la volontà

La volontà e la trappola dei doveri

Non sempre la volontà è un utile strumento per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati, soprattutto quando gli sforzi che stiamo compiendo non sono a favore di mete che realmente sono nostre ma che ci vengono da influenze esterne che abbiamo inconsapevolmente assimilato…

“Le profonde influenze del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro hanno ripetutamente dimostrato di condizionare le nostre azioni, le nostre scelte, le nostre simpatie e antipatie. A nostra insaputa. La vita è fatta di dissolvenze: le esperienze si trasmettono da una situazione all’altra e influiscono su di noi in un secondo tempo, senza che ce ne rendiamo conto. Imitiamo e copiamo spontaneamente ciò che fanno gli altri e «ci prendiamo» -come se fossero un comune raffreddore – le loro emozioni e i loro comportamenti, addirittura fumiamo e beviamo di più se vediamo qualcuno che lo fa alla televisione. Gli obiettivi e i bisogni del momento influenzano i nostri giudizi favorevoli o sfavorevoli verso le cose e le persone, verso ciò a cui prestiamo attenzione e che poi ricorderemo, e influiscono su quante e quali cose compreremo nei negozi. Siamo arcisicuri di poter giudicare una persona solo dal suo volto, ma non è così. Sono numerosissime le influenze inconsce che agiscono sotto la superficie: come facciamo a controllarle? Siamo alla loro completa mercé?”

COMMENTO – Lo psicologo John Bargh ci porta a considerare quanto siamo individui liberi di compiere le nostre scelte e soprattutto a rivalutare il ruolo della volontà nel dirigere il nostro comportamento. Partendo dalla considerazione che siamo soggetti a molteplici influenze esterne che spesso si depositano a nostra insaputa nella parte inconscia della nostra mente, cosa possiamo fare per gestire al meglio la nostra esistenza evitando di opprimerla con sforzi compiuti solo dalla nostra mente cosciente. Questa, infatti, è spesso guidata da pensieri, gusti, idee non propriamente nostre ma che agiscono a nostra insaputa condizionando il nostro comportamento. Allora per non diventare i tiranni di noi stessi dobbiamo imparare alcuni piccoli trucchi per gestire la nostra vita in maniera più “leggera”.

La prima mossa da fare come suggerisce John Bargh è quello di ammettere con noi stessi che per quanto il pensiero cosciente sia importante, esso non è così onnipotente come si possa credere. Non possiamo controllare tutte le influenze e i condizionamenti, quindi, non possiamo avere il pieno controllo cosciente sulle cose della nostra vita. il secondo passo è, conseguentemente, riconoscere che la nostra volontà nelle sue manifestazioni (del tipo “voglio fare quella cosa”, oppure “voglio raggiungere quel traguardo”) non è pienamente libera, ossia controllata dalla nostra coscienza. Molto spesso i nostri “voglio questo” sono influenzati dalle tendenze inconsce frutto dei condizionamenti esterni. Iniziamo a renderci conto che a volte non possiamo raggiungere tutto ciò che desideriamo (e che spesso si tramuta in “devo fare questo o quello”) tramite uno sforzo compiuto coscientemente. Spesso questo meccanismo si tramuta in una trappola per noi stessi che ci troviamo a perseverare in inutili sforzi senza raggiungere l’obiettivo solo perché, probabilmente, quella meta che ”vogliamo” raggiungere forse in realtà non la desideriamo genuinamente ma è il frutto proprio di quei condizionamenti inconsci. Come afferma John Bargh: “il capitano saggio tiene conto dei venti e delle correnti, corregge le manovre quando gli elementi sono contrari e sfrutta la loro forza quando invece si muovono nella stessa direzione della nave. Quello cattivo insiste che l’unica cosa che conta è manovrare il timone, e così va a schiantarsi sugli scogli o finisce alla deriva.”

Il terzo momento consiste, quindi, nell’imparare maggiormente ad avere un sincero contatto con noi stessi, ad ascoltarci. Questo non vuol dire assumere un atteggiamento rinunciatario; bisogna sempre cercare di raggiungere un obiettivo che ci si è proposti, ma quando dopo reiterati tentativi andati a male compiuti con la forza di volontà, proviamo ad ascoltare le altre istanze che sono dentro di noi perché sono proprio queste le cose contro cui lotta la nostra volontà. Forse queste istanze, ossia altre parti di noi, vogliono altro e noi non le stiamo ascoltando impegnandoci in un conflitto con noi stessi. Queste altre istanze interne, forse, hanno altri obiettivi e per questo andrebbero prese in considerazione. Allora proviamo a ragionare in un modo del tutto diverso: se sto facendo troppa fatica a raggiugere uno scopo, la richiesta di ulteriori sforzi che comporterebbe infelicità e disagio ci dice che probabilmente siamo sulla strada sbagliata, che forse quella meta non fa per noi. Impariamo, dunque, non tanto a porci nella vita degli obiettivi ma a scegliere le nostre vere mete. Ricordiamo sempre che la forza di volontà quando è richiesta implica nella nostra mente un contrasto tra parti di noi stessi che “tirano” in direzione opposta. Così l’idea di affidarsi solo alla forza di volontà vuol dire annullare e schiacciare una di queste due istanze, ossia una parte di noi. Questo in termini di salute mentale, di equilibrio non è mai un buon modo di procedere perché agisce in modo unilaterale sopprimendo qualcosa di noi che, comunque, è importante.

John Bargh, “A tua insaputa”, Bollati Boringhieri

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la profondità

La profondità come atteggiamento per la vita

La profondità è atteggiamento mentale che, al giorno d’oggi sembra essere in disuso: la velocità, la moltitudine di stimoli a cui siamo esposti genera, infatti, uno stare al mondo più superficiale. Ma tutto questo ci rende infinitamente più deboli nell’affrontare le sfide che la vita ci sottopone…

