seconda parte della vita

La seconda parte della vita

La seconda parte della vita non è solo una fase di declino. Essa è a tutti gli effetti parte integrante dell’esistenza di ogni essere umano e come tale andrebbe vissuta: in maniera attiva ed esplorando le molteplici opportunità di scoperta di se stessi che offre… La seconda parte della vita offre, allora ad ogni individuo la possibilità di una ulteriore ricerca di senso per il proprio vivere, oltre che costituire un tempo per portare a compimento il proprio processo di individuazione. Anche se spesso il passaggio verso la seconda parte della vita coincide con una crisi dell’individuo, è opportuno comprendere che tale disagio – peraltro normale – è sollecitato dal sopraggiungere di un nuovo atteggiamento psicologico a cui finora non si era abituati. Infatti, se nella prima parte della vita il nostro atteggiamento psichico è per lo più estroverso, orientato al mondo e alla conquista di un nostro posto in esso, nella seconda parte della vita si tende a concentrare l’attenzione su se stessi a diventare più introversi scoprendo dentro di noi spinte, desideri e inclinazioni prima inascoltate o del tutto sconosciute. Così questa parte della vita, trovandoci più liberi dagli impegni mondani, è realmente l’occasione per diventare sempre più noi stessi.

“Il passaggio alla seconda metà della vita si apre con un primo tentativo di bilancio, e soprattutto con il bisogno di conoscere la nostra più intima natura. Quello che a uno sguardo superficiale può apparire uno stanco ripiegamento su se stessi, un inaridirsi progressivo delle proprie capacità, è invece indice di qualcosa di importantissimo: è l’inizio di un lento processo di concentrazione dell’energia libidica verso una meta differente da quella “estroversa” del semplice adattamento al mondo esterno. (…) Purtroppo a questa fase di crisi si arriva non solo impreparati ma, ancor peggio, con un bagaglio di pregiudizi, di convenzioni, di “valori” mutuati acriticamente dal “gruppo” o dalla fascia sociale cui si appartiene; ma, ci ricorda Jung: “ non è possibile vivere la sera de la vita seguendo lo stesso programma del mattino, poiché ciò che fino ad allora aveva grande importanza ne avrà ora ben poca, e la verità del mattino costituisce l’errore della sera.” Adesso si comincia a riflettere su come si è vissuto, su quali sono state le proprie scelte. Questo determina una fase di introversione, con tutti i pericoli ma anche le potenzialità che ogni viaggio nelle proprie profondità comporta e offre.”

Aldo Carotenuto, “Oltre la terapia psicologica”, Bompiani

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migliorare se stessi

Migliorare se stessi

Cosa significa migliorare se stessi? Un atleta che si allena per correre i cento metri in un tempo più breve sta cercando di migliorare se stesso. Un individuo che si sforza di seguire un’alimentazione più sana e corretta sta cercando di migliorare se stesso. E allora cosa vuol dire migliorarsi psicologicamente? La risposta è semplice e complessa al contempo: apprendere ad essere più consapevoli, ossia ad essere più padroni di noi stessi. Ciò significa non solo essere meno in balìa dei fattori esterni a noi e dei nostri stati interiori, più capaci di gestire le nostre reazioni, ma anche imparare ad essere maggiormente noi stessi proprio perché in grado di gestire coscientemente i nostri pensieri, emozioni e comportamenti.

La consapevolezza di se stessi, volontaria e non occasionale, è qualcosa che si apprende lavorando su di sé, con fatica e con impegno, e non rappresenta, quindi, uno stato naturale per l’essere umano. La vita ordinaria non richiede necessariamente di essere consapevoli, tant’è che la maggior parte delle nostre azioni e pensieri sono automatici e frutto di meccanismi associativi. Le abitudini che acquisiamo con l’esperienza non richiedono consapevolezza, ma sono come il software di un computer: basta un comando/stimolo esterno per innescare il “programma” che guiderà il nostro comportamento. Per certi versi è vantaggioso che la nostra mente funzioni in questo modo, ma al tempo stesso questa modalità ci rende prigionieri di noi stessi. Quante volte abbiamo desiderato di comportarci in un modo diverso dal solito senza riuscirci: questo significa essere prigionieri di noi stessi.

Migliorare se stessi psicologicamente non è, quindi, strettamente necessario a vivere e si può tranquillamente continuare a farlo senza mai diventare consapevoli di sé. Il desiderio di migliorare se stessi può nascere, dunque, solo da situazioni critiche nella vita che rendono le nostre abitudini non più utili, oppure può sorgere dall’incontro con persone che già sono consapevoli e che ci fanno intravedere altre modalità di vivere la nostra esistenza. In queste circostanze può farsi strada in noi l’esigenza di ricercare un diverso modo di affrontare la vita, fondato su una maggiore conoscenza di noi stessi e su un più consapevole controllo di sé. Si affaccia così l’idea che possiamo far evolvere il nostro essere, rendendolo capace di accorgersi di cosa che fino ad allora non si vedevano affatto.

Migliorarsi vuol dire allora acquisire una nuova visione della propria esistenza e della vita in grado di farci sperimentare un diverso rapporto con noi stessi,  attraverso una maggiore coerenza personale, una più stabile volontà, un più attento controllo dei nostri stati interni. Il percorso per raggiungere tali obiettivi è complesso, difficile e impegnativo perché migliorarsi richiede, in primo luogo, di cambiare se stessi. Questo sforzo, allora, non è per tutti proprio perché deve essere supportato da una motivazione che costantemente deve essere alimentata dal momento che i momenti difficile e i fallimenti sono molti lungo il percorso. Tuttavia, il modo in cui impariamo a sentirci ad ogni passo del percorso può fare la differenza rispetto alla tentazione di ritornare a come si stava prima di iniziare a lavorare su di sé.

