o bellezza, né siamo nati grandi né saremo mai sfiorati dalla grandezza. Così almeno pare.
Intanto, incominciamo con l’ammettere che intorno al termine « mediocre » si sono accumulati un mucchio di pregiudizi snobistici. Quando applichiamo quel termine a una cosa, è sottinteso che ne stiamo prendendo le distanze. Noi no, noi siamo diversi, non ci riguarda, quindi a noi è lecito dare giudizi su qualsiasi cosa chiamiamo mediocre.
«Mediocre» tende a significare «senza tratti distintivi », mentre agli snob piacciono tanto le griffe che distinguono il loro stile dalla massa: i vestiti che indossano e come li indossano, le parole che usano, i posti che frequentano, con chi si ritrovano a spettegolare.
La letteratura occidentale a partire dai Settecento è piena di giudizi snobistici sulla mediocrità, e questa tradizione rischia di contagiare chiunque voglia affrontare il nostro tema. In qualunque situazione di vita il genio ci abbia collocati, il dato inconfutabile dell’individualità protegge l’anima da ogni tentativo di assimilazione di classe. Nessuna anima è mediocre, per convenzionali che siano i nostri gusti personali e per medie che siano le nostre prestazioni in tutto.

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Anima e la psicologia del profondo

Anima è un concetto desueto nella psicologia “scientifica”. James Hillman, nella sua originale e stimolante prospettiva, ne fa invece il cardine per ri-vedere tutta la psicologia moderna, recuperando il vero senso profondo dell’esistenza e dello studio dell’uomo.
James Hillman, Re-visione della psicologia. Adelphi

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Questo libro parla del fare anima. Esso e un tentativo di elaborare una psicologia dell’anima, un saggio di re-visione della psicologia dal punto di vista dell’anima. E perciò un libro all’antica e radicalmente nuovo, perché riprende bensì le nozioni classiche dell’anima, ma avanza idee che la psicologia attuale non ha neppure cominciato a prendere in considerazione.
Poiché non e possibile comprendere l’anima per mezzo della sola psicologia, la nostra visione abbandona addirittura il campo della psicologia come comunemente inteso, e spazia con liberta attraverso la storia, la filosofia e la religione. Pur mirando questo libro a un nuovo modo di pensare e di sentire psicologici, le sue radici affondano sempre nella zona centrale della nostra cultura psicologica; suo nutrimento sono le intuizioni accumulatesi nella tradizione occidentale a cominciare dai greci, attraverso il Rinascimento e i romantici, fino a Freud e Jung. L ’espressione fare anima viene dai poeti romantici. L ’idea, già contenuta nel Vaia di William Blake, e chiarita da John Keats in una lettera al fratello: “Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima Allora scoprirete a che serve il m ondo…”. Osservata da questa prospettiva, l’avventura umana è un vagabondare per la valle del mondo col fine di fare anima. La nostra vita e psicologica, e lo scopo della vita e quello di far di essa psiche, di trovare nessi tra vita e anima.

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