“La profondità, è una forza. Perché per essere profondi dobbiamo resistere a seduzioni, intimidazioni e distrazioni. Dobbiamo attraversare la noia e l’incertezza, conservare la memoria, tollerare il nulla. Senza lasciarci distrarre o scoraggiare. Solo allora la relazione in cui siamo ci rivelerà tutta la sua bellezza; solo allora il soggetto che stiamo studiando ci mostrerà tutta la ricchezza del suo significato; o il progetto che abbiamo iniziato, sia esso preparare una vacanza o scrivere una sinfonia, incomincerà a dare i suoi frutti. (…)  Dunque la via della profondità è costellata (anche) di noia, di frustrazioni, di difficoltà. È un cammino arduo. Però è anche pieno di sorprese e capovolgimenti. Davanti agli ostacoli possiamo rinunciare o cambiar rotta, ma allora tutto ciò che raccogliamo è rimpianto e insoddisfazione. Invece proprio là dove ci verrebbe di lasciar perdere, possiamo imparare e crescere. (…) C’è, nel concetto di profondità, un elemento di forza che non si arrende, di combattività pronta ad affrontare mille ostacoli. A un certo punto si incontra la morte: nel senso di sconfitta, fallimento, disintegrazione, confusione, o vicolo cieco. Allora vacilliamo. Ci sentiamo scoraggiati. Ci vengono pensieri del tipo: “Non ce la faccio”, “Così non si va avanti”, “Questo non fa per me”, “Meglio gettare la spugna”. Ma questo avviene in ogni avventura degna di questo nome. È solo dopo che c’è stata una ‘morte’ che si può capire davvero la natura di una relazione, di un soggetto che si studia, di un’impresa in cui ci si impegna. Allora le nostre emozioni sono state evocate in profondità, le nostre risorse sono state stimolate e allenate. Solo allora abbiamo davvero avuto l’opportunità di capire. E abbiamo raggiunto la profondità.”

Commento – La profondità è una disposizione della nostra mente e del nostro animo che potremmo accostare alla resistenza: per essere profondi dobbiamo apprendere a “stare fermi”, a non cedere alle distrazioni, a concentrarci, a saper aspettare osservando e dando tempo alle cose di emergere o manifestarsi. Per fare questo ci vuole forza perché le tentazioni e le distrazioni che inducono un atteggiamento diverso dall’esser profondi sono molte. Ci vuole forza per coltivare la profondità ma da essa sarà possibile trarre forza interiore per affrontare ogni cosa nella vita. Amica della profondità è, infatti,  la volontà che ne è sia supporto sia emanazione. Per sviluppare un atteggiamento profondo occorre la forza della volontà ma a sua volta essa stessa ne uscirà rafforzata. La persona profonda è anche volitiva perché capace di persistere nei propri intenti e di resistere al “canto” delle tante sirene capaci di distrarre.

La profondità per essere esercitata ha bisogno del tempo, come per un pane che deve lievitare. Essa deve portarci al di là delle apparenze di ciò con cui entriamo in contatto e di ciò che ci accade e per fare questo ci vuole tempo perché le risposte o le reazioni veloci non ci danno l’opportunità di accedere ad altri aspetti della vita e molto spesso sono dettate dalla regola “fai la cosa più facile”. E la cosa più facile è per lo più l’evitamento della fatica, delle difficoltà, della possibile frustrazione. La profondità è un impegno con noi stessi perché è con se stesso che un individuo deve, in primis, essere profondo, cercando di essere sincero con se stesso nell’osservarsi per capire “chi è”, “cosa desidera”, “dove sta andando”. Se non si accede a questa conoscenza profonda non è possibile neppure sviluppare un atteggiamento-guida rispetto alle migliaia di stimolazioni che si ricevono, finendo così per comportarsi come una bandiera al vento, reagendo solo a quanto accade, incapace di resistere per perseverare nella direzione che ci si è dati. Come ricorda Piero Fanucci: “l’atteggiamento consumistico è una delle peggiori cose che lo spirito della modernità, pur così dinamico e variegato, ha portato con sé. Il grande ostacolo in tutto questo risiede proprio nel nostro strumento più prezioso: la nostra mente, che non solo è capace di approfondire, ma si distrae con grande facilità, e di continuo si sdoppia e accoglie parassiti di ogni sorta. (…) Per ovviare alla superficialità e alla distrazione il rimedio è uno solo: sviluppare la perseveranza e la concentrazione.”

Piero Fanucci, “La nuova volontà”, Astrolabio

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vivere secondo i propri valori

Vivere secondo i propri valori

Il successo non è dato solo dal raggiungimento di grandi obiettivi, ma sta nel fatto di riuscire a vivere secondo i propri valori. Questo proponimento più personale, quotidiano e legato alle nostre vite “normali”, si basa sulla capacità di restare collegati con ciò che riteniamo importante nella nostra vita. Vivere secondo i propri valori è, inoltre, il punto di ripartenza nei momenti di crisi quando tutto sembra perduto e le uniche certezze a cui possiamo fare appello sono, appunto, le cose in cui crediamo.

“Il primo passo, quando hai perso la rotta, è riconoscerlo coscientemente, essere pienamente presenti a ciò che sta succedendo. Allo stesso tempo, è necessario che accetti il fatto che, una volta che ciò è accaduto, non puoi fare niente per cambiarlo; non hai alcun modo di modificare il passato. E anche se può essere utile riflettere sul passato e pensare a cosa potresti fare diversamente la prossima volta, non ha senso che ci rimugini sopra e ti crocifiggi perché non sei perfetto. Quindi accetta di avere deviato dalla rotta, accetta che è una cosa passata e non puoi cambiarla, e accetta di essere umano e, in quanto tale, imperfetto. Il secondo passo è chiederti «Che cosa voglio fare adesso? Invece di indugiare sul passato, cosa posso fare di importante o significativo nel presente?». Poi il terzo passo è, naturalmente, agire con impegno coerentemente con quel valore. Il motto di Robert Bruce, «Se all’inizio non riesci, prova, prova ancora», è senz’altro straordinario ma è solo metà della questione. L’altra metà è che dobbiamo valutare se ciò che stiamo facendo funziona. Un motto migliore potrebbe essere: «Se all’inizio non riesci, prova, prova ancora; e se ancora non funziona, prova qualcos’altro». Ma anche qui occorre fare una sottile distinzione. Ogni volta che ti trovi di fronte a una sfida significativa, avrai alle spalle i demoni del «È troppo difficile». «Non ce la puoi fare! Lascia perdere!» ti dirà la tua mente. E allora la tentazione è quella di rinunciare e provare qualche altra cosa. Spesso però ciò che serve è proprio la perseveranza. Per dirla con il grande inventore Thomas Edison, «Molti fallimenti nella vita sono di persone che non si sono rese conto di quanto erano vicine al successo quando hanno rinunciato».”