Provate allora a chiedervi, con sincerità, se volete migliorarvi, sapendo che questo vuol dire in primis uscire dalla propria zona di confort in cui non si fanno reali sforzi per cambiare se stessi e in cui ci si limita a “parare i colpi” dei momenti difficili e a dare agli altri la responsabilità dei propri malesseri. Per provare, inoltre, a capire il vostro reale desiderio di cambiare fate un piccolo esperimento: per una intera settimana: ogni volta che dovete bere fatelo usando la mano opposta a quella con cui abitualmente prendete il bicchiere. Così se in genere usate la mano destra, in questa settimana servitevi della mano sinistra per afferrare e portare alle labbra il bicchiere da cui bere. Se vi accorgete di averlo fatto con la mano abituale, poggiate il bicchiere sul tavolo e prendetelo con quella sinistra. Un piccolo cambiamento ma che richiede volontà e sforzo. Tutto questo potrà sembrarvi inutile e forse troppo superficiale di fronte a dei cambiamenti ben più importanti che vorreste fare, ma questo esercizio serve solo a testare la vostra disponibilità a cambiare. Alla prossima puntata la spiegazione di questo piccolo esercizio…

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il talento

Il talento e la crescita personale

Il talento è un concetto che indica la presenza di certe qualità in una persona. Tuttavia l’abuso di questa etichetta ha fatto sì che il talento diventasse un comodo alibi sminuendo il valore dell’impegno nel raggiungimento dei propri obiettivi.

“(…) Credere che le cose dipendano da noi anziché dal destino, non è una semplice scelta intellettuale: le credenze, infatti, modellano i comportamenti. Chi è convinto che tutto sia già scritto nelle stelle sarà passivo e immobile: non potrà fare nulla di meglio che vivere aspettando che il destino si compia. A che pro darsi da fare, faticare, scaldarsi? La prospettiva dell’impegno non fa parte dell’orizzonte esistenziale di queste persone. Al contrario, vedere la raggiungibilità di un obiettivo come qualcosa che è in stretta relazione con fattori e stimoli che dipendono soltanto da noi, spinge a impegnarsi. (…)Io ho la netta impressione che esista una pressione culturale fortissima a far credere che a determinarci siano per lo più i fattori esterni. Uno dei sintomi di questa tendenza può essere riscontrato nell’aria di venerazione che circonda da parecchi anni il concetto di «talento», inteso come abilità innata, o come «dono». Si noti che il termine «talento» può assumere parecchie sfumature: può indicare propensione o attitudine verso qualcosa, potenzialità da realizzare. Questo è anche il significato evangelico del termine, nel senso di capitale da mettere a frutto. E in questo senso l’esistenza del talento nella vita degli esseri umani è indubitabile. Tuttavia, nelle pratiche attuali, il termine assume troppo spesso un altro significato, molto più riduttivo: quello di «dono gratuito», di abilità che si possiede compiutamente in modo innato. (…)Oggi, in tutti i campi, le prestazioni di eccellenza – siano esse sportive, aziendali, artistiche o scolastiche – vengono immediatamente collegate al possesso di abilità innate. Cioè, all’avere «talento». L’effetto di questa convinzione sui comportamenti reali è devastante. Tutto pare deciso in anticipo alla lotteria del destino: se uno nasce «poco portato per la musica» oppure per la vendita, per la corsa o le relazioni interpersonali, c’è poco da fare. Ci si rassegna. Con un inconfessabile moto di sollievo. Perché così scansiamo le fatiche che l’impegno comporta. E ci togliamo ogni responsabilità dai piedi. Se c’è una responsabile, questa è Madre Natura che, quanto a «doni», è stata un po’ spilorcia con noi. Et voilà, l’alibi è servito. Pancia all’aria, ci si adagia tranquilli e si può perfino indulgere in un legittimo vittimismo. Capito? Il pensare in termini di avere o non avere il talento determina già di per sé un certo tipo di destino.”

COMMENTO – Quando parliamo di raggiungere i propri obiettivi, in qualunque campo essi siano, è sempre facile cadere nell’errore di pensare che “se per quella cosa si è portati” allora si potrà avere successo. Questo vale nella vita quotidiana di ognuno di noi così come nel caso delle eccellenze, ossia il raggiungimento di mete straordinarie. Se sapessimo che “bisogna essere tagliati” per il successo, ossia avere talento altrimenti tutto è inutile, la nostra passività e tendenza a non impegnarci sarebbero giustificate e noi saremmo liberati da tutti i sensi di colpa per assumere un atteggiamento rinunciatario. Tuttavia, molte ricerche mostrano esattamente il contrario: il talento c’è ed è sicuramente un fattore favorevole al successo, ma il peso dell’impegno è di gran lunga superiore sia per non dissipare il talento sia nel sopperire ad una sua mancanza. Come ricorda Trabucchi: “i vertici dell’eccellenza non si raggiungono grazie al determinismo genetico, ma attraverso un processo volontario: le prestazioni assolute, in qualsiasi campo, da quello artistico agli scacchi, dallo sport alla ricerca scientifica, sono frutto in maniera preponderante dell’esercizio piuttosto che delle capacità innate.” Mettiamo da parte il raggiungimento di livelli eccezionali e straordinari e consideriamo la vita quotidiana di un individuo comune e al posto di ambiziose mete “da campione” mettiamo gli obiettivi che lo possono riguardare ordinariamente. Per esempio, prendiamo un obiettivo che potrebbe riguardare tutte le persone, quello di crescere e migliorarsi. La maggior parte delle persone credono che questo percorso di crescita personale sia ad appannaggio solo per chi “ci è portato”, altri ritengono che tale processo possa avvenire “naturalmente” perché è la vita che ti fa crescere. In realtà, senza uno sforzo e un impegno questa crescita personale non può avvenire ed è assolutamente falso ritenere che questa possibilità non sia per tutti. Se è vero, come ricorda Trabucchi che “senza impegno e dedizione, senza fatica e allenamento, si può essere bravi, ma non si diventa straordinari” è altrettanto vero che senza tale fatica non si può diventare persone migliori. Questa fatica necessaria alla nostra crescita non ha niente a che fare con la “fatica di vivere”, ossia quegli affanni che spesso ci impegnano nel corso dell’esistenza. Lo sforzo necessario deve essere il frutto di un «esercizio intenzionale», ossia di uno impegno consapevole a crescere e a migliorare il nostro essere.

Pietro Trabucchi, “Tecniche di resistenza interiore”, Mondadori

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il processo di individuazione

Il processo di individuazione per Jung

Il processo di individuazione è funzionale alla persona perché grazie ad esso diventa realmente un individuo, con una propria personalità. In altri termini, il processo di individuazione si struttura come un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi.

“Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”Il processo di individuazione nel suo insieme è propriamente un decorso spontaneo, naturale e autonomo, potenzialmente presente in ogni individuo, anche se questi generalmente ne è inconscio. Esso costituisce, quale “processo di maturazione o evolutivo”, se non è ostacolato, inibito o nascosto da particolari disturbi, il parallelo psichico del processo di crescita e di invecchiamento del corpo. ln determinate circostanze, come ad esempio nel lavoro psicoterapeutico, esso può essere con vari metodi stimolato, intensificato, reso cosciente, vissuto coscientemente ed elaborato, e aiutare la persona a raggiungere una maggiore “completezza”, un “arrotondamento” della sua essenza. (…) Esso si costituisce di due grandi periodi che presentano segni opposti e che si condizionano e integrano reciprocamente: quello della prima metà della vita e quello della seconda. Se il compito del primo periodo è l’ “iniziazione nella realtà esterna” che si conclude con la solida conformazione dell’Io, la differenziazione della funzione principale e anche lo sviluppo di una Persona corrispondente, dunque ha per scopo un adattamento e inserimento dell’individuo nel suo ambiente, il secondo conduce a una “iniziazione nella realtà interiore”, a una profonda conoscenza di sé e degli uomini (…).Jung ha dedicato la sua attenzione e i suoi sforzi soprattutto a questo secondo periodo, offrendo così la possibilità all’uomo che si trova a metà della vita di allargare la sua personalità, che può anche essere una preparazione alla morte. Quando egli parla di processo di individuazione intende per lo più appunto questo secondo periodo.”

COMMENTO – Il processo di individuazione è un percorso di progressiva capacità da parte dell’individuo di essere sempre più se stesso, esprimendo le proprie caratteristiche e divenendo così un Essere distinto e separato dalla collettività in cui vive. Al tempo stesso l’individuazione di sé non pone la persona contro o al di fuori dalle norme collettive; il processo di individuazione non si realizza contro qualcosa ma attraverso il riconoscimento della nostra più pura interiorità. Come individui fin dalla nascita siamo raggiunti da un enorme numero di richieste, impressioni dall’esterno che, per via dei processi di adattamento e di educazione, facciamo nostri. Se da una parte tutte queste influenze contribuiscono a formare ciò che noi siamo, dall’altra per le esigenze della vita quotidiana ci spingono a conformarci alla collettività in cui viviamo. Così nel tempo perdiamo il contatto con ciò che realmente noi siamo e finiamo per ritenere di essere la nostra esteriorità. La possibilità di recuperare un rapporto con la nostra interiorità, conscia o inconscia, ci può mettere in grado di riscoprire noi stessi e di ascoltare e realizzare ciò che noi siamo. In questo consiste il processo di individuazione, nel percepire e valorizzare la nostra unicità nelle scelte che compiamo e nei pensieri che facciamo.

Chiaramente come sottolinea Jung  “la piena realizzazione della totalità del nostro essere, è un ideale irraggiungibile. Ma l’irraggiungibilità non è mai una ragione che militi contro un ideale; perché gli ideali non sono che indicatori della via da percorrere, e mai mete finali.” Questo per sottolineare come il processo di individuazione sia un percorso difficile (è molto più facile conformarsi acriticamente), la cui durata è pari alla vita di un individuo e giammai completo. Ma non per questo dobbiamo desistere dall’impegnarci in esso. Una delle difficoltà che segnala Jung a proposito è il prezzo che esso richiede, individuabile in una certa dose di isolamento: “la sua prima conseguenza è la consapevole e inevitabile separazione del singolo dall’indistinguibilità e inconsapevolezza del gregge.” Sentirsi individui vuol dire a volte avvertire il senso della propria solitudine. Un esempio di ciò potrebbe essere la consapevolezza di sapere che le risposte importanti che cerchiamo per la nostra esistenza non si trovano già pronte in ciò che la società suggerisce ma vanno cercate in noi stessi per essere valide individualmente. Avere la forza di fare ciò vuol dire essere fedeli a se stessi.

Il contatto con la propria interiorità che il processo di individuazione chiede, comporta la piena accettazione di tutti gli aspetti psicologici che ci appartengono e solo questo riconoscimento di noi stessi può permetterci di trovare il nostro giusto posto nella collettività. Come sottolinea Jolande Jacobi: “studio e realizzazione di sé stessi sono perciò (o dovrebbero essere) la premessa indispensabile per l’assunzione di doveri superiori, non fosse altro che di quello di realizzare il senso della vita individuale nella forma migliore e nella massima possibile ampiezza”. “ Infine, una ultima precisazione: il processo di individuazione non significa individualismo ed egocentrico perché grazie ad esso l’individuo non diventa “egoista” ma apprende solo a conoscere ciò che realmente è contribuendo così a costruire la propria identità

Jolande Jacobi, “La psicologia di Carl Gustav Jung”, Bollati Boringhieri

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la resilienza

La resilienza ovvero la forza contro le avversità

La resilienza è una capacità psicologica di affrontare gli ostacoli grandi o piccoli che la vita inevitabilmente ci pone. È una competenza cognitiva che si può sviluppare e potenziare a patto che ciascuno di noi abbia la volontà di farlo senza abbandonarsi a vittimismi deresponsabilizzanti o a soluzioni arrendevoli.