Commento – Un diverso modo di intendere il successo è certamente quello di non legarlo al raggiungimento di mete grandiose, ma di considerarlo rispetto alla possibilità data ad ognuno di noi di vivere secondo i propri valori. Tale diversa modalità di intendere il successo e, quindi, di avere soddisfazione fa sì che sia possibile avere una personale piena realizzazione in ogni momento della nostra esistenza. Infatti, vivere secondo i propri valori è un principio attuabile e applicabile in ogni momento della propria vita. Basare il nostro stare al mondo su questa linea di principio ci rende immuni dalla necessità di avere l’approvazione altrui: non si avrà la necessità che qualcuno confermi le nostre scelte o i nostri comportamenti, o quello che pensiamo e sentiamo, dal momento che stiamo agendo secondo i nostri valori. Non è una questione di “giusto” o “sbagliato” ma di ciò in cui noi crediamo e ha significato nella nostra esistenza. Inoltre, il fatto di vivere secondo i propri valori è una utile strategia nei momenti di difficoltà, piccoli ma soprattutto in quelli più grandi, quando la vita ci chiede di ripartire dopo una crisi. In questo caso, dovendo costruire una strategia o dovendo fissare degli obiettivi, le indicazioni più sicure per noi saranno proprio i nostri valori: il fatto di identificarli come dei punti ben fermi dentro di noi ci darà la forza di agire quei comportamenti e quelle scelte che li rispettano. È in queste situazioni che ci rendiamo conto come il vivere secondo i propri valori voglia dire rispettare noi stessi e soprattutto non dipendere troppo dalle circostanze e dagli altri. Come dice Russ Harris: “nel corso della vita incontriamo ogni sorta di ostacoli, difficoltà e sfide, e ogni volta che questo succede ci troviamo di fronte a un’alternativa: possiamo accogliere la situazione come un’opportunità per crescere, imparare ed evolverci oppure possiamo combattere, lottare e fare di tutto per evitarla. Un lavoro stressante, una malattia, una relazione finita sono tutte opportunità per crescere come persone e sviluppare nuove e migliori abilità per affrontare i problemi della vita.”. Ma tutto questo a patto di ripartire sempre da noi stessi.

Russ Harris, “La trappola della felicità”, Erickson

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libertà del partner

La libertà del partner nella coppia

La libertà del partner nella coppia è spesso una situazione vissuta con timore come se questa potesse mettere a rischio la relazione. In realtà, la rivendicazione di un proprio spazio individuale al di fuori della coppia è una fase che attraversano tutti i rapporti nel momento in cui è normale l’esigenza di non voler chiudere la propria vita solo all’interno della coppia stessa…

“«Ho bisogno dei miei spazi». Una frase che tutti, prima o poi, abbiamo detto o che ci siamo sentiti dire. Una frase che, in ogni modo, ha scatenato inevitabilmente liti furibonde o musi lunghi. La libertà dell’altro è vissuta perlopiù come un pericolo per la coppia. C’è il timore che “dare la corda lunga” porti l’altro lontano da noi, lo induca a trovare nuovi stimoli, quelli che noi non siamo in grado di dargli, o addirittura a incontrare nuovi partner, chiudendo così l’ultimo atto della storia. Ma non è così. L’esperienza insegna che negare la libertà dell’altro (compresi noi stessi) è il modo migliore per rendere invitante la trasgressione. A parte questo, rende la relazione chiusa, soffocante, noiosa e ripetitiva. Quando il partner ci dice che ha bisogno dei suoi spazi, è il nostro modo di vivere il rapporto che deve essere messo in discussione. La simbiosi dei primi tempi è una fase, di sicuro gratificante per certi versi, ma è solo una fase. Poi la storia si evolve, per fortuna, e ciascuno dei due partner deve ritrovare la propria identità personale per farne dono all’altro in maniera completa. Pensiamoci bene: una coppia non è un’anima in due corpi. E piuttosto l’armonica fusione di due individualità, che mettono in comune il piacere di stare insieme. Quindi, sentirsi abbandonati se l’altro decide di coltivare qualche interesse al di fuori della coppia è solo il sintomo di un approccio sbagliato: quello che fa del possesso e del controllo la ragione per cui continuiamo a stare dentro la storia.”

Commento – Molto spesso in terapia di coppia si osserva la paura che insorge quando uno dei due partner inizia a prendersi o a rivendicare degli spazi propri. La libertà del partner viene vissuta come una minaccia per l’unità della coppia, come un segnale che qualcosa non va, come un cambiamento che crea una diversità rispetto all’idea di simbiosi con cui si dovrebbe vivere la relazione. Prima di tutto c’è da dire che l’esigenza di spazi propri al di fuori del rapporto con il partner è una fase che interviene in tutte le coppie dopo l’intento fusionale che guida gli inizi della relazione. La libertà del partner nasce dall’esigenza di riappropriarsi anche di una dimensione personale che è qualcosa in più e oltre la vita di coppia. È un bisogno naturale di potersi vivere in situazioni che non necessariamente devono essere condivise con il partner. La libertà del partner così non nasconde nel suo estrinsecarsi qualcosa di losco ma rappresenta un arricchimento per l’identità dei membri della coppia, oltre che apportare linfa vitale nel rapporto stesso. Come ripetiamo spesso alle coppie in terapie non è che negando questi spazi di libertà che si esorcizzano o si eliminano i tradimenti. Questi ci sono sempre stati e continueranno ad esserci al di là della concessione o meno di liberta al partner. Il tempo per vedersi con l’amante, uomini e donne lo hanno sempre trovato se è questo ciò che vogliono. Casomai nel discorso sulla libertà del partner è vero il contrario: se il rapporto di coppia diventa asfittico e chiuso, esso stesso potrà creare le condizioni per provare qualcosa di più piacevole e liberatorio. Come sempre il miglior antidoto al tradimento non è impedire la libertà del partner ma creare una relazione che sia piacevole, accogliente e n grado di dare benessere mentre la si vive. L’amore non deve configurarsi come una prigione in cui una volta entrati le persone devono rinunciare a tutto. Se la copia deve essere una risorsa, allora deve essere un contesto in cui i partner reciprocamente dovrebbero darsi sostegno nel realizzare la propria individualità in maniera libera, oltre che cooperare per lo sviluppo della vita a due.

Tra i fattori che giocano un ruolo nel limitare o voler impedire la libertà del partner troviamo: la fragilità personale; la gelosia; il pregiudizio che la vita di coppia richieda la rinuncia a se stessi. La fragilità interviene ogni volta che uno dei due partner finisce per appoggiarsi all’altro o a trovare nel vivere per l’altro la propria ragione di vita. È chiaro che in tali situazioni la libertà del partner è una minaccia a un simile rapporto, perché ostacola quella dipendenza che invece è rassicurante. La gelosia stessa ha come radice una propria fragilità e debolezza portando a vivere la vita che il partner può avere al di là della coppia come situazione potenziale per l’incontro con altre persone con cui intrecciare relazioni pericolose. La libertà del partner in una coppia va concepita come la possibilità che le persone hanno di perseguire i propri obiettivi, di coltivare le proprie passioni e interessi, pur mantenendo un legame di lealtà e progettualità con il partner. Questo significa che deve essere possibile trascorrere del tempo da soli o coltivando relazioni e hobby al di fuori della relazione senza che questo comporti un disimpegno o una distanza, ma gestendo la propria indipendenza secondo un sano equilibrio tra spazi individuali e spazi di coppia.

Raffaele Morelli, “Come amare ed essere amati”, Mondadori

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amore felice

L’ amore felice, come riconoscerlo…

È importante saper riconoscere un amore felice da un amore infelice. Sembrerebbe facile fare questa distinzione ma in realtà vista la grande quantità di relazioni dolorose che le persone portano avanti, la cosa non si rivela così scontata. Ecco allora un metodo molto semplice che nella sua apparente banalità nasconde un grande verità: per poter fare questa distinzione e saper riconoscere l’amore felice dobbiamo per prima cosa imparare ad essere sinceri con noi stessi…

“C’è un modo per capire se questi amori sono giusti o sbagliati? Se vai la pena di viverli oppure no? E fino a che punto mettersi in gioco?  Voglio suggerire un metodo che si basa proprio sulla provocazione della mia vecchia zia. L’ho chiamato “il termometro della felicità” e l’idea è molto semplice: un amore è giusto se da felicità mentre è sbagliato quando da infelicità. Troppo facile? Proviamo a pensare. Non sto consigliando di usare questo metro di misura per la prima fase di un rapporto, quando la passione, la novità dell’innamoramento colorano tutto di rosa. Propongo invece di intingere la cartina di tornasole dei sentimenti in quel sedimento che si forma nella relazione amorosa dopo un certo periodo di tempo. Allora ci si può chiedere in tutta franchezza: «Ma a me questa persona, non nelle parentesi alle Maldive, nei momenti di festa, ma nella sua quotidianità – perché gli amori vanno giudicati nella quotidianità, nella più banale declinazione della nostra vita – mi fa felice oppure no?». Laddove felicità non vuoi dire necessariamente camminare a mezzo metro da terra, non vuoi dire continua euforia, non vuoi dire toccare il cielo con un dito 24 ore su 24, il che sarebbe impossibile. Ma significa star bene, sentirsi rispettati, tranquilli, sereni e, anche se siamo persone di natura inquieta, essere felici nella propria inquietudine, perché un vero rapporto d’amore ci fa essere noi stessi. E se si soffre? É ovvio che l’amore non da solo felicità, ci sono per tutti dei momenti bui. Però a volte si chiamano amori anche quelle cose che fanno stare bene un giorno e male gli altri 364, un momento di paradiso che si paga con settimane di inferno. E addirittura quasi viene da pensare che gli amori che fanno soffrire servano per arrivare a quell’istante di felicità, come in una specie di gioco sadomasochista in cui a un certo punto non si sa più cosa si stia davvero cercando. La prima cosa che voglio dire dunque è che questi non sono amori felici, di conseguenza non sono un amori giusti.”

COMMENTO – Esiste l’ amore felice se sappiamo riconoscerlo e apprezzarlo nella sua semplicità e spesso nella sua pacatezza. I criteri sono sicuramente quelli indicati da Paolo Crepet e che al loro interno parlano di una profonda verità:  l’ amore felice non è quello che lascia senza respiro, che inebria, che ci sconvolge, quello passionale in ogni istante. Non che tutto questo non sia piacevole ma l’esperienza insegna che tutto questo è solo un aspetto dell’amore connesso alla prime fasi dell’innamoramento e che è giusto che ci sia. Ma se queste relazioni sono amore lo scopriamo dopo, quando il rapporto entra nella quotidianità e le persone diventano più vere nel rapportarsi l’una all’altra. L’ amore felice è un incastro che proprio nel rispetto della nostra diversità da quella del/della partner, ci permette di sentirci nel posto giusto accanto alla persona che abbiamo scelto. Esso produce quel senso di benessere derivante dal fatto di poter essere noi stessi fino in fondo nel rispetto dell’altro e sentendoci rispettati dall’altro. Poi c’è l’amore infelice ma credo che questo sia facile da riconoscere perché chi vi si trova invischiato lo sperimenta sulla propria pelle, vivendo tutto il malessere che ne deriva. La vera difficoltà, in questi casi, non sta dunque nel fatto di non accorgersi di vivere una relazione sbagliata, ma nel non saper ammetterlo a se stessi traendone poi le giuste conseguenze. Ciò accade per tanti motivi: dipendenza affettiva, fragilità interiore, paura del cambiamento. Altre volte subentrano situazioni oggettive a non permettere l’interruzione di questi rapporti: disagio economico, figli, mutui contratti, etc. Anche queste condizioni a volte impediscono di mettere fine agli amori infelici. In ogni caso il primo passo da fare quando si vivono amori sbagliati è quello di ammettere a se stessi questa situazione e cominciare a lavorare interiormente per imparare a non dipendere più da essi, recuperando il proprio benessere al di là di tali rapporti. Arrivare poi, nei tempi e nei modi possibili per ognuno, a mettere fine ad essi per recuperare la possibilità di vivere in altre condizioni il proprio amore felice.

Paolo Crepet, “Gli incontri sbagliati. I volti dell’amore”, Mondadori

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amori tossici

Gli amori tossici

Gli amori tossici sono quegli amori sbagliati in cui si verificano al contempo due situazioni: da una parte la presenza di un estremo bisogno di amore e riconoscimento che nasce da una fragilità interiore della persona, dall’altra la presenza di una persona che consapevolmente o meno vuole approfittarsi di questa debolezza per trarne un vantaggio psicologico per sé. Analizziamo al femminile queste illusorie scelte d’amore che rischiano di creare pericolose situazioni di sofferenza…

“Alice, la famosissima protagonista di Alice nel paese delle meraviglie, può bene rappresentare alcune situazioni che inducono all’innamoramento che ho definito una scelta illusoria. (…) Ritornando ad Alice, questa corre dietro al Coniglio bianco e, precipitando dentro il lungo cunicolo dove questi è sparito, si trova in un atrio con diverse porte e da una serratura scorge “un bellissimo giardino, il più delizioso giardino che avesse visto in vita sua”. Immediatamente sorge in lei il desiderio di entrare in quel luogo, vissuto come incantato, dove i suoi sogni si potranno avverare. Questo tipo di sentimento corrisponde a ciò che viene chiamato innamoramento, il desiderio prepotentissimo di entrare nello spazio psicologico e fisico dell’altro. Il Coniglio bianco che induce Alice a seguirlo nel giardino può essere una persona “innocente” che non ha nessuna intenzione negativa verso di lei. Nella vita, però, molte persone approfittano dell’emozione destata per cercare di soddisfare il proprio bisogno; questo avviene quando il Coniglio bianco è egocentrico, narcisista, predatore e “attira la vittima nel suo territorio” inviando segnali ingannatori. (…) Nella realtà il Coniglio bianco (…), compagno di lavoro e di scuola, incontrato in treno o al bar, può benissimo inviare ad Alice questi segnali, ma non per “giocare insieme nel giardino”, bensì per strappare ad Alice le cose che a lui servono, del tutto incurante di quanto esse siano insostituibili per lei. E questo viene fatto a volte a livello conscio, altre volte, ed è più pericoloso, a livello inconscio. Come abbiamo detto questi inganni oggi sono più facili nella realtà virtuale in quanto, mancando la comunicazione visiva, quella analogica (del corpo) non è percepibile e con le parole sono nate le menzogne. Anche le Alici però “hanno desideri e limiti”! Spesso le Alici sono persone che, oltre che di amare e di provare sensazioni nuove, hanno bisogno di essere amate e accettate perché hanno sperimentato situazioni di rifiuto che le hanno indotte ad avere un’immagine di sé svalutata. Può trattarsi di persone poco attraenti o che credono di essere tali, rifiutate, più o meno consciamente, dalla madre. Questo tipo di “vittima” non è mai in grado, per l’intensità del suo bisogno d’amore, di valutare correttamente l’altro.