“A quanto pare, chi, di fronte a eventi stressanti, chiede un aiuto terapeutico o manifesta gravi forme di disagio rappresenta l’anomalia, non la regola. La regola, per gli esseri umani, è rappresentata dalla resilienza. Il termine «resilienza» proviene dalla metallurgia: indica, nella tecnologia metallurgica, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità. Così anche in campo psicologico: la persona resiliente è l’opposto di una facilmente vulnerabile. (…) Desidero però dare fin d’ora la mia definizione personale di resilienza: la resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Il verbo «persistere» indica l’idea di una motivazione che rimane salda. Di fatto l’individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e tende a «leggere» gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull’ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un’opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e frustrazioni è capace di non perdere comunque la speranza. (…) La buona notizia iniziale («siamo progettati per affrontare problemi e difficoltà») non è sola. Ce n’è un’altra: la resilienza può essere potenziata, possiamo imparare a migliorarla. Anche se venendo al mondo siamo già in possesso di una dotazione di base in termini di resilienza, possiamo accrescerla. Diventare psicologicamente più resistenti è possibile. Si può imparare a gestire lo stress. Generalmente non c’è molta consapevolezza di queste possibilità. In parte lo si deve a ragioni esterne a noi stessi. Per esempio è senz’altro più redditizio per la fiorente industria degli antidepressivi puntare sugli effetti delle molecole che ci «aiutano» ad affrontare la vita, piuttosto che favorire lo sviluppo della resilienza nelle persone. Ma non è soltanto, come al solito, colpa dell’«esterno», della società o delle «cattive lobby industriali». Fa comodo anche a noi condividere una visione di noi stessi deboli e inermi sotto i colpi della vita; perché questo ci permette di non impegnarci a fondo, di non prenderci fino in fondo tutte le responsabilità. E, alla fine, ci consente pure di lamentarci.”

COMMENTO – Nel nostro piccolo siamo tutti un po’ resilienti e lo possiamo verificare notando come nella nostra vita, chi più chi meno, siamo stati capaci di apprendere dalle le avversità incontrate durante il percorso e di superarle senza soccombere ad esse. Spesso lo abbiamo fatto senza sapere di starlo facendo. Quindi, tale capacità ci è sconosciuta e, ignorando di utilizzarla, non possiamo farla diventare uno strumento per la nostra esistenza. Molto più spesso, tuttavia, davanti alle difficoltà tendiamo ad autocommiserarci e questo è il frutto di alcune caratteristiche che hanno gli individui nella nostra cultura: siamo egocentrici, auto-indulgenti, tendenti all’auto-commiserazione e, soprattutto, avvezzi ad un consumismo che ci ha tolto l’abitudine allo sforzo e alla fatica. Allora proviamo a riflettere e a chiederci come ci comportiamo davanti ad una difficoltò, e ad osservare quali strategie usiamo. È chiaro che ogni difficoltà e ogni problema generano uno stress ma il punto è porre l’attenzione su quanto forte sia tale stress. Il senso comune tende ad attribuire ad ogni evento stressante un valore stabile per ogni individuo, trascurando in realtà un elemento molto importante: la sensibilità individuale ossia il modo in cui facciamo entrare l’evento problematico nella nostra mente. Proprio quest’ultima frase mette in crisi un’altra credenza comune riguardante lo stress e le reazioni ad esso: in genere si crede che sia la difficoltà ad “impattare” sulla nostra mente e non il contrario ossia che è la nostra mente a fare proprio l’evento stressante. Questa prospettiva apre ad un’altra visione di come dovrebbero essere affrontate le difficoltà. Come ricorda Trabucchi: “anche se è comodo credere il contrario, la sensibilità allo stress è in gran parte prodotta da noi stessi: essa dipende da come interpretiamo gli eventi. E da quanto ci pensiamo «forti»: cioè in grado di fare fronte a quel determinato problema. Per farla breve, la sensibilità allo stress dipende strettamente da quella che gli psicologi chiamano «valutazione cognitiva».”

Valutare cognitivamente qualcosa cambia completamente il suo valore in base a chi compie la valutazione. I fatti del mondo esistono oggettivamente ma quello che conta è il modo in cui li “viviamo” e li “costruiamo” e il modo in cui interpretiamo i fatti ha conseguenze concrete sul modo in cui reagiremo ad essi. Così, sottolinea Trabucchi, per comprende appieno il peso di questa valutazione cognitiva nel generare la resilienza, dobbiamo mettere da parte il vecchio modello intuitivo di stress per cui un dato evento produce lo stesso stress in ogni individuo e che vede le persone come bersagli passivi. “Se gli stressor fossero qualcosa di oggettivo, un certo evento negativo «X» produrrebbe un quantitativo «Y» di stress uguale in tutti gli individui. Sappiamo bene che le cose non stanno così. Ci sono persone che vengono distrutte da piccoli contrattempi mentre altri individui sopravvivono egregiamente a catastrofi planetarie.” Abbracciare questo modo di rapportarci alle difficoltà è sicuramente scomodo perché rimette alla nostra responsabilità la reazione che manifestiamo ai problemi della vita dal momento che non sono gli eventi in sé a generare lo stress ma il modo in cui «leggiamo» le criticità. Ragionare in questo modo non vuol dire negare o minimizzare le difficoltà ma sottolinea che il modo di affrontarle dipende da noi e non dai problemi. Da questa valutazione cognitiva nascono poi gli atteggiamenti, i comportamenti e le strategie che adotteremo per affrontare le difficoltà. Come ricorda Trabucchi: “lo stesso evento, a seconda del modo in cui «decidiamo» di vederlo, porterà a stati d’animo, reazioni fisiche e comportamenti del tutto diversi. In fondo, si tratta pur sempre del vecchissimo e arcinoto principio del bicchiere: posso scegliere di vederlo come mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda delle mie inclinazioni personali e del mio stato d’animo. In ogni caso, qualsiasi cosa scelga, mezzo vuoto o mezzo pieno, alla fine si tratta dello stesso bicchiere. Ma il pessimista tende a concentrarsi sul vuoto e sulle emozioni relative”

Pietro Trabucchi, “Resisto dunque sono”, Corbaccio

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indipendenza

Indipendenza ovvero la libertà nell’amore

Indipendenza e libertà nell’amore sono tematiche che aprono a paradossi e contraddizioni. La libertà di chi amiamo è così fortemente auspicata quando desideriamo sentirci amati per libera scelta e non per costrizione. Ma al tempo stesso essa è temuta perché potenzialmente rappresenta un fattore di rischio per la stabilità e la continuità del rapporto. È possibile, invece, pensare all’amore in termini di indipendenza? Amore e indipendenza sono due termini in contraddizione tra loro o rappresentano l’uno il presupposto dell’altro?