COMMENTO – Tutte le relazioni comprese quelle d’amore, sia sane sia tossiche, si costruiscono in due. Questa è la premessa necessaria per parlare degli amori tossici e per non cadere nell’errore di analizzare solo il comportamento narcisistico ed egocentrico del cosiddetto carnefice. Questo anche per ridare alle vittime di questi amori tossici gli strumenti per sottrarsi a tali situazioni senza indulgere in analisi dei loro carnefici senza però trovare la forza di sottrarsi ali loro giochi. Sicuramente uomini che irretiscono con l’inganno le proprie compagne, con promesse di amori perfetti, ce ne sono e continueranno ad esserci: chiamiamoli narcisisti, manipolatori, egocentrici, comunque continueranno a tessere la loro tela sperando che qualche donna vi rimanga intrappolata. Spostiamo però l’accento sulla vittima, consapevole o meno, di queste trame per comprendere che se una donna riesce in primo luogo a non subire le proprie fragilità, pensando di cercare conferme a se stessa con il “fidanzato” di turno, riuscirà a ben guardarsi dalle promesse di simili corteggiatori. Sicuramente il desiderio di vivere un amore appagante è presente in ognuno di noi e le allettanti promesse che vengono apparecchiate per trarre in inganno sono trappole in cui è facile cadere. Ma se una donna non è resa insicura da fragilità che ne minano il giudizio e la capacità di valutazione, saprà presto riconoscere questi amori tossici e sarà in grado di prendere le distanze da essi. E qualora avessero cominciato relazioni di questo genere avrà la forza di separarsi da esse, smascherando così e annullando il pericoloso gioco. Gli amori tossici non danno nulla ma rubano solo la vita di chi al loro interno ha il ruolo più debole. Gli amori tossici travestiti da illusori rapporti  affettivi conducono alla perdita della propria identità attraverso comunicazioni confusive, promesse non mantenute, ricatti affettivi.

Come riconoscere un amore tossico? Valga a proposito questa breve considerazione: sono tossici quei rapporti in cui le persone coinvolte non si sostengono e supportano a vicenda ma dove l’una tende a manipolare a proprio vantaggio l’altra; sono tossiche quelle relazioni in cui c’è mancanza di rispetto e di coesione tra i partner, in cui vengono agiti comportamenti di controllo e in cui si sperimentano spesso sentimenti di risentimento, stress e vissuti depressivi. In questi casi la prima cosa da fare è quella di non nutrire la falsa attesa e speranza che gli amori tossici possano cambiare in relazioni sane. Piuttosto è fondamentale che la donna abbia il coraggio di ascoltare se stessa e che sappia vedere con oggettività la trappola in cui è caduta, rifiutandosi di continuare a partecipare al gioco, mettendo una distanza tra se stessa e il partner. In questi casi può essere determinante l’appoggio o il sostegno di persone fidate e anche di psicoterapeuti che aiutino a rafforzare l’intenzione di chiudere il rapporto, cercando ad analizzare le proprie debolezze che hanno reso possibile quella relazione.

Jole Baldaro Verde, “Illusioni d’amore”, Raffaello Cortina Editore

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il desiderio

Il desiderio e l’autocontrollo

Il desiderio è una parte importante nella vita di ogni individuo, ma la sua gratificazione deve trovare un giusto equilibrio con l’altra fondamentale tendenza essenziale all’esistenza, l’autocontrollo. L’incapacità di resistere ad ogni desiderio o quanto meno di differirlo, crea nell’individuo una inclinazione all’impulsività che alla lunga si rivela dannosa. L’esercizio dell’autocontrollo è invece un’arte capace di fortificarci e che, alla lunga, paga sempre.

“Cedere agli impulsi, se può dare un piacere immediato, è un residuo infantile, un volere tutto subito. A volte questo desiderio irresistibile è accompagnato dalla convinzione più o meno esplicita di essere in credito: la gratificazione mi spetta. Il desiderio è trasformato in diritto. Nessun ritardo è tollerato; nessuna frustrazione è sopportata. La mancata gratificazione è accolta con irritazione, sdegno, a volte furore. Certe volte sul volto di chi vede frustrate le sue aspettative compare un’espressione sdegnata di stupore, come se fosse assurdo o inaccettabile che il mondo non funzioni secondo le sue aspettative. Affrontare la vita in questo modo è pericoloso, perché espone a gravi delusioni, e anche alla manipolazione altrui. Ci mette alla mercé del bambino capriccioso dentro di noi, che urla, strilla e pesta i piedi, e dipende in maniera totale dall’espressione dei suoi impulsi e dalla soddisfazione dei suoi desideri. È un handicap che ci fa perdere molte occasioni d’oro e ci fa correre parecchi rischi inutili. (…) Quante volte ci siamo pentiti di aver seguito un impulso senza pensare? Gli impulsi sono centrifughi: ci portano lontano dal nostro centro, verso qualcosa che è altro da noi. Non c’è nulla di male in questo, e la nostra stessa sopravvivenza è basata sulla capacità di lasciarci tirare fuori da noi stessi. Se però questa tendenza non è bilanciata da una capacità simmetrica di ritornare a noi stessi – una tendenza centripeta – il risultato sarà una mancanza cronica di equilibrio: una dispersione perenne che ci fa vagare fra mille tentazioni, come un viaggiatore che erra in molti paesi e si dimentica la strada per tornare a casa.”