“L’amante vorrebbe che la fedeltà assoluta dell’amato non fosse l’effetto di una prigionia; vorrebbe che questa fedeltà fosse il risultato di una scelta libera che sapesse rinnovare costantemente la promessa. Il sogno di ogni amante è custodito in questo desiderio paradossale: possedere l’Altro, ma solo in quanto libero. Ma come si può impossessarsi dell’Altro senza porre fine alla sua libertà? Come può esistere qualcosa come una “libertà prigioniera”? Il punto è che proprio perché non può esistere qualcosa come una libertà prigioniera ogni amore è esposto al rischio della fine. (…)L’amante non domanda semplicemente il corpo sessuale dell’amata; l’amore non è infatti riducibile al desiderio feticistico del “pezzo” di corpo dell’Altro. L’erotismo dell’amore attraversa il corpo, ma non si esaurisce mai tutto nel corpo. Piuttosto inonda il mondo. L’amore apre sempre un nuovo mondo e questa apertura, in cui consiste la verità dell’amore, rifonda l’esistenza, la fa nascere, per così dire, un’altra volta. In questo senso la domanda d’amore implica sempre, e insieme trascende sempre, il godimento del corpo. Essa domanda il segno del desiderio dell’Altro-, l’amante non desidera “qualcosa” dell’Altro (…) ma desidera essere desiderato dall’Altro, desidera essere il desiderio desiderato dall’Altro, desidera il segno di essere la causa della mancanza dell’Altro. (…) Vuole che l’amata sia liberamente sua. Non vuole che l’amata sia una sua prigioniera – l’amore non è effetto di una costrizione -, non può sopportare di ridurre il soggetto amato a uno strumento del suo godimento. Il disegno dell’amante è più intricato e, come abbiamo visto, paradossale: vuole raggiungere il cuore dell’Altro, la sua libertà, vuole che questa libertà – la libertà dell’amato – sia totalmente sua. Vuole l’amata, allo stesso tempo, libera e prigioniera.”

COMMENTO – Tema scottante quello della libertà nell’amore perché apparentemente basato su un paradosso: quello tra possesso della persona amata e la libertà della medesima. U tema questo che diventa ancora più difficile alla luce dei numerosi episodi di violenza degli uomini verso le donne, consumati sempre all’interno di presunte relazioni d’amore. Il discorso di Recalcati trascende però tali questioni di attualità per delineare una riflessione più generale sulla struttura dell’amore valida per uomini e donne. L’amore nella sua forma più basilare viene vissuto come possesso della persona amata. Tuttavia, al tempo stesso, si desidera che la persona amata ci ami per sua libera scelta. Che amore sarebbe se questo fosse il frutto di una imposizione. Eppure noi vogliamo che il/la nostra/o partner ci ami. È qui che, come sottolinea Recalcati, si pone il paradosso: vogliamo (almeno negli intenti) che la persona amata sia libera ma desideriamo che questa libertà sia nostra, ossia che la scelta d’amare sia fatta su di noi. Il paradosso di ogni amore, la sua contraddizione intrinseca è in questa “libertà prigioniera” che si concretizza nel pensare ad una libertà di scegliere sempre e comunque noi. Ed è in questo aspetto che si cela il presupposto della violenza che può, in casi particolari, esplodere in azioni violente finanche l’uccisione della “persona amata” come estremo atto di possesso. Sicuramente a questa forma “primitiva” dell’amore se ne contrappone una matura in cui l’amore non è qualcosa che si attende dalla persona che amiamo ma un dono che facciamo all’altro. Un amore, come notava Erich Fromm, che si fonda sul dono verso l’altro con il desiderio non del possesso ma del bene dell’altro. L’amore diventa allora una scelta che richiede sacrificio e che si fonda sull’evoluzione del proprio Io. In particolare lo sviluppo di una sana indipendenza, capace di portarci fuori da meccanismi infantili di dipendenza dall’altro, fa sì che l’amore non si fondi sul bisogno del/della partner. Indipendenza allora come prerequisito, secondo Fromm, per sviluppare una vera arte d’amara in cui l’altro/a non rappresentano la “stampella” per la nostra individualità ma un’occasione di incontro e di crescita.

Massimo Recalcati, Niente è più come prima, Raffaello Cortina Editore

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la concentrazione

La concentrazione come attenzione a se stessi

La concentrazione è un’attenzione posta nel presente su qualcosa. Essa lo strumento principale per riuscire veramente ad entrare in contatto con una situazione o con un’altra persona e per conoscerla veramente. Erich Fromm ci spiega come la concentrazione rivolta a se stessi sia un efficace strumento per apprendere l’arte di vivere con consapevolezza oltre che per apprendere realmente a conoscere ciò che noi siamo.

“Concentrarsi significa vivere pienamente del presente, del momento attuale, senza pensare al prossimo impegno. (…) L’inizio della pratica della concentrazione è difficile, sembra di non riuscire mai a raggiungere lo scopo. In realtà ci vuole una grande pazienza. Se non si sa che ogni cosa dev’essere fatta a suo tempo, e si vogliono bruciare le tappe, allora non si riuscirà mai a concentrarsi veramente, nemmeno nell’arte d’amare. Per avere un’idea di cosa sia la pazienza, basti guardare un bambino che impara a camminare. Cade, si rialza, poi torna a cadere; eppure continua a provare e a riprovare, finché un giorno camminerà senza cadere. Che cosa non potrebbe raggiungere la persona adulta, se avesse la pazienza del bambino e la sua forza di volontà nel conquistare ciò che per lei è così importante? Non si può imparare a concentrarsi senza diventare sensibili con se stessi. Che cosa significa, ciò? Si dovrebbe forse pensare a se stessi tutto il tempo, “analizzarsi”? Se parlassimo di essere sensibili a una macchina, sarebbe facile spiegare ciò che s’intende. Chiunque guidi una macchina è sensibile ad essa. Rileva perfino il più piccolo, insignificante rumore, il minimo guasto. Nello stesso modo, il guidatore è sensibile ai cambiamenti del terreno, ai movimenti delle macchine davanti e dietro a lui. Eppure, non pensa a tutti questi fattori; la sua mente è in uno stato di rilassata vigilanza, aperta a tutti i cambiamenti rilevanti della situazione in cui è concentrata; quella di guidare con sicurezza l’automobile. Se consideriamo la questione della sensibilità verso un altro essere umano, troviamo l’esempio più ovvio nella sensibilità e nella responsabilità della madre nei riguardi del suo bambino. Ella nota certi cambiamenti fisici o d’umore, ancor prima che siano espressi. Si sveglia per il pianto del bambino, mentre un altro rumore, molto più forte, non la sveglierebbe. Tutto ciò significa che è sensibile alle manifestazioni di vita del suo bambino; non è né ansiosa né preoccupata, ma in stato di vigile equilibrio ricettivo ad ogni significativa comunicazione proveniente dal bambino. Nello stesso modo si potrebbe essere sensibili verso se stessi. Si è consci, per esempio, di un senso di stanchezza o depressione, ed invece di lasciarvisi andare, sopportandolo con pensieri deprimenti che sono sempre pronti, ci si chiede: “Che cos’è successo? Perché sono depresso?” Si fa lo stesso quando si nota se si è irritati o offesi, oppure se si ha la tendenza a sognare ad occhi aperti, o a indulgere ad altre attività di  “evasione”. In ognuno di questi casi, la cosa più importante è rendersene conto, senza lasciarsi andare; inoltre, ascoltare la nostra voce più intima, che ci dirà spesso quasi immediatamente – perché siamo ansiosi, depressi, irritati.”

COMMENTO – La concentrazione è un’arte complicata da praticarsi nella nostra società dato che ogni cosa sembra remarvi contro. La velocità, l’esposizione continua a stimolazioni multiple, la richiesta di passare l’attenzione da una cosa all’altra, sono tutte situazioni contrarie alla concentrazione. Il primo consiglio che ci offre Erich Fromm per sviluppare la concentrazione è quello di apprendere a star soli senza impegnarsi in attività che richiedono attenzione e che ci portano lontano da noi stessi. Proviamo a stare senza leggere, guardare la TV o mangiare snack o bere. In questo modo riusciremo a fare esperienza di cosa voglia realmente dire “stare soli con se stessi”. La nostra attenzione verrebbe portata solo su di noi, riusciremmo a “guardarci” e ad avere una piena sensazione di esserci. Ma come nota Fromm: “chiunque tenti di stare solo con se stesso scoprirà quanto difficile sia. Comincerà a sentirsi irrequieto, nervoso, a provare un’ansia incontenibile. Si accorgerà di non poter andare avanti in questa pratica, convinto di non valer niente, di essere sciocco, che ci vuole troppo tempo, e così via. Si accorgerà pure che ogni sorta di pensieri gli verrà in mente, cercando d’impadronirsi di lui.” Così oltre a possibili sensazioni di disagio inizieremmo a pensare qualunque cosa per tenere occupata la mente anziché consentirle di svuotarsi. Per aiutarci potrebbe essere utile mettere in pratica piccoli esercizi per rilassarci: sedere in una posizione comoda, chiudere gli occhi per evitare stimoli distraenti, ridurre i rumori che potrebbero attirare la nostra attenzione. A questo punto proviamo a seguire il nostro respiro senza pensarci o sforzandolo ma semplicemente assecondando il suo normale ritmo e sentirlo. In questo modo la concentrazione sarebbe totalmente su di noi e potremmo sperimentare la piena sensazione di noi stessi. Tuttavia, oltre a portare la concentrazione su se stessi, è un utile esercizio imparare a puntarla su ciò che facciamo, per esempio mentre ascoltiamo la musica, leggiamo un libro o conversiamo con qualcuno. Anche in questo caso Fromm ci fornisce una utile osservazione: “l’attività, in quel preciso momento, dev’essere la sola cosa che conti, alla quale darsi completamente.”

Questi semplici esercizi possono aiutarci ad aumentare la sensibilità verso noi stessi, ad ascoltarci e ad osservarci. In genere questo tipo di concentrazione la pratichiamo facilmente quando abbiamo a che fare con la nostra corporeità. Siamo abili a percepire i cambiamenti nel nostro fisico, i dolori che possiamo provare. Come già detto questa sensibilità fisica è abbastanza facile da osservarsi nelle persone. Al contrario è molto più difficile riscontrarla quando la concentrazione ha come oggetto la nostra psiche sia per la sua immaterialità sia perché molte persone non hanno idea di cosa voglia dire funzionare mentalmente bene.

Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori

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la psicoterapia

La psicoterapia cosa aiuta a fare

La psicoterapia è un processo estremamente concreto che può fornire un aiuto a vivere sentendoci in contatto con noi stessi nella complessità della società attuale. Essa non è quindi la panacea in grado di risolvere tutti i nostri mali e di portarci ad una condizione di beatitudine. La psicoterapia è, come suggerisce Alexander Lowen, un modo per ricomporre il puzzle della nostra vita per ritrovare noi stessi proiettandoci verso il futuro.