COMMENTO – La possibilità di autoregolare il desiderio  è alla base stessa del vivere sociale: proviamo a immaginare cosa succederebbe se tutte le persone seguissero solo i propri impulsi e non facessero altro che perseguire i propri desideri. Regolare il desiderio vuol dire, infatti, controllare la propria aggressività, l’impazienza; significa essere capaci di ponderare le conseguenze delle azioni che potremmo compiere. Il desiderio ci rende inconsapevoli schiavi di meccanismi manipolatori sia all’interno di relazioni malate sia rispetto all’inganno dei meccanismi consumistici.  Infine, la capacità di regolare il desiderio ci permette di coordinare il nostro agire con quello degli altri, attraverso la cooperazione e l’assunzione di responsabilità. Come nota lo psicoterapeuta Pietro Ferrucci, tanto più siamo in grado di dominare il desiderio, tanto più saremo in grado di acquisire una forza interiore che si renderà disponibile per molte altre prove nella nostra esistenza: affrontare le avversità, raggiungere degli obiettivi, mantenere dritto il timone della nostra barca senza essere troppo influenzati dal canto delle tante sirene pronte a distrarci. Ma quale è la strategia migliore per compiere questo lavoro sul nostro desiderio e renderlo meno padrone della nostra vita. Al di là del fatto di acquisire consapevolezza di noi stessi, la strada maestra è quella di “riuscire a distanziarsi dall’impulso per renderlo meno potente.” Quando il desiderio appare nella nostra mente con tutta la sua forza, spesso pensiamo di essere un tutt’uno con esso, permettendogli di invadere completamente il nostro Io: in questi momenti noi finiamo per essere il nostro desiderio. Ecco, allora, che prendere le distanze da esso significa disidentificarci  ossia apprendere che noi siamo al di là del nostro desiderio che, quindi, è solo qualcosa di temporaneo e passeggero. Prendendo le distanze dal desiderio possiamo considerarlo come un vero e proprio oggetto da analizzare e comprendere meglio: così facendo esso non è più solo un’impellente bisogno da soddisfare ma una parte di noi con cui dialogare e comprendere. Come sottolinea Pietro Fanucci: “la scoperta che ci possiamo distanziare dai contenuti della nostra psiche è fondamentale. Di solito noi siamo vissuti da impulsi e desideri. Ci colgono di sorpresa, ci assalgono con veemenza, ci fanno credere di essere irresistibili. Ci convincono di essere quanto di meglio esista per noi in quel momento. Noi però possiamo imparare a distanziarcene.”

Compiere consapevolmente questa azione di distacco e disidentificazione vuol dire molto semplicemente imparare a saper aspettare, coltivare la pazienza. Se ci pensiamo bene questa semplice conquista è alla base del divenire adulti, abbandonando la pretesa infantile del “tutto e subito”. Saper aspettare vuol dire essere in grado di distogliere la nostra attenzione dalla gratificazione immediata e questo può consentirci una visione più a lungo raggio utile a costruire progetti e a renderci immuni dalle ricompense immediate. Sebbene il termine “disciplina” sia oggi poco di moda, esso indica sempre una capacità fondamentale per gestire la propria vita e raggiungere dei traguardi. La disciplina ci libera dal bisogno di ricompense e rinforzi nell’immediato, dal costante incoraggiamento di qualcuno perché il nostro miglior alleato siamo noi stessi. Come nota Pietro Fanucci la disciplina è importante perché ci rafforza rispetto all’arrenderci al primo impulso che compare, abituandoci a “saper vedere lontano, riflettere su scopi e metodi, non lasciarsi controllare dall’emotività, ridimensionare le frustrazioni, destreggiarsi fra mille ostacoli. È la capacità di valorizzare un domani invisibile anziché un oggi che ci strattona con prepotenza. Il tempo, per chi non riesce a ritardare la gratificazione, è nemico. È sentito come un ostacolo che lo fa penare e si frappone fra lui e la felicità.”

Piero Ferrucci, “La nuova volontà”, Astrolabio

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individuo viziato

L’ individuo viziato

L’ individuo viziato ha implicitamente una visione dei rapporti interpersonali in cui trova difficilmente posto l’idea della reciprocità e della cooperazione. Le basi di questa unilateralità dei rapporti in cui tutto gli è dovuto ha le sue basi nei processi educativi nell’infanzia…

“Quando cerchiamo le radici del sentimento sociale e le modalità che nell’uomo ne rendono possibile lo sviluppo, ci imbattiamo per prima cosa nelle madri. Infatti la madre è la prima guida e il fattore più importante. La natura le ha affidato questo compito. Fra madre e bambino esiste un rapporto di cooperazione, di intima comunanza di vita e di lavoro, dal quale entrambi traggono vantaggio. (…) Tutti gli altri, il padre, i fratelli, i parenti e i vicini, possono favorire questa cooperazione, insegnando al bambino a trattare il prossimo come si tratta un proprio simile, non un avversario. Prima il bambino sa di potersi fidare degli altri, prima impara a collaborare e prima sarà propenso a cooperare autonomamente e senza riserve. Se invece la madre lo vizia e lo esonera dalla cooperazione, pensando e agendo in vece sua, il bambino avrà uno sviluppo parassitario e si aspetterà tutto dagli altri. Porrà sempre se stesso al centro di ogni situazione e aspirerà a sottomettere tutti gli altri. Svilupperà tendenze egoistiche e si crederà in diritto di sopraffare il prossimo, di essere coccolato, di prendere e di non dare. Bastano uno-due anni di questo tipo di educazione per bloccare lo sviluppo del senso sociale e la disponibilità a cooperare. Ora appoggiandosi ad altri, ora assoggettandoli per il gusto di sopraffarli, il soggetto viziato prima o poi finisce per cozzare contro la resistenza di chi non accetta il suo stile di vita, di un mondo che esige solidarietà, cooperazione. Quando le sue illusioni sono cadute, egli accusa gli altri e avverte soltanto ostilità nella vita. Le sue domande si ispirano al pessimismo: «Ha senso la vita?», «Perché dovrei amare il mio prossimo?», ed anche quando si adegua alle legittime richieste di un principio fondato su un’idea attiva della società, lo fa solo per evitare un probabile castigo. Posto di fronte ai problemi della vita: rapporti sociali, lavoro, amore, non trova la via dell’interesse sociale e subisce uno shock, un trauma fisico e psichico, e batte in ritirata. Ciononostante conserva l’atteggiamento acquisito nell’infanzia, per cui è convinto di aver subìto un torto.”