“Nel processo terapeutico giriamo senza fine intorno al ciclo della vita dell’individuo, dal passato al presente e di nuovo al passato. Ogni circuito svela i ricordi del paziente e i suoi sentimenti su persone e avvenimenti del suo passato e li collega al comportamento e alla situazione attuale. Quando si completa un circuito, il risultato è una maggiore consapevolezza delle sensazioni più profonde e un livello di energia più alto e si è pronti a intraprendere un altro circuito con più energia e con una consapevolezza maggiore. Questi cerchi che si allargano gradatamente rappresentano la crescita della personalità attraverso l’espansione dell’essere. Ma il processo non termina mai: è impossibile analizzare tutti i problemi o risolvere tutte le tensioni. Le ferite provocate dai traumi della nostra vita possono guarire, ma le cicatrici rimangono. Non possiamo ritornare al nostro stato originario di innocenza. Ci sarà sempre qualche limitazione al nostro essere. L’essere umano è un animale imperfetto e un dio inferiore. (… )C’è un altro modo di considerare il processo terapeutico – come se fosse un tentativo di risolvere un puzzle. Noi terapeuti cerchiamo di aiutare il paziente a dare senso alla sua vita e a vederla nel suo insieme. Ho detto prima che la terapia è un viaggio alla scoperta di sé. Come in un puzzle, all’inizio non abbiamo tutti i pezzi, ma, con il progresso della terapia, vengono alla luce ricordi sempre più numerosi. Ogni volta che una parte di informazione si adatta e si congiunge ai pezzi vicini, l ‘immagine diventa più chiara, e il paziente riesce a vedere più profondamente dentro di sé; comincia a conoscersi. Anche se il puzzle non è mai completamente concluso, l’immagine diventa più chiara e la terapia progredisce.”

COMMENTO – La psicoterapia aiuta le persone che vi si rivolgono. Questo è un dato di fatto accertato da molti studi. Ma qual è, con onestà, il tipo di sostegno che la psicoterapia riesce a dare. Alexander Lowe psicoterapeuta e fondatore dell’approccio bioenergetico, prova a rispondere a tale quesito con la solita “concretezza” e lucidità che contraddistingue il suo pensiero. Quando si dice che dovrebbe fornire un aiuto concreto vuol dire che essa non porterà la persona né in paradiso, né la innalzerà ad uno stato di trascendenza; tantomeno libera gli individui da ogni forma di rimozione o inibizione. Come sostiene Alexander Lowen: “la terapia non è una panacea per le malattie umane ; non è la risposta al dilemma umano.” Bisogna partire dalla semplice constatazione che al giorno d’oggi gran parte della gente ha un gran bisogno di un aiuto per vivere la propria esistenza con un minimo di facilità e di piacere. Questa situazione è la diretta conseguenza del modo in cui è strutturata la cultura attuale: più una società diventa industrializzata e complessa, più problematiche diventano le condizioni di vita delle persone al suo interno. Inoltre, nel momento in cui per aspetti di sviluppo della cultura stessa, vengono a indebolirsi quei processi educativi e di supporto sociale tipici di società meno complesse ma più “umanizzate”, accade che gli individui abbiamo sempre più la necessità di un aiuto per affrontare la vita. Come giustamente nota Lowen: !a psicoterapia è un complemento necessario alla vita moderna, come, sembra, lo sono i sedativi e i tranquillanti. È un segno del “progresso.” Tale situazione pone degli evidenti limiti alla psicoterapia dal momento che essa deriva dalla stessa cultura che genera le problematiche che essa dovrebbe risolvere. Così, senza troppe illusioni la psicoterapia deve porsi l’obiettivo di favorire nelle persone l’adattamento alla propria cultura anche se questa presenta molte contraddizioni e aspetti disfunzionali. Le deve mettere nella condizione di poter vivere e lavorare all’interno di questo sistema con un atteggiamento critico ma mai tendente all’estraniamento. Secondo Lowen, infatti, “isolare una persona dalla sua cultura o dirigerla contro di essa, può essere più distruttivo. Noi, pertanto, cerchiamo di aiutare una persona a ridurre la tensione della sua vita all’interno di una situazione culturale che la sottopone giornalmente a una tensione analoga.” Come fare tutto ciò senza creare degli individui automi, ovvero perfettamente integrati e senza anima? La risposta sta tutta nel favorire nelle persone il riconoscimento dei propri vissuti, pensieri ed emozioni spesso rinnegati e repressi che, continuando a esistere nel proprio inconscio come forze dissociate ed estranee, finiscono per creare disagio e sofferenza. In questo modo la psicoterapia non crea degli individui robot acriticamente integrati: la nostra società, infatti, spesso ci impone di rinunciare e di non riconoscere aspetti di noi che la cultura giudica sbagliati o sconvenienti. Tramite i processi educativi ci insegna a rigettare da noi queste parti al punto tale che molte persone perdono qualunque contatto con esse, finendo per vivere in maniera distante da se stesse. La psicoterapia, allora, punta al loro recupero, favorendo negli individui il contatto e il reintegro di queste parti al fine di permettere loro di essere un po’ più se stessi.

Alexander Lowen, Paura di vivere, Astrolabio

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valutazione personale

Valutazione personale: tra autostima e autoefficacia

La valutazione personale ovvero ciò che ognuno di noi pensa di sé in termini di valore è un concetto complesso in cui vengono a confluire diversi aspetti. Tra questi possiamo individuare due variabili spesso confuse tra loro: l’autostima e il senso di autoefficacia. Ogni persona usa entrambe tale dimensioni quando, implicitamente o esplicitamente, valuta se stessa facendo riferimento a questioni diverse della propria individualità.

“Il senso di autoefficacia riguarda giudizi di capacità personale mentre l’autostima riguarda giudizi di valore personale. Non c’è una relazione definita fra le convinzioni circa le proprie capacità e il fatto di piacersi o non piacersi. Una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo patire una qualsiasi perdita di autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale. Il fatto che io mi riconosca completamente inefficace nel ballo non mi procura crisi ricorrenti di autosvalutazione. Viceversa, ci si può sentire molto efficaci in una data attività senza per questo gloriarsi delle proprie prestazioni. È difficile che un addetto all’esecuzione degli sfratti si senta glorioso quando allontana abilmente una famiglia in disgrazia dalla sua abitazione. (…) Per riuscire bene in qualcosa ci vuole molto di più che una buona autostima. Molte persone di successo sono dure con se stesse perché adottano standard difficili d raggiungere; altre possono godere di una buona autostima perché non pretendono molto da sé o perché tale autostima deriva da fonti diverse dai risultati personali. Così, il fatto di piacersi non è necessariamente causa di buone prestazioni: queste ultime sono il prodotto di impegno e autodisciplina. Per mobilitare e mantenere l’impegno necessario a riuscire, ci vuole un saldo senso di autoefficacia. Pertanto, in una certa attività, il senso di efficacia personale consente di prevedere quali obiettivi vengono scelti e la qualità della prestazione, mentre l’autostima non ha un effetto su queste variabili.”

COMMENTO – Come sottolinea Albert Bandura quando un individuo dà una valutazione personale positiva o negativa è sempre bene specificare a quale ambito della propria esistenza sta facendo riferimento nel formularla. La valutazione personale rispetto al valore che attribuiamo a noi stessi è definita autostima, mentre la valutazione personale rispetto al proprio successo viene definita autoefficacia. Spesso questi due aspetti possono essere correlati fra loro ma, come specifica Bandura, possono anche essere disgiunti nella considerazione di sé che fa un individuo. In via più generale, si potrebbe dire che la valutazione personale nell’accezione più ampia può essere definita come autostima e che il senso di autoefficacia è un aspetto particolare di quest’ultima. L’autostima è un concetto che riguarda una serie di convinzioni che abbiamo di noi stessi; d’altra parte l’autoefficacia è inerente alla percezione delle abilità personali e delle competenze possedute, rientrando così nella sfera del fare. L’autostima, invece, ha per lo più delle basi emotive, riferite ad una valutazione personale più legata alla sfera dell’essere. L’autoefficacia, secondo Bandura, si accompagna alla consapevolezza che serve a farci comprendere il modo in cui possiamo dominare/affrontare specifiche attività, situazioni quotidiane o straordinarie esterne a noi e anche intrapsichiche (come affrontare un dolore, la rabbia, etc.)

Albert Bandura, Autoefficacia, Erickson

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tormento

Il tormento dell’individuazione

Il tormento dell’individuazione sono quelli causati dal senso di colpa che si accompagna sempre, secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung, al processo di individuazione. Sia che assecondiamo la nostra personale realizzazione sia che veniamo meno ad essa, il tormento del senso di colpa rimane un sottofondo che attraversa la nostra esistenza…

“Quando parliamo di individuazione, parliamo di qualcosa che ha a che fare con la pienezza di sé: dunque, di qualcosa che va al di là di ogni traguardo sociale, di ogni dovere morale. Di ogni desiderio, proposito, volontà. Non c’è bisogno allora di addentrarsi più di tanto nel tema per comprendere quale scacco possa rappresentare per un’intera esistenza mancare la propria individuazione. (…) Detto altrimenti, mancare il compito fondamentale è la colpa più grande che potremmo commettere verso noi stessi e, di conseguenza, verso il mondo. Davanti al tribunale della natura, sosteneva ancora Jung, non giungere a comprendere chi siamo, e ancora più non diventarlo. non è mai giustificabile. Nella maggior parte di questi casi, succede che alla fine ci si accorge di essere diventati qualcun altro: abbiamo preso un modello, un esempio, l’abbiamo preso per attrazione, oppure per invidia, ne abbiamo peraltro tratto dei vantaggi. Noi stessi ce ne siamo vantati. Insomma, abbiamo preso una vita in prestito che, prima o poi, saremo chiamati a restituire. In vicende come queste, non c’è beneficio che potremmo aver tratto, capace di far tacere il senso di colpa, che prima o poi si farà sentire. (…) Se al contrario daremo credito all’appello interiore, e ci disporremo a interrogarci sulla nostra individuazione, se eviteremo la finzione, l’imitazione, la maschera, e ogni altro travestimento, ebbene sperimenteremo da subito quanto tutto ciò ci esponga inevitabilmente proprio al sentimento di colpa. Ogni passo verso la comprensione di noi stessi, e ancor più verso il nostro compimento, ogni tappa di questo percorso, ogni gradino di questa scala comporteranno infatti, inevitabilmente, quasi fosse una maledizione, di dover compiere qualche “peccato”. Ci sarà sempre qualcuno che, non volendo noi sacrificare nulla della nostra verità, finiremo per deludere, o per offendere, per tradire o per ferire, per abbandonare o per umiliare. L’individuazione è dunque una brutta storia, perché da qualunque parte la si prenda ha nel sentimento di colpa la sua “segreta simmetria”. Sospinti dall’appello individuativo, chi non faremo patire? A chi non procureremo un piccolo o grande dolore?

COMMENTO: Il tormento psicologico generato dal senso di colpa è un vissuto che si presenta inevitabilmente ogni volta che ci separiamo da qualcosa venendo meno ad aspettative, sensi di appartenenza, comodi modelli preformati, per seguire la strada del proprio sviluppo. Quando scegliamo di realizzare noi stessi, il tormento del senso di colpa è un prezzo da pagare  richiesto a ognuno di noi per portare avanti il processo di individuazione. Del resto è impossibile sfuggire da questo tipo di sofferenza perché il tormento del senso di colpa lo sperimenteremmo comunque, anche se cercassimo di sfuggire e di bloccare il nostro processo di individuazione. Infatti, anche la rinuncia a se stessi viene pagata con un caro prezzo, anch’esso rappresentato dal tormento di non avere avuto il coraggio di vivere la nostra vita, costruendola secondo le nostre aspirazioni e desideri. Come ricordano Quaglino e Roma: “Dunque, dovremmo dire, la colpa è un sentimento dal quale non potremo mai separarci, anzi, si potrebbe ora aggiungere, non dovremmo mai separarci. Tutte le psicologie che includono, tra le molte cose da cui vogliono salvarci, liberarci, riscattarci, anche il senso di colpa non fanno così realmente il nostro interesse. Semmai, il loro. Si mettono il cuore in pace, illudendosi di averci risanato da questo “disturbo”, illudendoci (illudendosi) di averci messo in salvo da questo ospite indesiderato.” In questa luce il tormento del senso di colpa non è da considerarsi come una punizione e, quindi, come qualcosa di cui sbarazzarsi, bensì come qualcosa che ci istruisce rispetto al percorso che stiamo per la nostra vita

Quaglino G.P., Romano A., “Nel giardino di Jung. Raffaello Cortina Editore

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