COMMENTO – Come ben sottolinea lo psicoanalista Alfred Adler l’origine dello sviluppo dello schema mentale che guida il comportamento dell’ individuo viziato si pone nell’infanzia: il bambino in questi casi è il centro delle attenzioni dei propri genitori che costruiscono intorno a lui rapporti di protezione emotiva per cui ogni desiderio viene esaudito prontamente senza richieste, nei suoi confronti, di attivazione personale. Tutto gli è dovuto senza che a questo ricevere faccia seguito anche un dare all’altro. Altrimenti possono contribuire allo strutturarsi di un individuo viziato anche dinamiche di deprivazione da parte dei genitori, per cui a fronte di una carenza subita l’individuo viziato matura l’idea di una necessaria compensazione che la vita, e quindi gli altri, gli dovrebbero: “se fino ad ora non ho avuto niente, adesso mi aspetto che tutto mi venga dato”.  L’individuo viziato è una persona che pretende in virtù dell’idea di essere “speciale”, per cui manifesta una tendenza a dominare gli altri con le proprie richieste e pretese. Ugualmente tende ad essere controllante, esigendo che ogni cosa venga a fatta a suo vantaggio e alla sua maniera. Se queste sue pretese non sono soddisfatte egli sarà portato ad arrabbiarsi nella convinzione di stare subendo un torto. Per tali motivi l’individuo viziato è portato a raggiungere i propri scopi anche passando sopra gli altri, incurante delle possibili conseguenze a causa di una sua presunta superiorità. Per i propri obiettivi egli usa più o meno coscientemente la manipolazione, senza fare attenzione al fatto di stare usando gli altri dal momento che è convinto di farla sempre franca.

Dinanzi ad un proprio bisogno l’individuo viziato mostra una certa impulsività, retaggio di un bambino a cui non sono stati posti adeguati limiti sia per carenza di contenimento sia per le eccessive limitazioni avute che lo hanno portato a maturare una forma di ribellione. Possiamo, infatti, osservare in lui un generale problema di controllo degli impulsi in molte le aree della vita: l’individuo viziato è  sovente intollerante alla frustrazione e alla routine, oltre ad essere tendenzialmente indisciplinato. Anche senza che se ne renda conto l’individuo viziato proprio per questa sua propensione a ricevere dagli altri, è soggetto a sviluppare forme di dipendenza. La sua tendenza a focalizzarsi solo su se stesso fa sì che egli non si renda conto dei problemi degli altri, o meglio le proprie difficoltà ed esigenze sono sempre più importanti di qualunque altra cosa. Ne deriva un atteggiamento da egoista per cui tutto il mondo gira intorno a lui stesso. Tutto ciò potrebbe far pensare che l’individuo viziato possa vivere bene, libero da ogni affanno perché la presenza degli altri lo mette al riparo da ogni fatica. Ma in realtà le cose non stanno così dal momento che prima o poi gli altri si ritireranno da questa sua tirannia lasciando l’ individuo viziato da solo, confuso e impotente.

Alfred Adler, “Il senso della vita”, Newton

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giovani adulti

I giovani adulti e i genitori

I genitori di giovani adulti si trovano ad affrontare una fase particolarmente complessa del ciclo vitale familiare dal momento che su di loro vengono a convergere una serie di compiti evolutivi che mettono a dura prova gli equilibri raggiunti o, in alcuni casi, evidenziano problematiche relazionali finora in omrba.

“I genitori di giovani-adulti si trovano a dover assumere in questo momento molteplici ruoli: convergono infatti in questo periodo sia il passaggio all’età adulta dei figli, sia la propria transizione alla fase di mezza età. Non a caso la generazione dei genitori dei giovani adulti viene denominata sandwich generation, a indicare la pluralità di versanti sui quali essi sono impegnati in questa fase del ciclo di vita in risposta alle richieste che la generazione precedente e la seguente avanzano. I genitori di mezza età costituiscono la generazione cerniera, il fulcro delle relazioni intergenerazionali e nella nostra società rappresentano anche la generazione che detiene il maggior potere e responsabilità. Essi rivestono un ruolo centrale a livello familiare e sociale. In quest’ultimo ambito affrontano compiti evoluti sia sull’asse coniugale sia su quello filiale sia su quello genitoriale. (…) Compiti di sviluppo in quanto coniugi –  Tocca ai membri della generazione di mezzo impegnarsi in un rinnovato dialogo e in una riorganizzazione della vita di coppia all’insegna del sostegno reciproco. L’obiettivo di maggior rilievo sull’asse coniugale in questa fase è proprio il reinvestimento nella relazione di coppia, intesa come coppia coniugale e non solo come coppia genitoriale, anche in vista della fuoriuscita dei figli dalla casa parentale. La coppia inizia a essere in parte liberata dall’onere della cura quotidiana dei figli e a poter godere di maggiori spazi e tempi per sé proprio come coppia. (…) Compiti di sviluppo in quanto figli – In questo periodo della vita i membri della coppia di mezza età in quanto figli, devono affrontare la prova della malattia o anche della morte dei propri genitori. L’obiettivo della generazione di mezzo sull’asse filiale è rappresentato dall’accettazione dell’invecchiamento da parte dei propri genitori e dell’assunzione della loro cura in caso di malattia. (…) Compiti di sviluppo in quanto genitori – (…) Il compito evolutivo dei genitori dei giovani adulti è quello di “autorizzare” e spingere i figli verso l’assunzione della piena responsabilità adulta che comprende un impegno, oltre che sul piano dello studio e del lavoro, anche su quello degli affetti fino alle conseguenze generative.”

COMMENTO – Quanto sottolineano Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli può a prima vista sembrare ovvio e scontato: i due studiosi rimarcano avvenimenti e passaggio della vita familiare che tutti conoscono e a cui hanno assistito. Eppure nelle attuali generazioni di genitori e figli sembra essere tutto estremamente difficile nell’affrontare questa fase del ciclo vitale. Complesse dinamiche sociali che si sono riverberate nell’organizzazione familiare, in generale, rendono difficile e a volte drammatica tale transizione. Proviamo a elencare alcuni motivi che sono alla base della difficoltà a vivere questa fase evolutiva della famiglia. Chiaramente non in tutti i casi tali motivi si presentano pienamente, anche se essi rappresentano comunque un ostacolo sottinteso per tutte le famiglie.

Esiste una doppia condotta da parte dei genitori ugualmente deleteria nel favorire l’indipendenza dei propri figli: da una parte un atteggiamento disimpegnato che si manifesta in una deresponsabilizzazione genitoriale nell’educazione e nel sostegno verso i figli a partire dalla loro adolescenza, dall’altra l’opposta tendenza a proteggerli oltremodo, rendendoli così inermi rispetto all’impatto con la realtà esterna alla famiglia. Entrambi questi atteggiamento creano problematicità nella fase del distacco per opposti motivi, producendo forti tensioni all’interno della famiglia che per abitudini pregresse farà fatica ad assumere condotte utili a favorire l’emancipazione dei figli. Infatti, in questa fase è opportuno che i genitori assumano verso di essi sia un atteggiamento più distaccato facendo un passo indietro rispetto alla vita dei figli, sia un atteggiamento di sostegno se qualcosa dovesse andare storto. Così, sia i genitori troppo disimpegnati sia quelli troppo protettivi faranno difficoltà a modulare il loro rapporto con i figli secondo le necessità.

In via più generale può giocare un ruolo sfavorevole a questa fase anche la più ampia inclinazione, attualmente molto diffusa, di mal sopportare il sacrificio, l’impegno, l’assunzione di responsabilità. Questa disabilità può impattare a vari livelli, sia sui genitori sia sui figli rispetto ai propri compiti evolutivi, facendo così saltare quei meccanismi di solidarietà e supporto fondamentali per superare ostacoli e difficoltà.

Più specificamente, svolge un ruolo negativo anche la scarsa capacità negli adulti attuali di saper costruire e mantenere rapporti di coppia stabili ed equilibrati, prevalendo modalità di soluzione ai conflitti e alle insoddisfazioni orientate alla rottura dei legami e alla loro scarsa cura. Così è facile che proprio venendo a mancare la “colla” della genitorialità molte relazioni coniugali finiscano per naufragare con le ovvie conseguenze emotive sui figli in una fase in cui si dovrebbero sentire meno coinvolti nelle vicende familiari.

Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli, “Il famigliare”, Raffaello Cortina Editore

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sentimento della gelosia

Il sentimento della gelosia

Il sentimento della gelosia non è una reazione emotiva semplice e banale come si potrebbe credere dal momento che spesso tendiamo a considerarla una risposta ovvia e naturale. In realtà essa sottende complesse dinamiche mentali e arcaici meccanismi psichici…

“Una caratteristica particolare della gelosia è il senso di umiliazione che invariabilmente l’accompagna per aver danneggiato la fiducia in se stessi e il senso di sicurezza. La perdita della fiducia in se stessi spesso non è sentita consciamente da una persona gelosa. Quanto più il geloso è furioso e aggressivo, tanto meno si sente umiliato e viceversa, meno si sente aggressivo e arrabbiato e più è miserabile e depresso. La persona gelosa inevitabilmente si sente umiliata e inferiore e, meno consciamente, indegna, depressa e colpevole. Questo vuol dire che non essere amata, o credere di non esserlo, significa per lei inconsciamente che non è da amare, che è odiosa, e piena di odio. Essa sente, inconsciamente o no, che è stata abbandonata e negletta dalla persona che ama perché non è abbastanza buona per lei. La depressione e la sensazione di essere indifesa di fronte al pericolo che questo pensiero di essere non-amabile fa sorgere in lei (insieme a tutte le paure di solitudine che lo accompagnano) sono insopportabili. Questo spiega l’acutezza  e la torturante amarezza della gelosia, che tuti noi ci sforziamo di mitigare condannando e odiando qualcun altro, in questo caso il rivale. (…) Ora, l’uomo che ha perduto, o pensa di perdere, la donna che ama, reagisce non solo alla perdita del possesso e dell’amore di lei, ma anche alla perdita di questo amore e possesso come prove di fronte a se stesso del proprio valore e quindi della sicurezza nel proprio mondo mentale, per non parlare del mondo esterno. Il suo valore di fronte a se stesso può essere rappresentato dalla forza, dall’intelligenza, dalla potenza sessuale, dalle virtù morali, dalla salute, per citare solo alcuni tra i molteplici simboli di bontà che variano per ciascuno individuo; ma in ogni caso il simbolo rappresenta le rassicurazioni scelte dall’individuo, le sue risorse per proteggersi e contrapporsi ai pericoli delle forze malvage dentro di lui. Un partner sessuale è sentito (specialmente nella relazione stabile del matrimonio dove esiste una certa responsabilità e impegno da ambo le parti), come un importante riconoscimento e perciò come una prova di quella preponderanza del bene sul male in noi stessi che tutti noi cerchiamo e da cui dipende la nostra pace mentale.”

COMMENTO: Il sentimento della gelosia può essere sperimentato in tante circostanze e in differenti situazioni interpersonali ma non c’è dubbio che la tipica sua manifestazione la ritroviamo nella rivalità in amore. Il sentimento della gelosia nella sua più struttura di base è una reazione aggressiva verso il/la rivale e al tempo stesso verso il proprio oggetto d’amore. La ragione profonda di tutto questo non sta solo nel sentimento di possesso che viene messo in discussine ma nel vissuto emotivo che questa minaccia mette in moto. Si tratta della percezione che abbiamo di noi stessi di poter essere amati, di avere un valore, che l’eventuale perdita dell’oggetto d’amore mette in discussione dando spazio a vissuti di autosvilimento e disistima. Come ben sottolinea la psicoanalista Melania Klein tali vissuti si collegano e riattivano analoghe emozioni provate originariamente nell’infanzia e riattivano le primitive reazioni di rabbia e depressione con cui reagimmo ad esse. I percorsi evolutivi e le esperienze che contraddistinguono la nostra storia, il passaggio dall’infanzia alla vita adulta dovrebbe essere contraddistinto dalla possibilità di arginare questi vissuti (apprendere a contenerli) di pari passo con la maturazione di una salda autostima e amor proprio in grado di non sgretolarsi qualora si verifichi la perdita dell’oggetto d’amore in età adulta. Ma spesso, nei casi estremi, quando ciò non accade e l’immaturità emotiva la fa da padrona, il sentimento della gelosia diventa intollerabile e, nella vita adulta, si tende a ripetere in maniera stereotipata le infantili reazioni alla perdita dell’oggetto amato. Dobbiamo tenere conto che, anche da adulti, permangono comunque dentro di noi ben nascosti e contenuti dei vissuti negativi relativi a noi stessi: un dubbio di non poter essere amati perché indegni alberga sempre nella nostra vita interiore, pronto a irrompere nella nostra coscienza quando la nostra amabilità viene messa in discussione dalla rottura di legami affettivi.

Come rileva Melania Klein: “gli individui variano anche in questo; effettivamente non ripetiamo le nostre esperienze infantili per puro divertimento. Questa ripetizione avviene per la stessa ragione per cui ci siamo comportati in quel modo la prima volta, e perché, anche se siamo cresciuti, non abbiamo trovato ancora una strada migliore.” Queste riflessioni sul sentimento della gelosia aprono poi la strada a considerazioni più ampie sulla natura e il senso dell’amore inteso anche come difesa contro quel sentimento che è “la possibilità di non essere degni d’amore” insito sempre in ognuno di noi. I legami d’amore sono allora una fonte di benessere anche perché arginano questo vissuto, rappresentando un baluardo contro il dolore, la distruttività e la povertà interna che potremmo sperimentare. Si comprende così il perché il sentimento della gelosia non è solo una risposta alla perdita del possesso ma un’esperienza conseguente alla paura più o meno consapevole di non essere degni d’amore.

Melania Klein e Joan Riviere, “Amore, odio e riparazione”. Astrolabio

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